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Google sfida la Cina: niente più censure. Interviene anche il governo Usa, ‘Pechino ci deve spiegazioni’ su cyberattacco a 34 società

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Dopo l’annuncio del segretario americano Hillary Clinton di un’iniziativa volta ad aiutare gli utenti di altri Paesi ad accedere a internet evitando censure di sorta, un nuovo smacco alla Cina potrebbe arrivare da Google, che sembra decisa ad abbandonare il Paese dopo essere stata vittima di un attacco hacker mirante – secondo la società – a rubare da Gmail gli indirizzi email degli attivisti cinesi per i diritti umani.

 

L’attacco, secondo quanto riferito dal Wall Street Journal, avrebbe preso di mira 34 diverse società e sarebbe durato settimane. Le Autorità americane stanno investigando per capire se – come sostiene Google – alla sua origine vi sia il governo o servizi di intelligence cinesi. Il cyber attacco – originato da sei indirizzi internet di Taiwan, e con tecniche simili a quelle usate per l’attacco che colpì lo scorso anno i Pc degli uffici del Dalai Lama e diverse ambasciate invise a Pechino – avrebbe coinvolto anche Adobe e Baidu, il principale motore di ricerca in lingua cinese.

 

Si è trattato, secondo il gruppo di Mountain View, di un attacco “mirato e molto sofisticato, rivolto alle infrastrutture aziendali” e che ha portato “al furto di proprietà intellettuale”.

Da qui la risoluzione – che verrà discussa nelle prossime settimane con le Autorità di Pechino – di sospendere la censura fin qui applicata al motore di ricerca in Cina anche se questo potrebbe implicare la chiusura delle attività del gruppo nel Paese: “Abbiamo deciso che non vogliamo più continuare a censurare i nostri risultati”, ha riferito responsabile legale di Google, David Drummond, sottolineando che “…questi attacchi e la stretta attività di vigilanza che hanno portato alla luce – in combinazione con i tentativi dello scorso anno di limitare ulteriormente la libertà di parola sul web – ci hanno portato a concludere che si debba rivedere la fattibilità delle nostre operazioni commerciali in Cina”.

 

La questione, come detto, è diventata anche politica. Google ha informato Hillary Clinton, che ha chiesto alla Cina spiegazioni sull’accaduto e, dopo aver incontrato i rappresentanti dei maggiori gruppi hi-tech americani – il Chief Executive di Google Eric Schmidt, il co-fondatore di Twitter Jack Dorsey, il responsabile ricerche di Microsoft Corp Craig Mundie e il vicepresidente di Cisco Sue Bostrom – ha deciso di mettere a punto un progetto focalizzato sulla “libertà di internet”, che verrà presentato il 21 gennaio.

La Clinton ha affermato che “…le affermazioni di Google sollevano serie preoccupazioni e domande. Ci aspettiamo una spiegazione dal Governo cinese, poiché la capacità di operare con sicurezza nel cyberspazio è cruciale per le moderne società ed economie”.

 

Le società hi-tech americane sono state fortemente criticate dagli attivisti mondiali per i diritti umani e la libertà di espressione perché tutte, pur di non rinunciare agli introiti del maggiore mercato internet del mondo, hanno ceduto ai dettami del governo di Pechino in fatto di censura.

E’ cosa nota, infatti, che i motori di ricerca del Paese censurano gli argomenti sgraditi alle Autorità e che, grazie alle tecnologie spesso fornite da società occidentali, o alla loro compiacenza, le ricerche ‘sospette’ mettono subito in allerta i cybercops, che prendono i dovuti provvedimenti.

 

Yahoo! ad esempio, fu accusato di aver fornito agli inquirenti i nomi di due giornalisti poi condannati a 10 anni di prigione. Accusata dal Congresso di essere un “pigmeo dal punto di vista morale”, la società si scusò pubblicamente con le famiglie, accettando anche di fornire loro sostegno “finanziario, umanitario e legale”.

Google ha fatto il suo ingresso sul mercato cinese nel 2006 e ha subito compreso che trovare il giusto equilibrio tra le richieste del governo di Pechino e il suo motto ‘don’t be evil’ non sarebbe stato facile: il gruppo ha subito annunciato che la versione cinese del motore di ricerca (Google.cn) avrebbe ristretto l’accesso a migliaia di pagine Web e ai servizi sgraditi al governo di Pechino.

Reporters sans frontières denunciò subito che “mentre Google si erge a strenuo difensore dei diritti degli utenti americani contro le richieste abusive del governo, oltraggia i diritti degli utenti cinesi”, scrivendo il giorno più nero per la libertà di espressione in Cina e velando di ipocrisia le dichiarazioni sul rispetto degli internauti che transitano dal suo sito.

La società si difese affermando che anche negli Usa e in alcuni Paesi europei succedono simili cose. Negli Usa, ad esempio, vengono bloccati i siti pedopornografici o le richieste di accesso a materiali protetti da copyright; in Francia e Germania ci sono limitazioni all’accesso ai siti che incitano al nazismo. In questi paesi, come in Cina, in fondo alla pagina dei risultati, compare la dicitura “Local regulations prevent us from showing all the results”.   

Questo con la convinzione che “è meglio rendere i nostri servizi più accessibili anche se non al 100% come ci piacerebbe, perché alla fine gli utenti cinesi avranno più informazione, anche se non proprio tutta”.

“La gente ci criticherà”, ha concluso Brin, “ed è un punto di vista perfettamente valido”.

Ora, evidentemente, anche il punto di vista di Google è cambiato.

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