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Continuano a farsi sentire, in Cina, gli strascichi dell’annuncio di Google di non voler più sottostare ai diktat del governo di Pechino in fatto di censura, dopo che le infrastrutture della società sono state colpite da un attacco hacker, insieme a quelle di un’altra trentina di società.
A guadagnarci da questa decisione, finora, sembra essere soltanto il maggiore avversario di Google in Cina, Baidu: nato proprio da una ‘costola’ di Google, il maggiore motore in mandarino – 7.000 dipendenti e 16,2 miliardi di dollari di capitalizzazione in Borsa – controlla già quasi il 60% del mercato della ricerca online e, nelle tre sedute successive all’annuncio di ‘guerra’ di Google, ha iniziato un rally in Borsa, guadagnando 2,8 miliardi di capitalizzazione, con una crescita del titolo che ha sfiorato il 21%.
Ebbene, Baidu è passato al contrattacco, sporgendo denuncia presso un tribunale di New York contro il gigante Usa dei domain name registrar, Register.com accusato di ‘negligenza’ per non essere intervenuto con tempestività dopo un attacco hacker che, la scorsa settimana, ha reso il servizio inaccessibile per diverse ore.
L’atto di pirateria informatica sarebbe avvenuto lo scorso 12 gennaio, e Baidu ha chiesto il risarcimento dei danni e degli interessi per l’interruzione dei servizi, sostenendo che l’interruzione era stata provocata da “una manipolazione esterna del suo DNS negli Stati Uniti”.
La frattura tra Google e la Cina, intanto, continua ad allargarsi: è di ieri l’annuncio che la società californiana ha deciso di rimandare a data da destinarsi il lancio di due nuovi smartphone Android sul mercato cinese. Il lancio dei due modelli, prodotti da Samsung e Motorola, era previsto per venerdì, ma – ha riferito una fonte – Google ha ritenuto ‘irresponsabile’ rilasciare i due dispositivi in questo delicato momento.
Secondo la stessa fonte, il gruppo starebbe anche valutando di apportare cambiamenti alla versione cinese dei suoi servizi più popolari – Gmail, Google Maps, il servizio di music-search e altri prodotti – ma difficilmente abbandonerà del tutto il proficuo mercato.
Gli executive della società sperano di poter mantenere le attività cinesi e i 700 dipendenti impiegati nel Paese, alla luce anche dei tentativi di migliorare le performance di Google.com in Cina.
Ma, al di là di quello che Google vuole fare – dicono gli osservatori – quello che gli sarà concesso fare dipenderà sempre dal governo di Pechino, che ha già fatto più volte sapere di essere ben disposto a tollerare la presenza di gruppi stranieri sul mercato internet locale, purché questi osservino le leggi cinesi.
La ritorsione di Pechino, che pure non ha ancora preso una decisione ufficiale riguardo la minaccia di Google di togliere i filtri alle ricerche sul suo motore, potrebbe materializzarsi nell’impossibilità di vendere pubblicità ai clienti cinesi, anche attraverso le sue stesse proprietà.
A questo proposito, ad esempio, John Palfrey, docente di diritto alla Harvard Law School, ha affermato che “…sarebbe una vera sorpresa se il governo cinese desse carta bianca a Google per vendere i suoi servizi, dopo che la società ha storto il naso di fronte alla censura”.
Quel che è certo – dicono altre fonti familiari con l’approccio delle autorità cinesi a internet – è che Google dovrà trattare col governo “a porte chiuse”. La scorsa settimana, in effetti, la società Usa ha fatto intendere di essere pronta ad avviare trattative con Pechino per trovare un terreno comune di confronto, ma non è ancora chiaro se vi sia stato un incontro, o a che stadio siano i negoziati.
Tra le altre possibilità vagliate dai dirigenti di Google, potrebbe farsi spazio il tentativo di ‘regredire’ a 4 anni fa, prima del lancio della versione ‘epurata’ di Google.cn.
In questo modo, Google.cn sparirebbe e la società potrebbe mantenere i suoi uffici in Cina, lavorando al miglioramento delle performance della versione in lingua cinese di Google.com.
Uno scenario non proprio idilliaco, visto che il sito sarebbe a questo punto di nuovo soggetto ai periodici oscuramenti da parte del governo, così come è avvenuto in passato e continua a succedere ad altri siti come Facebook e YouTube.
Gli utenti cinesi, intanto, aspettano il giorno in cui Google procederà allo sblocco dei risultati delle ricerche, come ha minacciato di fare nei giorni scorsi. Fino a martedì notte, infatti, le ricerche risultavano ancora censurate.
La tensione, si è appreso, è montata nel frattempo anche tra la Cina e l’India: secondo quanto riportato dall’edizione online del quotidiano Der Spiegel, infatti, si sarebbe verificato un attacco hacker ai danni del computer di Mayankote Kelath Narayanan, consigliere di sicurezza del primo ministro indiano. L’attacco, che secondo Der Spiegel sarebbe stato pilotato proprio dalle Autorità cinesi, non ha avuto ripercussioni grazie all’efficienza dei sistemi di sicurezza indiani, ma dà ancora di più il polso di come ormai la corsa agli ‘armamenti virtuali’ sia una realtà da cui la diplomazia non può prescindere.