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Google. L’Italia come la Cina? Drummond e Fleischer si difendono: ‘Gravi conseguenze per la libertà del web’

Italia


“Sono indignato per la decisione del tribunale di Milano, che mi ha giudicato penalmente responsabile per la violazione della privacy di un ragazzo perseguitato e tiranneggiato da molti dei suoi compagni di classe”. E’ quanto ha dichiarato David Drummond, ex presidente del Cda di Google Italia, in merito alla sentenza con cui i giudici milanesi lo hanno condannato, insieme ad altri due dirigenti Google, per violazione della privacy in relazione al video shock comparso su Google Video lo scorso 8 settembre 2006 e rimasto online per circa due mesi, totalizzando oltre 5 mila contatti.

 

Drummond ha affermato di essere rimasto “profondamente addolorato” nell’aver appreso che un video di questi eventi “è stato ospitato su un servizio di Google”, ma ha anche sottolineato che “…questo verdetto costituisce un pericoloso precedente”.

 

“Se le persone come me e i miei colleghi di Google che non avevano nulla a che fare con il video, le sue riprese o il suo inserimento su Google Video, possono essere ritenute penalmente responsabili unicamente in virtù delle posizioni ricoperte in seno alla società – afferma ancora Drummod – tutti i dipendenti di qualsiasi servizio di hosting corrono lo  stesso rischio”.

Eppure, ha aggiunto, esistono leggi, europee e italiane, “…molto chiare, le quali riconoscono che i provider di servizi di hosting video, come Google, non sono tenuti a controllare i contenuti che ospitano. Coerentemente con le proprie responsabilità nel quadro di tali leggi, Google ha rimosso il video non appena saputo della sua esistenza”.

 

La sentenza del tribunale di Milano, ha spiegato l’ex dirigente di Google Italia, “…pone un grave rischio per la libertà e le attività di molti servizi internet, inclusi quelli cui molti italiani si affidano quotidianamente. Essa mette in pericolo lo strumento aperto e libero che internet è diventato. Valori importanti per me personalmente e per Google e che continueremo a difendere”.

“Sto analizzando – ha concluso – tutte le opzioni disponibili per contestare questo pericoloso precedente”.

 

Sulla stessa linea la difesa dell’altro dirigente condannato, Peter Fleischer, che sostiene di aver dedicato la propria vita professionale a difendere il diritto alla privacy. Dicendosi poi dispiaciuto per quanto successo al ragazzo down, Fleischer aggiunge di non aver saputo nulla del video fino alla sua sacrosanta rimozione dal sito, “…nonostante questo, il pubblico ministero di Milano ha passato tre anni a indagare su di me, mi ha incriminato e ha perseguito con successo me e altri due colleghi”.

 

“Questa decisione – ha aggiunto – solleva questioni più ampie, come il proseguimento delle attività di molte piattaforme internet che rappresentano i fondamenti essenziali della libertà di espressione nell’era digitale”.

“Riconosco di essere solo una pedina in una battaglia di forze più ampie, ma sono sicuro del fatto la sentenza di oggi sarà rovesciata in appello”, ha concluso.

 

Esponenti della maggioranza di governo hanno immediatamente espresso la convinzione che la sentenza sia “esemplare” (Maurizio Gasparri), “giusta e di grande sensibilità” (Barbara Saltamartini), ma le critiche alla decisione dei giudici di Milano non si sono fatte attendere: per l’Istituto Bruno Leoni, la sentenza è pericolosa per il futuro della rete e conferisce al nostro paese un triste primato, “nella incomprensione dei meccanismi che regolano internet”.

“Condannare i tre dirigenti di Google per violazione della privacy per un video che nessuno di loro ha né girato, né messo online, né tanto meno visionato preventivamente, appare davvero assurdo”, ha affermato il Direttore Generale Alberto Mingardi, sottolineando che quanto accaduto altro non è che una ulteriore prova del fatto che in Italia “…si stanno diffondendo atteggiamenti contrari alla libertà del web, basati sull’incapacità di comprendere la differenza fra internet e un tipico prodotto editoriale”.

“Le conseguenze di lungo periodo potrebbero essere preoccupanti per la libertà d’espressione e per lo stesso tessuto economico del paese”, ha concluso Mingardi.

 

La sentenza contro i 3 dirigenti del gruppo americano, oltre a dimostrare che l’Italia fatica a comprendere l’essenza del web, potrebbe spingere la società ad abbandonare l’Italia, quasi fosse la Cina?

Per l’Aduc, colpire i dirigenti di un sito di hosting è come punire una casa automobilistica perché qualcuno guida ubriaco.

“Questa sentenza, se fosse confermata nei gradi successivi, potrebbe mettere a rischio tutti i siti che in Italia ospitano contenuti creati dagli utenti, dai social network ai blog, dai motori di ricerca ai forum”, ha dichiarato il vicepresidente Aduc Pietro Yates Moretti, sottolineando che “…invece di punire gli eventuali responsabili che hanno aggredito la vittima, l’hanno filmata e poi hanno caricato le immagini online, si va a colpire chi offre strumenti di comunicazione e espressione a miliardi di utenti, sotto la pretesa di un mancato, quanto tecnicamente impossibile, controllo preventivo”.

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