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Quanti hanno visto la trilogia di Shrek in TV (su un canale pay, canale in chiaro, dvd, hard disk esterno collegato via media center) e quanti al cinema? Non ne ho la più pallida idea, ma non servono i calcolatori del MIT per intuire che l’archetipa fruizione in sala è minoritaria. Nulla di sconvolgente, cambia solo lo schermo, no? C’è persino chi floppa al botteghino e ribalta di 180 gradi in home video. Negli anni ’50 però l’avrebbero ascritta alla categoria “idee bislacche”…
È questione di percezione collettiva e abitudini mentali. Un’abitudine che prenderemo sarà quella di smetterla di distinguere tra contenuti audiovideo – siano talk, fiction, game show, news, sport, reality, comedy, dibattiti politici, lifecasting, vlog rant, UCG – prodotti per la TV e prodotti per il web. La piattaforma di distribuzione originaria (che poi in realtà, escludendo appunto i lungometraggi cinematografici, saranno sempre device IP-based, pc o smartphone o televisori Net-enabled) è solo uno di tanti anelli concatenati. Conta relativamente dove una serie è “andata in onda” la prima volta, se su un videoblog o su RAI 4. Conta quanti spettatori e/o sponsor ha accumulato in vita sulla somma di tutti i canali di sfruttamento. Conta il Pubblico Totale Potenziale, su cui hanno basato le loro fortune progetti visionari come blip.tv; ma poiché di Blip ho già parlato la scorsa settimana non mi ripeto, cliccate il link nel caso.
L’industria si deve adeguare a un’audience sempre più frammentata, spalmata nel tempo, fondata sulle nicchie di interesse e sulla riscrittura della catena del valore. Non il contrario. Non prendetevela con il consumatore se decide di non perpetuare in eterno i rituali di fruizione dei media del secolo scorso. È il ragionamento alla base delle neonate e immediatamente acclamate soluzioni di TV Everywhere proposte negli States da Comcast, AT&T e presto o tardi un po’ tutti gli operatori. Nei mercati tecnologicamente avanzati, di cui purtroppo non fa parte
Uno degli effetti più interessanti dal mio personalissimo punto di vista? Chi si occupa di misurare “quanti guardano cosa” ha dovuto prendere atto sotto la pressione degli inserzionisti che le rilevazioni classiche erano insufficienti. Per questo dal 2010, la notizia è fresca fresca, Nielsen sostituirà negli USA tutti i suoi meter e dal 2011 fornirà per ogni singola trasmissione dati aggregati OldTV+Internet.
Molti non lo ritengono sufficiente. Tra questi un gruppetto di insignificanti player di settore come NBC Universal, Time Warner, News Corp., Procter & Gamble, Unilever, CBS, Discovery, Viacom e Disney, più un paio di mastodontiche concessionarie di pubblicità. Tutti insieme per sviluppare un inedito metodo di diagnostica e rilevazione degli ascolti che includa da subito gli schermi con accesso web, calcoli eventuali duplicazioni di views [gente che guarda due volte lo stesso programma, ad esempio su NBC TV e poi su Hulu.com], i vantaggi incrementali della declinazione multicanale e se possibile anche il grado di engagement degli spettatori (analisi qualitativa dei dati, spinosissimo argomento; per una corposa monografia sullo Streamitel cliccate qui). Nel concreto, sarà un misto di dati da set-top box e indagini a campione. La differenza rispetto precedenti esperienze nel campo, come il TAMI (Total Audience Measurement Index) della NBC, è nella universalità delle realtà monitorate. Non più estrosi test solitari, si passa allo screening collettivo ufficiale.
Stiamo parlando di un business da 70 miliardi di dollari l’anno nei soli Stati Uniti. Se si muovono i giganti, evidentemente questa favoletta della convergenza non è più confinata alle fantasie dei nerd, non credete?
Ora, se cambiano i criteri di misurazione, di colpo la distinzione tra una produzione televisiva vecchia scuola e una webserie diventa obsoleta. Entrambe concorrono agli stessi occhi, e verranno alla fine della fiera soppesate sulle stesse tabelle. Per questo motivo il mantra ricorrente tra i guru dell’online video è che le web fiction siano uscite dalla loro fase pioneristica, se vogliamo romantica, dominata da ardimentosi dilettanti allo sbaraglio e giovani promesse in erba, per entrare nel mass market.
O dovremmo ritenere casuale che proprio l’altra settimana, in coincidenza con la sterzata di Nielsen sulla Total Audience, abbia debuttato
L’autunno/inverno 2009, forse la prima, vera stagione (New)televisiva negli USA, potrebbe riservare un nuovo posticino alla ricca mensa dello show biz hollywoodiano: un posticino riservato a chi produce nativamente per siti, blog, YouTube, social network e le loro innumerevoli varianti ambientali. E di colpo mutano forma le risorse a disposizione, le opportunità, la portata e le ambizioni delle iniziative.
In un’insolita combinazione alchemica di elementi, i marpioni dell’antica TV stringono alleanza con le avanguardia dell’online entertainment. I soldi e le entrature si accoppiano alle competenze. Nascono così nuove entità produttive ibride, in una febbrile e magmatica ricerca dell’idea drammaturgica e dell’accordo commerciale vincenti. Nascono e spesso muoiono, questi nuovi attori. Salvo poi rinascere altrove. Nel frattempo, stravolgono per sempre il volto dell’industria, scrivendo il capitolo introduttivo di quella che amo definire NewTV.
Prendiamo il target adolescenziale al femminile. Per loro ha esordito a metà Agosto su Teen.com il seriale drammatico Private. 20 puntate da 6 minuti l’una, al ritmo di
Se seguissimo le logiche nazionali, allocare risorse ingenti a una web fiction, proprio quando il braccio televisivo tradizionale della Alloy è sotto pressione per la premiere di The Vampire Diaries su CW, sarebbe assurdo [tra parentesi, la prima puntata dei Diari ha fatto segnare un record d’ascolti, a conferma del momento d’oro per il filone vampirico buonista dopo Twilight e True Blood]. E invece il processo mentale è l’inverso. Proprio perché il mercato dei giovani adulti è considerato un segmento ormai irrevocabilmente orizzontale, non ha senso per chi ci investe mantenersi verticale, in questo caso al tubo catodico. Ogni momento della vita di una ragazza deve poter avere una costante targata Alloy. Da qui le sinergie con il mondo letterario (sia The Vampire Diaries che Private sono basati su teen novels) e la nascita di un network di web-destinazioni, in testa Teen.com, che genera 52 milioni di visitatori unici al mese, incassando soldi da schiere di aziende di igiene intima. Money money money, inutile ripeterlo, sottratti alle vecchie emittenti TV.
Cosa determinerà la vita o la morte di Private? Anche qui, si tratta di ragionare orizzontalmente. Una combinazione di variabili influenza la valutazione finale sul progetto. Il numero di views peserà, ovvio, ma peserà anche il ritorno in termini di vendite librarie del ciclo di romanzi, e peseranno soprattutto le statistiche di engagement delle fan elaborate dagli inserzionisti principali (Neutrogena e Johnson & Johnson): chi se ne frega dell’audience e delle views se poi abbiamo un colossale successo delle Fan Page su Facebook e le ragazze si photoshoppano il volto sulle copertine delle riviste co-brandate da Neutrogena…
Sempre rimanendo in ambito di sperimentazioni a panino letteratura+online video, l’8 Settembre ha debuttato Level 26, prodotto dall’ormai semileggendaria EQAL di lonelygirl15 e scritto da Anthony Zuiker, il creatore di CSI. Privo di lacci e lacciuoli proteggi-bimbi del prime time, lo si può definire una sorta di CSI horror vietato ai minori; protagonista un morboso serial killer contorsionista dal nome impronunciabile (Sqweegel). Non c’è bisogno di entrare nel dettaglio del plot, in quanto i blogger italiani ne hanno già diffusamente parlato e ancora di più se ne parlerà in coincidenza con il lancio dell’edizione nostrana del volume, il 22 Settembre. Peraltro Zuiker stesso per l’occasione si è calato nella parte del blogger (vedi il sito ufficiale del progetto), apparentemente con tenacia e coinvolgimento personali assai rari nell’algido Hollywoodverso – Ashton Kutcher e la sua scaltra Twittermania a parte…
Level 26 è un mix di digiromanzo da 400 pagine, applicazioni per iPhone e webfiction a medio budget (20 puntate per un costo complessivo di 200.000 dollari). Altri 2 digiromanzi seguiranno nel 2010/2011. La trama si snoda a cavallo tra le piattaforme, quindi limitarsi a leggere il libro senza guardare in contemporanea la webserie è come giudicare una partita dalla sintesi di 3 minuti con i goal e le azioni più importanti.
Sotto il profilo più prosaicamente business lo possiamo inserire tra gli esperimenti cool in cui l’elemento multimediale diventa strumento di marketing, e si ripaga le spese con le PR gratuite generate. Ma finché ci sarà distanza fisica tra il divano su cui si legge il romanzo e la scrivania del pc diventa illogico ipotizzare un’adozione di massa del formato thriller cartaceo + thriller webvideo. Non tutti gli scrittori di gialli possono investire 200.000 dollari in webfiction corollarie come Zucker. Discorso radicalmente diverso se la distanza tra il divano e Internet si annulla. Ad esempio, leggendo il romanzo su un e-reader. Stanno per invadere i negozi vagonate di cloni del Kindle a basso prezzo; se non questo Natale, sarà il prossimo Natale, ma avremo i nostri e-reader a 100 euro con incorporati playerino video e sistemi di micropagamento (incluso, sembra, uno sviluppato da Google). A quel punto modelli di storytelling crossmediali come Level26 possono tramutarsi da oggetti di curiosità in galline dalle uova d’oro. E poiché non si tratta di aspettare eoni, bensì alcuni mesi, chi si posiziona adesso acquisisce un notevole vantaggio competitivo.
Talvolta è questione di comporre un mosaico di interessi. Candace Bushnell, l’autrice di Sex & the City, dopo il buco nell’acqua di Lipstick Jungle sulla NBC, ha messo insieme una rivista per donne (More Magazine, pubblicato dalla Meredith), Co.Op TV, e i cosmetici Maybelline per dare vita al suo primo webserial. Una mini in 4 parti da circa 7 minuti l’una, intitolata The Broadroom. Il webisode inaugurale è up su YouTube, dopo una breve esclusiva sul sito ufficiale TheBroadroom Online e sul blog per mamme Divine Caroline, a conferma del legame sempre più stretto tra blog e web show. Tutto brandizzatissimo dai rossetti Maybelline (persino il cursore del mouse prende forma di rossetto).
Nel cast un mucchio di veterani delle fiction TV e una regista di grido; i valori produttivi sono innegabilmente alti. E lo sforzo narrativo è altrettanto professionale. In termini di scrittura, quattro puntate da 7 minuti uguale 28 minuti complessivi. Più o meno i due terzi della durata di una serie drammatica tradizionale (i telefilm USA durano 44 minuti in media, 23 minuti se sono sitcom). L’intera serie dura meno del pilota di una fiction “normale”. Questo stravolge lo script sin dal secondo zero. Significa, per dirne una, eliminare la classica scena introduttiva corale di tutti i personaggi, o del protagonista di puntata, che di norma da sola occupa fino a 6 minuti.
Ma per la Bushnell l’impegno è giustificato dalle speranze di ritorno su un’operazione che non avrebbe avuto alcuna sponda nei palinsesti dei network analogici. The Broadroom è rivolto a donne tra i 25 e 54 anni, strizzando l’occhio anche alle sessantenni. È la stessa fascia d’età coperta dalla rivista More, ma è un segmento con spazi esigui nella OldTV. Addirittura le donne oltre i 55, tra le più accanite neoconsumatrici di web negli States secondo le stime della direttrice di More, Lesley Jane Seymour, sono fuori dai demografici chiave dell’Auditel USA, quelli su cui si basano i contratti pubblicitari e conseguenti decisioni di finanziamento progetti. Ergo: c’è una finestra di opportunità da sfruttare. Su produzioni come The Broadroom l’obiettivo è di convogliare tutte le realtà golose di signore con il portafogli gonfio già clienti di More Magazine: da Ralph Lauren a Coach, Estee Lauder, Cadillac. Amici miei, questo si chiama “avere un modello di business”.
I produttori di Gossip Girl e The Vampire Diaries, il creatore di CSI, l’autrice di Sex & the City… Notate il trend? È chiaro dove porta, vero?
Se la programmazione di Channel Awesome non vi sembra killer abbastanza da costringere al pre-pensionamento Bonolis, Frizzi e la Ventura, l’ingresso in campo degli studios cambia decisamente le carte in tavola, terminando l’era del caos disordinato, quando si girava per la distribuzione internettiana tanto per, senza neppure sapere a chi vendere il girato. E tuttavia, non è in atto – sarebbe assurdo – un processo di sostituzione delle web star autoctone con quelle di Hollywood. Lo ripeto, al contrario è un processo di assimilazione e individuazione di ipotesi di complementarità e sinergia (vedi il caso EQAL).
I giovani talenti del digitale sovente e volentieri inventano concept geniali, e 99 volte su 100 hanno competenze specifiche imbattibili. Da soli non rubano le masse alla OldTV. L’intelligenza dell’industria dei media americani è di averlo compreso senza ricavarne conclusioni derisorie o peggio ancora da “pericolo scampato, possiamo continuare a ignorarli”. La conclusione logica per chi punta a costruire business e non a galleggiare sulla poltrona quei 5-6 anni che mancano alla pensione è: iniziamo a fornirgli mezzi e risorse per andare oltre gli early adopters e traghettare un’intera economia nella Nuova Frontiera. Please, a Roma e Milano prendete nota…
Voglio chiudere con un esperimento. Vi citerò 2 webserial autoprodotti, fuori dal circuito delle major dunque, e scommetto che entro un semestre saranno assorbiti o in affari con uno dei tanti colossi dei media.
Webserial-scommessa #1: Odd Job Nation, creato da Jeremy Redleaf. Nel pilota, il protagonista viene licenziato dal suo incarico d’alto profilo e prende a setacciare
Una formula insolita, un prodotto di entertainment che diventa trasmissione di servizio ed estende l’esperienza di intrattenimento molto, molto al di là dei 6 minuti di ogni webisodio. Una formula vincente ed esclusivamente possibile su una Net-piattaforma. Una formula intrinsecamente mainstream, e come tale destinata ad attrarre investimenti e partnership (mi viene naturale pensare al co-branding con un portale di recruitment; se lo fa Candace Bushnell con i rossetti perché non Jeremy Redleaf con Monster?).
Webserial-scommessa #2: Tiki Bar TV, di Jeff Macpherson e Kevin Gamble, comedy show minimalista a cadenza mensile, pioniere del vodcasting, con 44 puntate all’attivo in 5 anni. Tutto ruota intorno alle ricette per cocktail risolvi-guai prescritte dal fantomatico Dr. Tiki (Macpherson) e ai bizzarri balletti della avvenente Lala (Lara Doucette), ingegnere elettronica, la più affezionata cliente del Tiki Bar. Un veicolo ideale di product placement per marchi di bevande alcooliche, o in alternativa strumento di promozione virale per chi si occupa di lifestyle verso una community, quella della Tiki Bar TV, già da tempo adusa a scambiarsi consigli sui locali alla moda e sugli Happy Hour attraverso il forum.
Appuntamento a Pasqua per verificare le previsioni…
Coming up next in NewTV: il ruolo e l’efficacia dei siti ufficiali nel garantire lunga vita e prosperità a un programma televisivo, oggi. E in attesa della prossima rubrica, tutti i giorni aggiornamenti in tempo reale sul mio Twitter.
NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.
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