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Google: dalla Cina a Hong Kong per dribblare la censura. Pechino ostenta calma, ‘solo un caso commerciale, nessuna ripercussione’

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La decisione di Google di aggirare la censura di Pechino dirottando il traffico degli utenti cinesi sul sito di Hong Kong (google.com.hk) non avrà ripercussioni sui rapporti tra la Cina e gli Usa.

Lo ha affermato il portavoce del ministero degli esteri cinese affermando si tratta di un caso principalmente commerciale e, soprattutto, “isolato”, che resterà tale a meno che “qualcuno non voglia farne una questione politica”.

“La Cina – ha aggiunto – regola internet secondo la legge e filtra i contenuti dannosi per la società e la sicurezza nazionale“.

 

Solo calma apparente? Qualcuno la pensa così, soprattutto ai piani alti di Mountain View. Ieri, annunciando la decisione sul blog ufficiale della compagnia, il responsabile legale David Drummond affermava: “…speriamo che il governo cinese rispetti la nostra decisione, ma sappiamo bene che l’accesso ai nostri servizi potrebbe essere bloccato in qualsiasi momento”.

 

E, certo, Google è un caso isolato: nessuna grande azienda Usa – neanche tra quelle colpite dallo stesso attacco hacker da cui è scaturita la decisione di lasciare il paese – ha dato man forte alla società, che pure ha ottenuto l’appoggio del governo.

 

Google, presente in Cina dal 2000, non è in posizione dominante nel settore delle ricerche online: la sua quota di  mercato al quarto trimestre 2009 era del 36%, contro il 58% di Baidu.

Inizialmente, la società offriva un servizio di ricerca in lingua cinese, ma gestito dagli Stati Uniti. L’accesso al sito veniva periodicamente bloccato dalle autorità, che erano solite ridirigere le richieste dirette a Google verso siti di ricerche locali.

Nel 2004, quindi, Google decide di acquisire una quota del 2,6% in Baidu per 5 milioni di dollari e nel 2005 la società assume l’ex dirigente Microsoft Kai-Fu Lee per guidare le sue operazioni nel paese.  Google.cn nasce nel 2006: nonostante molti dei dirigenti – incluso il fondatore Sergey Brin – fossero reticenti a censurare i risultati delle ricerche, il gruppo deve per forza di cose sottostare ai diktat del regime (rischierebbe infatti di perdere terreno nel maggiore mercato internet del mondo), attirando le feroci critiche degli attivisti per i diritti umani, che l’accusano di usare due pesi e due misure.

 

Google si è sempre difesa affermando che è meglio una mezza informazione che nessuna: argomento un po’ troppo debole per una società che ha come motto ‘don’t be evil‘.

 

La decisione annunciata ieri, tuttavia, non implica l’abbandono della Cina tout-court: le attività di ricerca e sviluppo e la divisione vendite verranno mantenute e nessuna conferma è arrivata circa il futuro dei 600 dipendenti: “è ancora prematuro”, ha affermato Drummond, sottolineando che “…la dimensione della nostra squadra per le vendite ovviamente dipenderà almeno in parte dalla capacità dei cinesi di accedere a google.com.hk”.

Una soluzione definita “ragionevole” e perfettamente “legale” che servirà ad “aumentare significativamente l’accesso alle informazioni dei cinesi”, ha spiegato ancora Drummond, che ha precisato come nessuno dei dipendenti cinesi è responsabile delle decisioni annunciate ieri, “messe a punto dai nostri manager negli Stati Uniti”.

 

Gli attivisti per i diritti umani, oggi, applaudono alla decisione di spostarsi su Hong Kong e invitano le altre aziende occidentali a fare lo stesso: secondo Sharon Hom, di Human Rights Cina, la scelta di Google dovrebbe far capire anche alle altre società che “…ci sono soluzioni al di là della scelta semplicistica di restare in Cina con la censura o rinunciare e andarsene”.

 

Reporters sans Frontiers ha definito “coraggiosa” la scelta di Google e ha ribadito i pericoli della sottomissione ai dettami censorti dei governi repressivi: “…l’emergere di Intranet nazionali controllate da Stati repressivi – ha sottolineato l’associazione per la libertà di stampa – rende di fatto molti utenti vittime di segregazione digitale”.

 

Ne sa qualcosa il dissidente cinese Wei Jingsheng, che ha passato due decenni in carcere e ora vive negli Stati Uniti: la decisione di Google per lui non è una sorpresa: “sapevamo – ha detto – che il governo cinese non avrebbe fatto marcia indietro, ma conosciamo anche il motto di Google e speravamo che la società non avrebbe ceduto al compromesso”. La preoccupazione, ora, è che altre aziende possano subire pressioni ancora maggiori.

Per i deputato repubblicano Christopher Smith, l’azione di Google è notevole e dovrebbe essere di incoraggiamento per milioni di attivisti e dissidenti politici e religiosi.

“La decisione è un duro colpo al cinico silenzio di molti riguardo gli abusi ai diritti umani del governo cinese. Uno scoppio di onestà e di coraggio e un buon esempio di politica aziendale responsabile ed etica”, ha aggiunto.

 

Gli utenti cinesi avranno, dunque, accesso alle informazioni – non censurate – attraverso Google.com.hk, sulla cui home page si può leggere “Benvenuti a Google Search nella nuova casa della Cina”.

 

Il governo di Hong Kong, da canto suo, ha fatto sapere che non censurerà in alcun modo il contenuto del sito web e rispetterà pienamente la libertà di espressione: “Non ci saranno restrizioni dalla Cina all’accesso ai siti web basati a Hong Kong”, si legge in una nota.

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