Pirateria online. Analisi critica dell’indagine Agcom ‘Il diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica’

di di Giandomenico Celata |

Italia


Gianni Celata

Finalmente delle parole serene sulla cosiddetta (perché così non è) pirateria online. Sono quelle contenute nel paper dell’AgCom su “Il diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica” recentemente pubblicato sul sito dell’Autorità.

 

Parole serene, aldilà de “una botta al cerchio e una alla botte”, pressoché obbligatorie in una fase che è considerata iniziale di una indagine in materia e aldilà dell’equilibrio che l’AgCom deve mostrare verso tutti gli interlocutori. Ciononostante, il paper getta molta acqua sul fuoco acceso dalla Fapav, dalle associazioni di settore e dalla Siae.

E’ un buon, anzi ottimo, inizio per far comprendere a chi urla all’untore come il futuro del mercato sta proprio nella collaborazione tra industria dei contenuti e Tlc. E sta in un rapporto corretto e non distorto tra industria dei contenuti e consumatori. Distorto quando il consumatore è costretto ad affrontare la spesa della ricostituzione delle library in occasione di ogni cambiamento del supporto (dal vinile alla cassetta e da questa al dvd) che ha costruito una bolla dei dati di fatturato dell’industria.

 

Entro nel merito di alcuni punti specifici della parte del paper che riguarda l’impatto economico della pirateria.

Il paper introduce una distinzione molto corretta tra streaming e downloading. Ma, la differenza non è solo quella indicata. Più importante forse è il rapporto con la propensione al consumo: lo streaming indica una propensione all’ascolto e quindi a misurare l’appeal del brano per il navigatore; il downloading indica una propensione alla collezionabilità. Quindi, nel primo caso lo streaming costituisce principalmente un’attività di promozione per il brano; nel secondo caso il downloading esprime una propensione all’acquisto. La trasformazione di quest’ultimo in compravendita dipende da una serie di ragioni non ultima quella del reddito del downloader che è funzione del ciclo economico, del livello del reddito, del prezzo dei beni fungibili, ecc.

 

Nella parte che riguarda gli studi dell’industria si riporta un confronto improprio tra i dati di fatturato dei supporti fisici e quello del download cosiddetto legale. Innanzitutto non è indicato se si riferisce al sell in o al sell out. Inoltre, la vendita attraverso Internet riduce drasticamente i costi per l’industria annullando praticamente quelli della logistica, dello storage e la quota che va all’esercizio. Se confronto si deve fare deve essere sulla struttura dei costi dell’industria e sui margini.

 

Il paper poi riprende acriticamente i dati della FPM italiana che misurano un mancato fatturato per il settore di 300 milioni di Euro l’anno.

 

Ma come è possibile una tale perdita se 300 milioni è stato il fatturato più grande raggiunto dalla industria discografica italiana attorno all’anno 2000, nel pieno della ricostruzione delle libraries per effetto dell’introduzione del CD? 

 

Sarebbe come dire che il consumatore, in assenza della cosiddetta pirateria online avrebbe acquistato per circa 500 milioni di Euro! Si tratterebbe della moltiplicazione dei pani e dei pesci; o meglio dei redditi del consumatore che avrebbe riempito la casa di contenitori CD e spostato in misura epocale il proprio basket dei consumi a favore dell’industria discografica, rinunciando ad andare al cinema, acquistare abbonamenti premium, DVD, ecc., per non parlare di altre forme di utilizzo del tempo libero. A proposito del rapporto tra dimensioni delle abitazioni e collezionabilità di libri, DVD e CD c’è un interessante studio americano. 

 

Ma il paper implicitamente tara questi dati riportando quelli della Federazione Internazionale dell’Industria Fonografica che segnala come il 2008 è stato il sesto anno consecutivo di crescita del mercato legale della musica su internet e che solo iTunes ha venduto in meno di 4 anni più di 5 miliardi di canzoni.

 

Nello stesso senso vanno i dati che l’AgCom riporta dalle fonti “istituzionali” e che sarebbe più corretto denominare indipendenti.

 

Ottimo il paragrafo sui risultati della letteratura che sarebbe più corretto denominare analisi del fenomeno da parte della letteratura scientifica. A questo proposito suggeriamo all’AgCom di tener conto di un eBook che Key4biz pubblicherà a breve sotto il titolo “ The Embed Economy – discografia 2.0 che contiene indicazioni più copiose sul contributo che la ricerca scientifica, economica e sociologica, ha dato al tema.

 

Un capitolo che manca è quello che riguarda l’analisi sull’offerta dell’industria italiana della musica su Internet. Una carenza che va assolutamente sanata. Probabilmente ne risulterebbe che sarebbe stato molto più efficace per l’industria italiana invece che gridare al lupo dispiegarsi prontamente, efficacemente e con costi ragionevoli sul Web.

 

È uscito nel frattempo il report 2010 della IFPI, la Federazione Mondiale dell’Industria Discografica che, al di là dei richiami retorici alla pirateria digitale, che sono corretti se si riferiscono alle copie private ma non sono più tali se si riferiscono all’online, danno ulteriori elementi a conforto di quanto detto sopra. 

 

 

Per approfondimenti:

 

Il diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica

Agcom

 

Digital Music Report 2010 (Versione Italiana)

IFPI

 

 

  

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