Mondo
La scorsa settimana ho dedicato l’intera rubrica all’ingresso dei Big di Hollywood nell’arena dell’online video. Neanche il tempo di vedere l’articolo pubblicato su key4biz, e quelli di My Damn Channel annunciano Keanu Reeves protagonista di un webserial. Il dado è tratto, signori, il Rubicone è varcato, i divi (e i loro manager) hanno preso a cliccare sulla tastiera…
Tra parentesi, la webserie si intitola Spärhusen, 7 puntate “in onda” dall’8 Ottobre, ed è lo spin-off di un’altra web fiction dello stesso team creativo, Easy to Assemble (Facile da Montare). Dietro ci sono i finanziamenti di IKEA, che dopo aver incamerato 1 milione di spettatori per quello che è un’ironico ma gigantesco product placement – con poderose crescite nelle visite al sito-madre ikea.com dopo ogni nuova puntata – non si è fatta pregare a produrre la seconda stagione di Easy to Assemble e aggiungere già che c’era anche il gemellino dal gusto retrò.
Scrivo retrò perchè Spärhusen vede protagonista una finta band svedese anni ’70, le cui sorti artistiche non sono state baciate dalla stessa fortuna che nello stesso periodo sorrideva agli Abba. La serie è una specie di dietro-le-quinte della registrazione in studio, nel 1972, del primo singolo degli Spärhusen (Mele & Pesce). Reeves interpreta un produttore famoso, poco incline però a legare con il producer storico del gruppo; intuibili le gag di contorno…
Dopo il boom/sboom a cavallo del Millennio, ci siamo convinti per un decennio che i fornitori di contenuti potessero ricavare dal web solo attività di marketing e recruiting di nuovi talenti/idee, e in effetti così era. Poi sono apparsi sparuti sponsor qua e là, e si è iniziato a parlare, con evidente intento derisorio, di cent e Cenerentoline digitali. Sul finire del 2008 i cent sono diventati mezzi dollari digitali. E nel 2009 dai mezzi dollari digitali si è passati a “salviamo il mondo monetizzando Internet”, mentre Facebook va in attivo con 1 o 2 di anticipo sulle previsioni e si scopre che YouTube non sanguina soldi come da leggenda cyberurbana.
Ieri parlavo al telefono con uno dei più brillanti consulenti media italiani, peraltro lettore fedele di questa rubrica (perdonate la punta d’orgoglio). Mi diceva, con l’autorevolezza di chi per mestiere studia le formae mentis dei broadcaster italiani: “Hanno paura. È tutta un’enorme incognita e sperano che TV e pc rimangano separati il più a lungo possibile“. Aggiungendo: “Comunque sul breve termine non cambierà niente in Italia, e nessuno vuole ragionare oltre il breve termine in una situazione di generale incertezza”.
Okay, ha senso, ma definiamo il breve termine. Cos’è breve termine? 3 anni? No, perché, magari mi sbaglio, ma a me sembrano più 6 mesi, 12, 18. E si presuppone che le grandi media companies programmino al di là della contingenza a 12-18 mesi.
18 mesi fa Facebook aveva appena 100.000 iscritti in Italia, Twitter era una parolaccia austriaca, Hulu non esisteva e oggi negli States è il secondo brand della NewTV, 38 milioni di americani lo seguono online, ha più spettatori dei canali TV di Time Warner e per contrastarne il futuro come alternativa alla pay TV nascono come funghi le soluzioni di TV Everywhere.
18 mesi fa YouTube aveva solo 3 anni di vita, solo un pazzo avrebbe finanziato un film su una star virale come Lucas Cruikshank in arte Fred, e nessuno credeva sul serio che ovunque nei negozi delle nazioni avanzate invece di attardarsi sulle anticaglie come il digitale terrestre si sarebbero venduti televisori Net-enabled. 18 mesi fa il neonato iPhone era un gadget sfizioso; chi avrebbe immaginato che nell’estate 2009 avrebbe rappresentato il 20% degli introiti Apple?
18 mesi fa NBC, CBS, Disney/ABC, Warner – insieme con colossi della spesa pubblicitaria come Unilever o Procter&Gamble – non avrebbero osato creare un’anti-Auditel per superare le rilevazioni Nielsen, considerate non più in linea con lo scenario della fruizione multicanale dei contenuti.
Diciotto mesi fa col cavolo che Keanu Reeves, il creatore di CSI, i produttori di Gossip Girl e Vampire Diaries, l’autrice di Sex & the City avrebbero investito soldi e risorse per produrre web fiction.
Per cui, please, definitemi breve termine nell’ecosistema dei media contemporanei. Perché a me continua a rimanere oscuro il motivo della pigritudine italica – o se preferite del “tappo” al cambiamento – e dell’inerzia nel reagire all’inevitabile futuro di conquista del nostro mercato da parte di chi nel frattempo si è mosso nei tempi [americani, cinesi o svedesi che siano] accettando fallimenti e tentativi a vuoto lungo la strada.
Detto questo, passiamo al nostro monitoraggio settimanale di “chi si muove nei tempi”…
Partiamo con le major. NBC Universal ha lanciato la sua seconda sitcom Net-originale: In Gayle We Trust, 10 puntate. Se al debutto con CTRL il braccio webfiction di NBC aveva giocato su una trama a base di tè per coinvolgere nell’affare Nestea, stavolta a compartecipare al rischio sono gli assicurativi di American Family Insurance; la protagonista della serie, Gayle Evans, per vivere infatti vende assicurazioni. Scritta da Brent Forrester (una delle menti del fenomenale The Office, sempre NBC, ma OldTV), la logica è di presentare quante più polizze possibile all’attenzione dei navigatori, senza fargli capire che stanno guardando una pubblicità mascherata da sitcom. Poiché si parla di autori hollywoodiani, mica pizza e fichi, il gioco funziona. Arrivando ad exploit come la telecamera incollata allo specchietto retrovisore delle auto guidate da neopatentati (è un servizio di American Family Insurance che esiste davvero, chiaramente rivolto a genitori assai apprensivi); oltre a infilarla dentro la sceneggiatura, hanno girato un backstage per mostrare come funziona, e hanno creato un gioco sul sito.
Dai webisodes fondati sul product placement ai webisodes degli show OldTV più popolari. Fino a ieri trascurabili tie-in per appassionati hardcore, ora segmenti integrali della saga. Rimanendo in casa NBC, il 28 Settembre esordisce il sesto webserial di Heroes, che è fantascienza per rimbambiti e dalla stagione inaugurale è andata in vertiginoso e penoso calando, ma negli USA mantiene ottimi risultati nei demografici chiave “maschi 15/49”. Già l’ultima volta, con Nowhere Man, gli autori avevano tolto dal montaggio TV una cospicua porzione della sottotrama del cattivo pentito Eric Doyle presentandola solo online. Stavolta l’operazione viene esplosa con scene da 1 minuto fondamentali per comprendere appieno gli eventi del telefilm, il coinvolgimento nei webisodes non di un unico banale villain ma di un drappello di heroes e relative nemesi (sono attori di grido, costano, significa moltiplicare le giornate di posa; non basta un vezzo creativo per giustificarne l’impiego), e soprattutto il debutto direttamente in streaming di un nuovo personaggio essenziale alle puntate invernali. Ah, beh, c’è anche un concorso da 25.000 dollari per i fan della versione interattiva, che durerà 10 settimane e per la prima volta sarà prodotta internamente dagli studios (in passato era appaltata alla Retrofit Films).
Non sono soltanto le serie catodiche a ridosso del lancio a procedere spedite verso l’immigrazione digitale. Sempre NBC sta saggiando le acque su un altro versante: esiste una platea sufficientemente vasto online per sfruttare 365 giorni l’anno gli show quando non sono in onda? La domanda è sempre meno peregrina, via via che le run dei telefilm diminuiscono di lunghezze dalle tradizionali 24-26 puntate l’anno a corse brevi di 12-13 episodi. Nel caso di Chuck, il cult di spionaggio parodistico adorato dagli internauti ma perennemente in anemia di ascolti TV, la terza e forse ultima stagione partirà fra parecchio, a Marzo 2010, e solo grazie alla generosa sponsorizzazione della catena di ristoranti Subway. Per trovare online spettatori a rimpolpare lo scarno pubblico offline, NBC ha aperto ChuckMeOut.com, con ricco menu di contenuti in streaming e non. Già dall’assenza del logo aziendale in home si intuisce la diversità di mission rispetto al normale sito-vetrina istituzionale dentro NBC.com. Qualcosa di simile l’aveva tentato in primavera la CBS, co-adiuvata dalla EQAL, con Harper’s Island, ottenendo un record di views online per le prime puntate del programma (un avvincente slasher horror).
Tuttavia, giacchè le regole nell’universo virtuale non cambiano, e per sopravvivere ci vuole sempre e comunque pubblicità, il futuro sia Chuck TV che di ChuckMeOut.com è legato agli inserzionisti. Al momento la NBC ha venduto promozionali per il sito a chi già era cliente della serie TV (tra il 2008 e il 2009 Chuck ha fatto incassare 52,4 milioni di dollari in spot e affini all’emittente). Non basta; anzi in potenza cannibalizza la raccolta pubblicitaria televisiva. Si potrà parlare di iniziativa convincente solo se verranno introitati da ChuckMeOut.com contratti di peso da nuovi account.
Invero, il problema della monetizzazione online non offre a oggi soluzioni codificate. Si va avanti di fantasia. Ancora di più è privo di canoni lo sforzo in termini di risorse umane, dal team creativo a quello commerciale, sui social network. È un investimento che si ripaga? Manca un numero abbastanza congruo di benchmark e soprattutto di metrics univoci per rispondere. L’unica certezza è che nessuno negli States vuole perdere il treno, a prescindere dalla sua destinazione.
Tra le case history più citate dai blogger specializzati USA c’è quella del canale premium via cavo AMC con la presenza su Twitter del cast di Mad Men. Attenzione: non sono gli attori a twittare, sono i personaggi che interpretano (Mad Men è ambientato in una cinica e peccaminosa agenzia pubblicitaria di New York nel 1960). Tra i protagonisti di questa torbida storia di successo e tradimenti e il popolo di Twitter si è creata un’intensa relazione interattiva. Vengono testati possibili intrecci narrativi, si misura l’impatto emotivo dei singoli personaggi, ma più di tutto si consolida il rapporto di affezione tra lo show e i suoi fruitori. L’esperienza intrattenitiva si estende da 45 minuti una volta a settimana a 7 giorni su 7 giorni, 24 ore su 24.
Per un canale pay si traduce in potere negoziale nella stipula di accordi di product placement (Mad Men ne è ricolmo), in revenues da iTunes (dove la serie ha in svariate occasioni toccato la vetta delle classifiche di download), in grancassa per i critici (che hanno tributato 16 nominations agli Emmy nell’ultima tornata) e in ultima analisi un lusinghiero risultato di ascolti per un network minore a pagamento (4,5 milioni di spettatori il 16 Agosto per la premiere della terza stagione, numeri però in flessione con i successivi episodi).
Certo, sono formule di monetizzazione indiretta. Nessuno potrebbe sostenere credibilmente che i meccanismi siano maturi, del resto. Ma se è per questo l’App Store iPhone non esisteva quei famosi 18 mesi fa (in realtà neppure 14 mesi fa, è “nato” il 10 Luglio 2008) e oggi ci sono 75.000 applicazioni disponibili, con quasi 2 miliardi di downloads; con meno del 5% del mercato smartphone mondiale, Apple nel 2009 ingurgiterà il 35% dei profitti planetari di settore [dati Deutsche Bank].
Va aggiunto, a ulteriore spunto di riflessione, che la fusione tra il business classico e quello digitale può concretizzarsi in “n” modalità all’interno di imprese editoriali.
Prendiamo la Fox con Glee, geniale combinazione di musical e dramedy scolastico, un po’ Grease e un po’ Saranno Famosi. La serie è stata lanciata con scelta a dir poco inusuale a Maggio. La seconda puntata è andata in onda da poco, a inizi Settembre. Esatto, tra la prima puntata e la seconda di mezzo l’intera estate. Assurdo? No, perchè il trimestre di buco è servito a generare sui social network una mastodontica community di fan. E sempre durante l’estate il pilota era disponibile in streaming gratuito su iTunes, Fox.com e su Hulu. È montato l’hype, il passaparola ha fatto il suo dovere – d’altro canto il prodotto lo merita – e oggi Fox si ritrova con il miglior debutto di nuovo seriale degli ultimi 3 anni. Addirittura il 14% di share tra le donne 18/34 anni, una roba esplosiva in epoca di frammentazione dell’audience.
Glee, ripeto a buon diritto, è diventata una delle keyword più popolari su Twitter. E quando
– Fringe non aveva una presenza ufficiale su Twitter, si sono dovuti iscrivere apposta per l’esperimento, Glee sì, c’è da Maggio. Questi sono i Tweet-profili della serie (Glee) e di alcuni dei protagonisti (Rachel, Sue, Quinn e Kurt).
– Glee è amato dalla blogosfera e dalle stelle del Web 2.0: persino Michael Buckley ha dato 5 stelle a Glee!
– Glee ha acquisito rapidamente un profilo talmente alto sui social network che Thingfo ha già aperto un concorso per individuare il fan #1 dello show tra Facebook, MySpace e compagnia, è il caso di dirlo, cantante.
Morale della favola: Fringe, che pure è un ottimo, ottimo, ottimo thriller fantascientifico, è tornato on air martedì scorso perdendo il 9% rispetto alla premiere del 2008 (ma in un nuovo orario, gli ascolti OldTV calano per tutti, non c’è da lamentarsi troppo). Glee invece, seppur con un risultato totale medio sui 6.5 milioni di spettatori alla terza puntata, ha sfondato tra i 18/49, in particolare il pubblico femminile, e in America gli inserzionisti spendono e volentieri solo per chi attrae spettatori giovani.
Coming up next in NewTV: Edizione Streamaordinaria, 28 settimane dopo. E per i social-evoluti, i soliti 3 o 4 milioni di aggiornamenti e link utili sul mio Twitter.
NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.
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