Mondo
A dispetto di quanto sento incredibilmente affermare negli italici consessi (di sperdute menti), se c’è un modello che oggi tutti vogliono imitare è il leggendario Hulu. Gli editori USA – Time, Condè Nast e Hearst in primis – da settimane negoziano la nascita di quella che è stata subito definita la “Hulu delle riviste“. Questo perché le vendite di quotidiani e magazine USA crollano, ogni giorno chiusure a rotta di collo di testate sanissime fino a pochi mesi fa, contemporaneamente l’industria ha deciso di puntare sugli e-reader (sia aggeggi autonomi stile Kindle, sia tablet ibridi Apple, sia applicazioni di lettura per smartphone)… e naturalmente i pubblicitari muovono altrove i loro soldi. L’unica reazione logica non è negare l’evidenza / disinformare; è digitalizzare i contenuti, portandoli dove si sono trasferiti i lettori.
Ora, il riferimento al modello Hulu scatta in quanto:
a) ci sono colossi dei vecchi media che fondano una joint venture web-centrica [Hulu è proprietà di NBC Universal, Fox ed ABC/Disney];
b) ci sono colossi dei vecchi media che traslocano l’intera library sui device IP-based, modificando le proprie strategie di monetizzazione.
Anche Vevo, al debutto a Dicembre dopo un anno di incubatrice, è stato definito a più riprese “l’Hulu dei videoclip“, in considerazione della composizione societaria: è una joint venture tra Universal e Google, a cui si è aggiunta in corsa durante l’estate Sony BMG (nel caso di Hulu è stata Disney ad accodarsi a inizi primavera). In realtà ci sono almeno un paio di differenze radicali.
Anzitutto parliamo di un prodotto già presente da anni sulle piattaforme di streaming. Secondo un recentissimo studio di TubeMogul, le 5 principali etichette discografiche con i loro video rappresentano il 64.52% delle views totali nella Top 50 di YouTube. Di queste 5 etichette, guarda caso, la parte del leone la fanno proprio Universal e Sony con il 72% delle views nei canali musicali (UMG genera con i suoi artisti 24 milioni di views al giorno e Sony 13 milioni, su 1 miliardo e passa di views complessive quotidiane gestite da YouTube). Quindi non si tratta di spostare la lampada con il genietto dagli Old ai New Media, ma di riposizionare all’interno dell’ecosistema contenuti già da tempo integrati.
In secondo luogo, la joint venture Vevo, seppure sempre figlia in fondo della speranza in un mondo migliore, non nasce per tentare di imbarcare tutti insieme gli Antichi sull’Arca che salverà dall’Apocalisse, ma in virtù delle pressioni dei giganti discografici verso il nuovo e scomodo gigante digitale. Insomma, è una situazione più articolata e potenzialmente conflittuale, visto che le esigenze dei partner fondatori muovono da opposte direzioni.
A monte c’è il fallimento nelle trattative tra YouTube e le major nella ridefinizione delle royalties per singolo stream, la tariffa di ispirazione radiofonica pagata da Google per ogni view a prescindere dalla monetizzazione o meno del videoclip tramite advertising o altro. Nel Dicembre 2008 fu la Warner la prima a sbattere la porta in faccia, rimuovendo tutti i suoi videoclip (è di questi giorni il dietro front). Piuttosto che arrivare a un scontro frontale globale dopo il caso Warner, si è preferito scorporare dal business di YouTube la sezione videoclip – quantomeno per ora quella di Universal e Sony, l’equivalente del 60% del mercato discografico USA – e trapiantarla dentro la neonata Vevo.
Sede a New York, 45 dipendenti di cui 20 ingegneri elettronici, Vevo è stata giustamente affidata alla direzione di un manager appena quarantenne, Rio Caraeff (per sua fortuna non di natali italiani; qui sarebbe stato il consulente sottopagato di qualche ammanicato volpone alle soglie della pensione). Nella visione di Caraeff Vevo dovrebbe adottare lo stesso spirito di condivisione e partecipazione spontanea che è nel dna di YouTube. Quindi tonnellate di opzioni per gli utenti, che potranno costruirsi playlist personalizzate, modificare a piacere i video e crearci sopra karaoke, scaricare i testi e synchare i brani con qualsiasi altro flusso video user-generato (del resto sarebbe folle vietare parodie e tributi, tradizionali volani della viralità).
Cambia la forma e il brand, cambiano le firme sui contratti pubblicitari, cambia l’url da cliccare, ma per i navigatori non dovrebbe in alcun modo cambiare l’esperienza di consumo. Certo, bisognerà vedere alla prova dei fatti. C’è chi paventa di svegliarsi a Natale e trovare cancellati da YouTube tutti i suoi videoclip preferiti. E chi inizia a pensare a campagne per salvare l’inverosimile neonato che balla Single Ladies davanti alla TV…
In realtà la vera chiave di volta sarà la risposta degli inserzionisti al repackaging. Al momento la squadra commerciale di Google non riesce a vendere tutti gli spazi pubblicitari disponibili sul canale YouTube della Universal. Soprattutto non riesce a venderli a un CPM ritenuto adeguato a contenuti premium non UGC (tra i 20 e i 40 dollari). Se Vevo verrà apprezzata da chi acquista pre/post-roll e overlays ad alto costo, l’inevitabile perdita di traffico di una YouTube priva delle grandi star musicali sarà un modesto prezzo da pagare per gli uomini di Mountain View.
E una perdita di traffico per YT è scontata. Il solo canale Universal è #4 in assoluto nella classifica degli YouTube Partner per numero di iscritti, e disintegra qualsiasi altro content provider youtubiano “griffato” (vedi questa tabella). Cumulando tutti i canali dei musicisti UMG si arriva al mastodontico totale di 8,7 miliardi di views. Nessuno sul pianeta potrebbe perdere tanto ben di Dio senza fallire. Nessuno eccetto YouTube, ovviamente. Il trend ascendente dell’online video negli States, trainato per tutto il 2008 e 2009 da continui inarrestabili record di YouTube, potrebbe infatti compensare in ottima parte la defezione dei cyber-groupies verso VEVO. E in ogni caso la leadership di YouTube nel comparto videoportali USA è al riparo da qualsivoglia sorpresa. Ad Agosto 2009 la classifica degli spettatori unici Nielsen riportava 107 milioni di YouTube fan regolari contro i 28 di Yahoo secondo; la classifica delle views ci dava 7,2 miliardi di stream su YouTube contro 400 milioni su Hulu secondo.
Sul versante discografico, il commento unanime tra gli analisti è che saranno i first mover a ghermire la fetta più ghiotta del tesoro. In cambio dei loro cataloghi Universal e Sony hanno di sicuro strappato una formula di revenue sharing superiore all’attuale mix royalties + revenue sharing pubblicitario. Taluni sostengono persino un minimo garantito. È ragionevole profetizzare per il prossimo biennio cospicui dividendi, se consideriamo che nel 2009, dichiarazioni ufficiali, Universal introiterà da Google “decine di milioni di dollari” dalle licenze pay-per-play che consentono lo streaming gratuito su YouTube. Si tratta di licenze regolate dalle clausole del pioneristico primo accordo del 2006, quindi minuscole frazioni di dollaro per ogni stream, ma vengono pagati anche i video user-generati che utilizzano brani UMG (li identifica la tecnologia ContentID), e questo inflaziona enormemente il conto finale.
Da valutare c’è anche l’eventuale introduzione di download a pagamento di pacchetti HD di particolare appeal per i fan [argomento ancora spinoso causa ostilità dei superstiti della fazione pro-DRM], e-commerce di multiforme natura (dal merchandising ai vetusti, ma non ancora defunti supporti fisici, ergo cd e dvd), eTicketing per i concerti e via dicendo. Fonti di guadagno tipiche dei modelli di business freemium, il che rende in termini teorici interessanti gli sviluppi, poiché YouTube non è di default un servizio freemium, bensì free puro. Fonti di guadagno tutte esplodibili in qualche misura rispetto al passato, se Vevo si imporrà all’attenzione del popolo di Internet [per farsi un idea del quadro generale, nel 2008 Universal ha fatturato 1.2 miliardi di dollari dalle vendite digitali, +30% rispetto al 2007, ma è ancora solo un quarto del fatturato UMG complessivo].
Inoltre, qui invece si tratta di fonti ufficiose, il potenziale di crescita dalla quota pubblicità è immenso; a quanto pare infatti UMG riceve solo 25.000 dollari al mese da YouTube sul fronte spot e sponsorizzazioni. Torniamo a quanto detto poco fa; il compito di Vevo, oltre a fungere da template per futuri “matrimoni” tra YouTube e l’universo corporate multimediale, è anche e soprattutto di strappare “sì” agli inserzionisti e di strapparli con CPM da destinazione web di prestigio.
Resta da capire come si muoveranno Warner Music Group, EMI e Hollwyood Records/Disney, tuttora fuori da Vevo. Forse entreranno nel 2010 su base non-esclusiva, o forse li ritroveremo (meglio, li ritroveranno gli americani, visto che in Europa l’accesso è vietato) da acerrimi rivali proprio dentro Hulu, nel caso vengano confermate le voci segnalate da Bloomberg di meeting volti a stabilire sulla piattaforma di NBC, Fox ed ABC un’area tematica per i videoclip. Oddio, se anche fosse smentita la trattativa, non ci crederei. Avete letto i numeri dello streaming di videoclip su YouTube; per quale assurdo motivo un concorrente diretto come Hulu non dovrebbe porsi tra le sue priorità assolute di strappare quel pubblico a Google?
Curiosamente, mentre i titani si scontrano, uno sconosciuto nuovo player è appena apparso nell’arena. Si chiama Muzu, e ha stretto accordi con tutte e 4 le major di settore (UMG, Sony BMG, Warner ed EMI), nonché altre 7.000 etichette indipendenti. I discografici prendono il 50% di qualsiasi ricavo generato da Muzu, e mettono a disposizione in aggiunta ai videoclip riprese live dai concerti e vagonate di interviste d’annata. Il tutto embeddabile sui social network e nella blogosfera. In attesa di Vevo, sono i nanerottoli del Web 2.0, zitti zitti, a dettare gli standard. Come sempre. Del resto, signori miei, YouTube era un nanerottolo del Web 2.0 dal Febbraio 2005 fino all’ingresso nella Google Family nel Novembre 2006. Quattro anni fa. Quattro, solo quattro anni fa…
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