Mondo
Internet è stato candidato al premio Nobel per la Pace, insieme ad altri 236 concorrenti, per il contributo dato negli anni al dialogo e allo sviluppo, ma il web è sempre più terreno di scontro fra superpotenze: un campo di battaglia senza confini e senza munizioni utilizzato sempre più spesso dai criminali per compiere attacchi a paesi e società considerati nemici, ma anche sfruttato dai governi più repressivi per fare propaganda e dare la caccia a qualsiasi forma di dissenso politico.
A tenere banco, ancora, il caso di Google in Cina: dopo un massiccio attacco hacker che ha coinvolto, a gennaio, le sue infrastrutture e quelle di altre società hi-tech americane, il gruppo di Mountain View ha minacciato di sospendere le censure sui contenuti imposte dal governo e anche di lasciare il Paese, convinto che dietro l’accaduto vi fossero le autorità di Pechino.
Da allora, il gruppo ha avviato strenue negoziazioni con la Cina, che dovrebbero presto giungere a conclusione: secondo il Ceo Eric Schmidt, che tuttavia non si è sbilanciato oltre, “ci saranno presto novità”.
La Cina, certo, non è l’unico paese a censurare il web per impedire agli utenti di accedere a contenuti giudicati sovversivi, anzi è decisamente in buona compagnia: ieri, Nicole Wong, consulente legale di Google, ha infatti affermato che sono 25 i governi che hanno bloccato i servizi del gruppo negli ultimi anni e ha esortato i regolatori dei paesi più ‘democratici’ a fare pressione sugli altri per bloccare la censura.
“La censura di internet è un problema globale che non solo solleva importanti preoccupazioni per i diritti umani, ma crea anche importanti ostacoli alle aziende americane che lavorano all’estero”, ha affermato la Wong.
La difesa dei diritti umani da parte delle web company è stata, tra l’altro, al centro di una serie di audizioni al Senato americano, nel corso delle quali il senatore Dick Durbin ha proposto un disegno di legge finalizzato a introdurre sanzioni amministrative e penali per le società internet americane che violino i diritti umani degli utenti per soddisfare i dettami censori di governi stranieri repressivi.
Durbin ha puntato il dito contro molte delle compagnie americane che, troppo spesso e troppo facilmente, cedono a richieste volte a limitare la libertà di espressione di blogger, attivisti, o semplici cittadini – che, in molti casi, possono contare solo sulla rete per esprimere le proprie opinioni sui loro governanti – o, peggio, forniscono alle autorità le informazioni per identificarli.
“Google – ha detto – ha dato un forte esempio levandosi contro il governo cinese e i suoi continui fallimenti nel rispettare i fondamentali diritti umani di libera espressione e privacy. Ora voglio sapere se anche altre aziende americane sono disposte a seguirne l’esempio”.
Stigmatizzando il rifiuto di molte società hi-tech – tra cui Apple, McAfee, Twitter e Facebook – di partecipare alle audizioni in Senato sulla libertà di internet, Durbin ha quindi affermato che l’industria del settore “con poche eccezioni degne di nota” non sembra disposta “…né ad autoregolarsi né a impegnarsi in un dialogo con il Congresso circa le serie sfide legate al rispetto dei diritti umani”.
La feroce repressione, in Iran, delle proteste seguite alla rielezione dell’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad, ad esempio, non sarebbe mai stata nota al mondo se non ci fosse stato Twitter, tanto che – per evitare il blocco del sito a causa di lavori di manutenzione – è intervenuto anche il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, che, incurante delle proteste ufficiali, ha difeso la possibilità della popolazione di continuare a usare un “importante” strumento di comunicazione come Twitter per condividere informazioni, soprattutto in un momento in cui non c’erano “altre fonti d’informazione”, essendo stati bloccati dal regime telefonini e Tv private. Gli Stati Uniti, ha detto la Clinton, “credono appassionatamente al principio della libertà di espressione”.
Molto scalpore ha destato anche il caso di Yahoo!, i cui amministratori si sono scusati pubblicamente con la famiglia di un dissidente cinese arrestato e condannato proprio a causa della collaborazione della società con le autorità di Pechino.
Esempi come quello di Yahoo! sono stati stigmatizzati dal senatore Durbin, secondo cui “è ora di prendere una posizione più attiva”, con l’introduzione di “misure ragionevoli per proteggere i diritti umani”, pur tenendo conto della necessità dell’industria di tutelare il business in mercati importanti come quello cinese.
Si attende ora di conoscere l’esito delle trattative tra Google e il governo di Pechino e di capire se e quando la società comincerà a sbloccare veramente i contenuti dalle censure come ha promesso: Nicole Wong ha spiegato che il gruppo preferisce agire con cautela per tutelare i dipendenti della divisione cinese e ha ribadito quanto già affermato da Eric Schmidt: “La risposta di Google non sarà in alcun modo coordinata col governo americano”.