Italia
Oggi si tiene a Roma presso la facoltà di Giurisprudenza (Roma Tre) il convegno “Il recepimento della Direttiva ‘Servizi Media Audiovisivi’ e il futuro delle televisioni digitali”, organizzato dall’Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Diritto europeo – e Fondazione ‘Centro di iniziativa giuridica Piero Calamandrei’.
Pubblichiamo di seguito la sintesi della relazione introduttiva dei proff. Gian Michele Roberti e Vincenzo Zeno-Zencovich.
Metaforicamente il sistema che emerge dalla Direttiva ‘Servizi Media Audiovisivi’ può essere rappresentato come un treno trainato da due locomotive cui sono agganciati una serie di vagoni. L’immagine serve ad indicare i limiti del sistema che poggia su due binari la cui destinazione finale è, tuttavia, incerta.
Volendo tuttavia cominciare dai fattori propulsivi questi sono:
i. La qualifica dell’attività televisiva come attività di servizi (“Servizi media audiovisivi”, appunto);
ii. La equiparazione dell’attività indipendentemente dalle piattaforme che veicolano tali servizi.
a) La prima “locomotiva” rompe la finzione ideologico-giuridico-politica che rendeva l’attività televisiva qualcosa di diverso da tutte le altre attività, e che richiedeva dunque regole completamente diverse.
La seconda locomotiva, che potremmo definire il principio della neutralità tecnologica, prende atto del fatto che le reti di comunicazioni elettronica possono veicolare messaggi digitali di ogni genere. Alcuni di questi possono qualificarsi come “servizi media audiovisivi”, ma ciò che conta non è la piattaforma trasmissiva (satellitare, via cavo, via etere terrestre, fissa, mobile) ma il modo con il quale questi servizi vengono erogati. Questa locomotiva è potente ma, con ogni probabilità, nel giro di alcuni anni uscirà dai binari sui quali il legislatore comunitario l’ha voluta instradare e muoverà su terreni ben diversi.
Vale la pena sottolineare come la qualifica di “servizi media audiovisivi” sia una locomotiva trainante, ma arrivata dopo un lungo percorso di avvicinamento. A chiunque guardasse il fenomeno televisivo con occhi scevri da pregiudizi ideologici era evidente che l’impresa televisiva, quella commerciale che si era sviluppata e affermata negli Stati Uniti d’America e, con grande fatica, aveva messo piede in Europa, era una tipica impresa erogatrice di servizi: da un lato acquisiva prodotti audiovisivi da singoli produttori (tipicamente i film, i documentari); oppure li realizzava in proprio (i notiziari, i “talk-show”, gli spettacoli di varietà); li confezionava secondo un palinsesto con evidenti capacità editoriali (l’identità del canale, la prevedibilità della programmazione, la fidelizzazione dell’utente); e li offriva al pubblico. Gli economisti hanno fatto fatica a comprendere questo “mercato a due versanti” in cui l’impresa acquisiva o produceva servizi ad un costo, ma l’utente li riceveva gratuitamente, in quanto i ricavi prevenivano dagli inserzionisti pubblicitari. Ma che si trattasse di servizi, non vi erano dubbi.
Per quale motivo solo con la Direttiva 65/07 il legislatore comunitario è pervenuto a una complessiva e coerente sistemazione della materia, completando l’iter inaugurato dalla Corte di Giustizia nella lontana sentenza Sacchi del 1974?
La prima ragione – evidente a chi guardi la storia della Comunità Europea con un pizzico di realismo – è che tutti i governi europei garantivano la centralità delle proprie emittenti pubbliche e nessuno era realmente interessato a privatizzare il servizio audiovisivo.
Il parallelo con la vicenda delle telecomunicazioni rende palese la situazione: nel 1985 sotto la spinta liberalizzatrice del governo Thatcher, il Regno Unito approva il Telecommunications Act che apre il mercato delle comunicazioni elettroniche ai privati. Il chiaro intento è, anche, quello dell’espansione delle imprese britanniche sul continente; lo strumento giuridico è quello della libera prestazione di servizi. Ne segue un progressivo smantellamento dei monopoli nazionali, cominciando dalla Direttiva 301/88 sui termini di tlc per arrivare attraverso una mezza dozzina di altre Direttive, alla Direttiva “full competition” (19/96). Ma appena raggiunto questo primo traguardo, già si guarda oltre, ed in poco più di un lustro si arriva al “pacchetto” del 2002 (Direttive 19, 20, 21 e 22). Di qui un ulteriore balzo verso l’adeguamento con le Direttive 136 e 104/09.
Le vicende radiotelevisive, in ambito comunitario, fanno invece il passo del gambero. Dopo l’approvazione della Direttiva 552/89 (chiamata, forse ironicamente, “televisione senza frontiere”) e il suo modesto maquillage effettuato con la Direttiva 36/97, l’unico fatto saliente è rappresentato dal c.d. Protocollo al Trattato di Amsterdam del 1997, con il quale, nella sostanza, tutela i finanziamenti pubblici a favore delle emittenti controllate agli Stati membri. Le motivazioni politiche all’intervento sono bene esplicitate.
Così se uno confrontasse il quadro normativo sulle tlc ante 1998 con quello attuale non vi troverebbe nulla. Se invece guarda alla radiotelevisione si rende facilmente conto di quanto poco la normazione europea è cambiata e come essa segua molto tiepidamente le parole d’ordine di liberalizzazione e concorrenza.
Se dunque si deve prendere atto della stagnazione durata 18 anni (che diventano 20 se si calcolano anche i tempi per il recepimento), si deve pure comprendere che si è voltata pagina e i fattori tecnologici, trasportati dall’onda degli artt. 56 ss. Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), difficilmente potranno piegarsi alla discriminazione giuridica.
Il riferimento al TFUE serve anche per una lettura prospettica. È chiaro che il recepimento della Direttiva 65/07 nei 27 paesi membri darà inevitabilmente vita ad una serie di dubbi. La reale armonizzazione non potrà che passare attraverso una coerente applicazione dell’acquis communautaire in materia di servizi, pena il protrarsi di una nazionalistica frammentazione.
b) La seconda “locomotiva” è, come anticipato, la previsione che la Direttiva si applichi a tutti i servizi, quale sia la loro piattaforma di trasmissione o di ricezione.
Questo ha un effetto livellante rispetto a quei sistemi, fra cui quello italiano, in cui la regolamentazione, frutto di interventi stratificati e influenzata dai gruppi di pressione, si era dis-articolata seguendo le diverse piattaforme: il satellite, il cavo, l’etere; e all’interno di quest’ultimo l’emittente locale, quella nazionale, quella comunitaria etc.
Tutto ciò poteva anche essere possibile in un sistema concessorio nel quale, al pari di altri settori, era lo Stato che decideva cosa si potesse produrre o vendere. In un regime di libera prestazione tutto ciò non ha più senso perchè a monte vi è un titolo abilitativo tipico delle economie competitive – la autorizzazione.
La parificazione delle piattaforme ha una serie di effetti espansivi rispetto al pur innovativo Testo Unico del 2005.
In particolare attrae nella sfera della disciplina sia le trasmissioni satellitari che quelle via cavo, e tra queste ultime quelle che vengono veicolate dalla rete Internet.
Le implicazioni sono notevoli non solo dal punto di vista regolamentare, ma anche da quello propriamente politico. Il mondo di Internet viene percepito come un settore a bassissima regolazione, nel quale è possibile accedere ad una infinità – quasi nel senso matematico – di servizi. Anche a voler cercare di scolpire nel granito la definizione di “servizio media audiovisivo” è facile comprendere che una volta immesso nel vasto e indisciplinato “cyber-spazio” esso cambia veste e, naturalmente, tende a sottrarsi alla camicia di Nesso che le autorità comunitarie hanno pensato di fabbricare.
Ma non si tratta solo dell’influenza dell'”ambiente” sul servizio. Non può essere dimenticato l’insegnamento – fondativo della teoria della comunicazione e tuttora valido – formulato più di mezzo secolo fa da Marshall McLuhan e tuttora valido: “Il medium è il messaggio”. I “servizi media audiovisivi” nascono con la televisione “storica” la quale presuppone un apparecchio, un luogo, un pubblico. La rete Internet ormai è accessibile attraverso una molteplicità di apparecchiature terminali; è ubiqua; non conosce il giorno o la notte; la sua fruizione è tendenzialmente individuale e individualistica.
Tornando alle questioni più strettamente normative, la parificazione delle piattaforme costituisce l’indispensabile ed obbligato nesso regolamentare con la previsione contenuto nel “pacchetto” sulle comunicazioni elettroniche del 2002 che disciplina in eguale modo le reti pubbliche, quale che siano i servizi da esse veicolati. Dunque fin dal 2002 le reti erano assoggettate a un unico regime. Se ciò, di fatto, non è avvenuto è perché la televisione continuava ad essere un brontosauro analogico in un mondo ormai popolato da scattanti predatori digitali.
La ragione dell’arretratezza è, assai semplicemente, legata all’assenza di (o frenatissima) concorrenza, la quale, nel settore delle comunicazioni elettroniche, ha incentivato l’innovazione tecnologica. Non vi è alcuna altra spiegazione al fatto che la digitalizzazione delle rete televisive è arrivata quando ormai tutto (dai telefoni agli impianti di riscaldamento; dalle cineprese ai giocattoli; dagli elettrodomestici alle automobili) era in tecnica digitale.
Dunque la previsione normativa ha potuto concretamente esplicarsi quando finalmente si è avviato il processo di creazione delle reti televisive su digitale terrestre (TDT) che ormai ha preso l’abbrivio e si prevede sarà completato a breve.
La digitalizzazione delle reti televisive via etere terrestre le allinea a quanto già avveniva sulle reti satellitari e su quelle via cavo. E nel contempo rende non più futuribile quel processo di convergenza che si è dimostrato inarrestabile negli ultimi anni con riguardo al “telefono” e al “computer”, e che ora include anche il “televisore”. In termini molto concreti ciò significa non solo l’accesso tramite il terminale televisivo ai contenuti già disponibili sulla rete, ma soprattutto, forme di fruizione fortemente personalizzate (cosa vedere, quando vederlo, dove vederlo).
Le conseguenze sono dunque quelle di una unica disciplina, amministrativa e contenutistica, la quale riduca al massimo le disparità fra piattaforme e fornisca solide ragioni alle eventuali differenziazioni.
Se quanto detto sicuramente vale nel breve periodo, è facile intuire che l’evoluzione tecnologica – una volta inglobate le reti “televisive” all’interno di quelle di comunicazione elettronica – tenderà a sottoporre a fortissima pressione la definizione di “servizi media audiovisivi” che riflette un archetipo che sempre di più sarà solo un ricordo e non una realtà esistente. Ed è facile prevedere che il primo paletto che “salterà” sarà quello dei “servizi non lineari” la cui nozione è scritta solo sulla carta, ma la cui differenza dai liberi “servizi della società dell’informazione” è già ora, per certi versi, impalpabile.