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Foxconn: non basta la clausola anti-suicidi. Un altro dipendente si toglie la vita nell’azienda che produce device per Apple, Nokia e Dell

Cina


Non sono bastate le scuse del patron Terry Gou, né – come era prevedibile – l’imposizione di impegnarsi per iscritto a non suicidarsi: un altro dipendente della Foxconn, il decimo in 5 mesi, si è infatti tolto la vita, lanciandosi dal balcone di un edificio dormitorio della città-fabbrica di Shenzhen, che produce dispositivi elettronici per Apple, HP e Samsung, tra gli altri.

La vittima, riferisce l’agenzia Nuova Cina, aveva 23 anni e veniva dalla provincia nord-occidentale di Gansu. Altri due dipendenti avevano tentato di suicidarsi ma sono sopravvissuti, mentre un altro impiegato era morto lanciandosi da un edificio dalla filiale di Lanfang e, sempre nello stesso complesso, una ragazza era stata trovata morta nel dormitorio. La causa ufficiale era stata attribuita a un attacco cardiaco.

 

Apple, HP e varie altre società che affidano alla Foxconn la produzione dei componenti dei loro gadget, intanto, hanno fatto sapere di aver avviato un’indagine per valutare la risposta dell’azienda a questa catena di suicidi, che ricorda quella che ha colpito, in Europa, France Telecom. Ieri, intanto, i vertici della società taiwanese hanno cercato di porre rimedio alla situazione con delle scuse ufficiali – che però, evidentemente, non sono state sufficienti – e pensando bene di far firmare ai dipendenti un impegno scritto a non suicidarsi.

“Prometto di non fare del male a me stesso o agli altri in maniera irreparabile” recita il documento che impegna i dipendenti a non darsi la morte e ad acconsentire a visite psichiatriche nel caso in cui sia riscontrato “uno stato mentale o fisico anormale”. Una scelta, precisa la lettera, “per il mio bene e quello degli altri”.

 

A differenza di quanto avvenuto a France Telecom, i vertici dell’azienda hanno almeno il merito di essersi fatti carico della tragica escalation di suicidi.  “Siamo estremamente dispiaciuti di quanto è accaduto”, ha detto Terry Gou, il boss dell’azienda, accompagnando i giornalisti a fare un giro in quella che da molti è stata definita una fabbrica-prigione, per mostrare alla stampa che, in realtà, le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti non possano considerarsi la causa della catena di morti. “In questi ultimi due mesi ho avuto paura di rispondere al telefono la notte tardi o la mattina presto, perché siamo stati incapaci di prevenire questi incidenti”, ha aggiunto il 59enne Gou, difendendo, però, la risposta della società: “Abbiamo bisogno di tempo, ma abbiamo fiducia e una forte determinazione a risolvere il problema. Da un punto di vista scientifico, non sono certo che possiamo bloccare ogni caso. Ma come datori di lavoro responsabili, dobbiamo prenderci la responsabilità di prevenirne il piú possibile”, ha affermato ancora Gou, che ha fondato la Hon Hai (che opera col marchio commerciale Foxconn) nel 1974, portandola a diventare il maggiore produttore mondiale di elettronica per profitto, con appalti per la produzione dei MacBook di Apple, ma anche dei device di Dell, Nokia, Samsung.

 

“Siamo profondamente scossi e dispiaciuti dai recenti suicidi alla Foxconn e crediamo che la faccenda vada presa molto sul serio”, ha dichiarato Apple. Dello stesso tono le affermazioni di Dell, Nokia e HP.

 

Eppure sono molti i testimoni – da giornalisti ‘infiltrati’ a dipendenti – che confutano la tesi di Gou, riferendo degli orari di lavoro massacranti e sottopagati (152 dollari al mese, il minimo salariale, che però non tiene conto delle molte ore di straordinario richieste dall’azienda), di pause pranzo quasi inesistenti, di rigidi controlli in stile ‘militare’ anche all’interno dei dormitori.

Il management ha presentato un piano che nelle intenzioni dovrebbe aiutare i lavoratori a ritrovare la serenità: prevista l’assunzione di un team di psicologi, la presenza di monaci per allontanare gli spiriti maligni, l’attivazione di  una linea telefonica di aiuto e, anche, una ricompensa per di 30 dollari per chi segnala un collega, che si sospetta essere tendente al suicidio, una stanza con sacchi da pugilato con la fisionomia dei capi, per permettere ai lavoratori di sfogarsi, e musica diffusa nelle aree di lavoro.

 

Nella città-fabbrica di Shenzhen vivono e lavorano 300 mila persone, per lo più giovani che – come ha sottolineato il direttore dell’associazione newyorkese China Labor Watch, Li Qiang – arrivano da province lontane e “si sentono abbandonati sempre più a se stessi”, non essendo abituati, come lo erano i loro genitori, al lavoro duro e orientato solo al guadagno economico dei ‘padroni’.

“I migranti di nuova generazione – ha spiegato lo psicologo e docente universitario Li Guoruivivono in un’epoca in cui è più facile informarsi, attraverso i telefonini e internet ed è quindi più facile fare il paragone con la situazione dei coetanei nel resto del mondo”.

I giovani lavoratori ha aggiunto, “non vogliono più essere considerati soltanto ‘macchine per fare soldi’”, e sono sopraffatti dallo sconforto per le loro condizioni di lavoro.

Una delle vittime di questa catena di suicidi, il 19enne Li Hai, aveva lasciato una lettera alla propria famiglia, in cui scriveva di “aver perso la fiducia nel futuro” e che le aspettative di quello che poteva fare a lavoro e per la sua famiglia erano di gran lunga superiori a “quanto può essere ottenuto”.

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