Italia
§§§ Moria delle vacche tra gli studi di produzione solodigitali, ovviamente mi riferisco a quelli yankee con venture capital alle spalle. In Italia, mancando investitori, ci si può affidare solo alle proprie personali risorse e nessuno può stupirsi di chiusure improvvise; semmai, al contrario, di longevità inattese. Ma torniamo a dove si fa vero business. A Marzo ha smontato gli uffici Mania TV, a Maggio 60 Frames (che avevo citato di recente per un progetto di webserial fantascientifico). Altre vittime sono attese per l’estate. La stampa di settore si chiede chi sopravvivrà tra gli emergenti, come Deca, Agility, Next New Networks con 25 milioni di spettatori al mese sparpagliati tra una miriade di videocanali, Electric Farm Entertainment (quelli di Afterworld) e Revision3. Tutti competono per i pochi dollari di pubblicità sul mercato con la crescente concorrenza dei colossi, da GoogleTube e Hulu via via a scendere. È vero che secondo i consulenti di Magna negli States le risorse a disposizione dell’online video cresceranno nel 2009 del 32% (da
Non mancano tuttavia casi di solidità finanziaria senza ricorso a compromessi. È il caso di My Damn Channel, i produttori di Fai Schifo con Photoshop (2 milioni di views per il primo episodio su YouTube + altre 600.000 sul sito ufficiale di My Damn Channel) e altre premiate webserie comiche. Hanno vinto uno sproposito di Webbys, un paio di Premi Streamy 2009, e iniziano ad attirare anche artisti VIP (come il conduttore radiofonico Sam Seder, di cui hanno appena lanciato Pilot Season, 30 episodi a cadenza settimanale, con le guest star di Sarah Silverman e Isla Fisher). My Damn Channel, al pari dei colleghi di CollegeHumor.com, è in attivo. All’umorismo, evidentemente, lo streaming fa bene…
§§§ A metà 2007, ogni minuto venivano uploadate su YouTube 6 ore di video. In seguito sono diventate 8 ore al minuto. Poi 10. Poi
§§§ E tuttavia, accanto alla direttiva primaria – controllo monopolistico di ogni UGC mai concepito – inizia a prendere forma nel quartier generale di YouTube anche la politica da adottare nei confronti dei partner di livello premium. Ad esempio ESPN, il canale sportivo di proprietà di Disney (ergo il nuovo grande azionista di Hulu). Da Luglio le clip ESPN su YouTube avranno un player diverso dal solito, un player proprietario brandizzato. Non è solo questione di forma. Con un suo player in azione sopra la piattaforma youtubica, ESPN può aggiungere a sua discrezione – eufesimo per “può vendere come vuole” – pubblicità in testa e in coda, oltre a monitorare ogni minimo dettaglio delle views generate, benchè YouTube al riguardo già offra una mole di dati più che robusta. La stessa eccezione sul player è stata concessa pure a Sony per i contenuti di Crackle.com e alla CBS, che carica tonnellate di serie TV vecchie e nuove. Per tutti vale la clausola che autorizza a piazzare spot sui filmati (la CBS per esempio mette pre-rolls sui classici come MacGyver e Beverly Hills, 90210). La situazione a tendere rischia però di farsi imbarazzante. Prima o poi gli spazi per la pubblicità in-stream si satureranno. E a quel punto? Chi vende e chi resta a bocca asciutta? Immaginate se per i film Disney trasmessi da RAI 1 la Sipra non potesse vendere billboard, in quanto esclusiva della concessionaria incaricata da Mickey Mouse…
§§§ Proseguiamo questa puntata semi-monografica sulla pubblicità con il nostro argomento preferito: Hulu. L’autorevolissimo AdAge ha svelato il CPM (costo-per-migliaia di views) richiesto ai clienti dal commerciale di Hulu. Al momento si aggira sui 40 dollari, un pelo sopra i 45 dollari che di solito vengono pagati ai 4 network in chiaro che dominano l’etere americano. Secondo l’altrettanto autorevole Mediaweek il CPM di Hulu “reale”, detratti i consueti sconti quantità, oscilerebbe tra i 25 e i 40 dollari, paragonato al CPM “reale” delle emittenti TV sui 30 dollari. Se vi sembra esoso, la pensate come molti pubblicitari d’Oltreoceano. E infatti, seppur confortati da inserzionisti del calibro di Nissan, Toyota, Intel, Procter & Gamble, Cisco e Chanel, Hulu non copre per niente tutti gli spazi promozionali disponibili. Ci sono appena 2 minuti di spot ogni mezz’ora, e gli episodi non sono mai assegnati a più di uno sponsor. Parliamo di meno, assai meno di un terzo della pubblicità presente – per gli stessi identici contenuti – sul tubo catodico.
La percezione diffusa è che basterebbe diminuire anche marginalmente i CPM per far esplodere la raccolta pubblicitaria di Hulu, che già nel 2009 dovrebbe rappresentare il 10% del totale online video USA, ma gli azionisti (Fox, NBC/Universal e Disney) non vogliono, nel timore di cannibalizzare gli introiti dei loro canali televisivi classici. Preferiscono, si dice, utilizzare il loro nuovo gioiellino delle meraviglie per testare le acque.
Esempio 1: l’Hulu-spettatore può decidere se sorbirsi i consigli per gli acquisti all’inizio dello show o inframezzati durante l’azione; può anche decidere quale spot guardare di ogni determinata marca, tipo lo spot della city car o quello del fuoristrada. È una forma di engagement marketing.
Esempio 2: iniziative di behavioral advertising, pubblicità modellata sulle inclinazioni personali del navigatore, denominate “retargeting” (se chi guarda Hulu arriva dal sito della Procter & Gamble, e non ha cancellato nel frattempo i famigerati cookies sulla cronologia d’uso del proprio browser, Hulu gli piazzerà davanti in automatico uno spot della P&G appena il nostro inconsapevole spettatore apre il player). Naturalmente il behavioral advertising apre un’autentico vaso di Pandora politico per la sua allegra violazione di ogni privacy e ci si augura sia quanto prima oggetto di precisa regolamentazione legislativa in difesa del consumatore.
Le acque vanno testate anche nel B2B. Prendete le agenzie che fanno da intermediari tra aziende e broad/netcaster. D’improvviso devono convincere i loro polli a produrre spot ad hoc per il web video, perché quelli televisivi sono mal recepiti dai navigatori, e spesso non funzionali. Una spesa aggiuntiva imprevista. Quasi tutti i buyer di pubblicità poi esprimono sconcerto per
Ma i maggiori ostacoli arrivano dall’interno. A inizi 2009 lo staff dirigenziale di Hulu aveva suscitato le ire funeste dei suoi finanziatori consentendo a Boxee, una start-up specializzata in tecnologie web-to-TV (in succo con Boxee “acchiappi” gli streaming dal pc e te li guardi in TV), di accedere alla sua library. Nell’ottica di un netcaster aveva senso, più il mio prodotto è syndicato all’esterno, più genero views e quindi potenziali introiti. Tuttavia, nello specifico Hulu era diventato de facto un canale TV gratuito in diretta competizione con i genitori e tutta la loro offerta in chiaro e a pagamento via cavo. Quando a Gennaio se n’è accorto il New York Times, devono essere volate urla ai piani alti. Dal giorno alla notte Boxee è stato tagliato fuori, e i programmatori di Hulu hanno più volte modificato il software che gestisce la piattaforma per impedire situazioni analoghe con lo stesso Boxee e altri servizi analoghi. Persino quando la scorsa settimana è stato lanciato il player offline, con cui è possibile scaricare i video da Hulu e guardarseli con comodo in seguito [ergo: non in streaming], si è sottolineato il divieto assoluto di usare questo nuovo strumento per caricare i file su un set-top box e guardarseli in salotto davanti alla TV. Eppure sarebbe l’evoluzione più naturale. Ma la paura fa 90, e la OldTV non è ancora pronta a un cambiamento così repentino. Lo sarà presto però. Sono americani, gente pragmatica.
§§§ Gli inserzionisti invaghiti delle platee internettiane possono ora contare sui consigli dell’agenzia di social media advertising Lotame. Sono consigli frutto di una ricerca condotta a inizi 2009, e riguardano perlopiù la durata perfetta del videospot online: 40 secondi. Per lo spot singolo infatti il livello d’attenzione inizia a salire superati i primi 3 secondi, raggiunge l’apice dopo 40 e degrada sensibilmente dopo 113 secondi. Mi torna arduo immaginare, esclusi i trailer cinematografici, uno spot lungo addirittura 113 secondi, ma tant’è, forse Lotame ha inserito nelle sue formule qualche sito vintage di revival Carosello. Nel caso invece di un blocco di pubblicità (inserite si presume in testa o all’interno di un contenuto long-form, ad esempio un episodio TV integrale), l’impatto è più forte tra i 17 e i 76 secondi dalla partenza, mentre superati i 225 secondi qualsiasi net-spettatore già sta chattando in un’altra finestra. Anche qui, non mi risulta nessun sito così folle da insertare 225 secondi di pubblicità consecutivi dentro uno streaming. È interessante però il dato sul range 17/76. In succo, un minuto di pre/post o di in-roll è la misura ideale per la NewTV.
Coming up next in NewTV: Bob Marley disse “il bello della musica è che quando ti colpisce non provi dolore”. Sperando sia presto archiviata l’epoca del conflitto tra label discografiche e appassionati internauti, sono quasi al debutto diverse iniziative di video streaming concepite per colpire al cuore i navigatori.
NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.