Il contributo che segue è tratto dal libro di Marco Gambaro “La radio tra multimedialità e dimensione locale” edito da Carocci. Siamo lieti di anticiparne alcuni passi.
Le radio locali sono state a lungo, e per alcuni versi continuano ad essere, un elemento caratterizzante del panorama dei mass media in Italia. Hanno rappresentato una pluralità di voci, di tessuti musicali, di legami con il territorio costruita con la tenacia dei volontari, degli innovatori e dei visionari, ma hanno avuto difficoltà a crescere e maturare. Quando alla fine degli anni settanta migliaia di emittenti sorsero dal nulla, infilandosi negli spiragli di una legge incerta, rese possibili dall’innovazione tecnologica che abbassava drasticamente i costi delle apparecchiature, capaci di sperimentare nuovi formati comunicativi come il coinvolgimento attivo degli ascoltatori, l’Italia è stata considerata un laboratorio di sperimentazione, osservato con attenzione, considerato la prova che al di là dei monopoli pubblici europei (sia televisivi che radiofonici) esisteva un mercato disponibile, che la scarsità delle frequenze era una barriera ipotetica e che esistevano formati produttivi leggeri , anche se un po’ improvvisati, sostanzialmente sconosciuti alle grandi aziende radiofoniche.
In pochi anni l’attenzione si spostò sulla televisione commerciale con il suo sviluppo dirompente e la sua capacita di scardinare gli equilibri preesistenti nell’industria della comunicazione, attivando risorse pubblicitarie prima sconosciute. La radio passa in secondo piano, almeno nel dibattito pubblico e nell’attenzione dei policy maker. Si tenta, invano, di riformare e regolamentare il settore televisivo, immaginando l’industria radiofonica come un’appendice, una specie di sorella minore.
Intanto inizia il consolidamento dell’industria che procede lungo diverse linee. Da un lato crescono i network nazionali che sono in grado di sfruttare le economie di scala e riescono a guadagnare una quota crescente degli investimenti pubblicitari sul mezzo radiofonico, dall’altro lato vi è una drastica riduzione del numero complessivo di emittenti che passano da oltre 4000 a poco più di 1000. Molte emittenti vengono acquistate per formare i circuiti nazionali, altre si consolidano a livello locale e quelle più marginali semplicemente smettono di operare. Il fenomeno viene favorito da una regolamentazione che pur in ritardo fissa dei requisiti minimi per operare e rende costose le posizioni interstiziali.
Sul piano dei formati radiofonici vi è un processo di convergenza verso un modello commerciale mainstream che si afferma come quello prevalente ed economicamente valido a cui si affiancano poche radio che mantengono una connotazione marcatamente informativa. Da questo punto di vista il panorama radiofonico italiano appare più uniforme rispetto a quello di altri mercati più maturi, negli Stati Uniti, ma anche in Europa, dove i formati radiofonici tendono a differenziarsi per approccio, tono e genere musicale prevalente per adattarsi a target diversi e non ad un solo generico target giovanile che invecchia assieme alle sue radio di riferimento.
Anche l’attenzione della ricerca scientifica si concentra soprattutto sulla televisione, sul suo funzionamento, sulla struttura dei costi e sulle condizioni della concorrenza sia a livello nazionale che internazionale.
Sul mercato dell’ascolto la radio compete con gli altri mezzi d’informazione caratterizzati da funzioni d’uso analoghe, siano essi gratuiti oppure caratterizzati da un prezzo positivo. Lo sviluppo della televisione ha sottratto alla radio la forte presenza nella prima serata e l’ha spinta ad esplorare nuove fasce orarie i quali la prima mattinata o il tempo trascorso in macchina per il trasferimento casa lavoro.
L’altro mercato su cui operano le imprese radiofoniche è quello pubblicitario dove rivendono gli ascolti prodotti alle aziende che vogliono comunicare con i loro potenziali clienti. In questo caso la radio è in concorrenza con gli altri mezzi che offrono contatti pubblicitari. Vi sono innanzitutto quelli più simili come gli altri mass media: televisione, quotidiani, riviste. La radio però compete anche con mezzi piuttosto distanti come modello organizzativo che talvolta non offrono informazione, quali la pubblicità esterna dei manifesti o internet, ma anche, soprattutto nei mercati locali, con i volantini, con l’organizzazione di eventi o con le pagine gialle.
Complessivamente l’industria radiofonica italiana ha una dimensione di circa 800 milioni di euro, una cifra relativamente piccola se confrontata con altri mezzi di comunicazione di massa quali la televisione che cattura risorse 8 volte superiori , o anche i quotidiani che, tra pubblicità e vendita delle copie, fatturano circa quattro volte tanto.
Nonostante la dimensione relativamente ridotta del mercato, il settore radiofonico è caratterizzato da un numero di operatori e di canali elevato e da un tasso di concentrazione piuttosto ridotto. Sul mercato italiano i primi cinque operatori radiofonici realizzano poco più di metà dell’ascolto complessivo e raccolgono circa il 60% del totale degli investimenti pubblicitari operando con 16 canali differenti. Esiste quindi una notevole varietà di offerta e una pluralità di soggetti e di fonti informative.
In altri paesi europei si sono sviluppati gruppi radiofonici di maggiori dimensioni, come NRJ in Francia, che hanno cercato economie di scala attraverso l’espansione internazionale. Forse questa differenza può essere spiegata anche dalla scarsa differenziazione dei palinsesti e dei format radiofonici e dalla parallela scarsa differenziazione sul mercato pubblicitario dove molti spot sono venduti in general rotation a costi per contatto molto bassi e difficili da alzare senza un marketing pubblicitario più sofisticato.
Le ragioni della scarsa concentrazione e della ridotta dimensione aziendale media vanno cercate soprattutto nella struttura dei costi radiofonici.
Come nella televisione, le spese per la realizzazione dei programmi e del palinsesto rappresentano dei costi fissi che sono indipendenti dal numero effettivo di ascoltatori e la cui incidenza unitaria decresce all’aumentare del numero degli ascoltatori. Ma a differenza della televisione il costo dei programmi non sale facilmente oltre una certa soglia. In televisione la concorrenza spinge a fare programmi sempre più spettacolari aumentando la numerosità del cast e della troupe, aumentando le dimensioni dello studio e del pubblico, moltiplicando i collegamenti via satellite e gli ospiti. Ma in radio non è facile aggiungere costi anche per il fatto che i programmi sono limitati all’audio. Quando in studio ci sono più di tre quattro persone contemporaneamente è facile creare un effetto di confusione. Inoltre la musica costituisce una parte rilevante della programmazione radiofonica e tutte le emittenti possono trasmettere facilmente gli ultimi successi.
La diversa struttura dei costi rispetto alla televisione e in particolare la minore tendenza a crescere delle spese per l’aumento della qualità nei programmi, contribuiscono anche a spiegare la forte presenza delle emittenti locali nel settore radiofonico. Se i costi dei programmi non possono crescere troppo, le economie di scala legate ai costi fissi di programmazione sono minori e quindi lo svantaggio, in termini di qualità della programmazione delle emittenti locali è più contenuto. Per contro le emittenti locali hanno il vantaggio di riflettere più da vicino gli interessi e la cultura del territorio di appartenenza.
Come si è visto nel mercato dell’ascolto l’emittente locale è in grado di proporre programmi più vicini all’ascoltatore, mentre l’emittente nazionale può spendere di più per la realizzazione dei programmi. A seconda che le preferenze del pubblico siano più orientate alla specificità dei programmi oppure alla maggiore qualità si determineranno situazioni con una maggiore o minore presenza di emittenti locali.
Anche nel mercato pubblicitario la sostituibilità tra emittenti nazionali e locali è variabile. Un investitore locale, magari un negozio, che vuole fare pubblicità locale non considera le emittenti nazionali come sostitutive anche perché il prezzo dell’acquisto di uno spot è molto più elevato.
Un utente pubblicitario nazionale che voglia realizzare un’azione locale preferirà utilizzare delle emittenti locali che gli consentono di ritagliare il territorio in cui veicolare la comunicazione. Se invece sta facendo una campagna pubblicitaria nazionale utilizza in primo luogo le emittenti nazionali, ma delle emittenti locali raggruppate in una syndacation in modo da coprire il territorio nazionale in modo omogeneo possono costituire una valida alternativa. . Sul mercato coesistono dunque emittenti con diversi gradi di copertura geografica in funzione delle preferenze degli ascoltatori e soprattutto degli investitori pubblicitari.
Infine le politiche pubbliche giocano un ruolo rilevante nel determinare la struttura del settore sia attraverso la regolamentazione dell’entrata con la concessione di licenze e autorizzazioni che con le politiche di sostegno. Nel caso italiano le radio ricevono un po’ di finanziamenti caratterizzati però da un sistema distributivo a pioggia e da meccanismi di erogazione complessi e costosi che nell’insieme sembrano seguire l’evoluzione del mercato piuttosto che governarla.