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Da quando abbiamo iniziato a digitare questa rubrica in quel di Febbraio, Hulu è passato da 24 a 41 milioni di spettatori unici al mese (dati ComScore), ed è oggi insieme a Twitter il sito più copiato e ammirato del momento. Ma soprattutto, con l’ingresso mercoledì scorso di Disney/ABC nel capitale azionario – si parla di una quota del 27% per un investimento complessivo superiore ai 150 milioni di euro, tra contanti cash-and-carry e spazi pubblicitari pre-pagati da allocare agli spot di Hulu, a cui va aggiunto l’incalcolabile valore dei diritti concessi in esclusiva – è diventato di fatto il Golia della NewTV.
Golia a dispetto del pubblico tuttora smaccatamente inferiore rispetto ai 100 milioni di americani fedeli a YouTube, e a dispetto della sua assenza totale fuori dai confini degli Stati Uniti (assenza che a seconda delle opinioni, con l’arrivo di 3 dirigenti Disney nel CdA a 12 di Hulu, potrebbe durare ancora a lungo o finire prima del previsto).
Golia perché dispone da oggi in catalogo dei contenuti di 3 su 4 dei top network USA in chiaro, ovvero Fox, NBC e ABC (incluso un discreto pacchetto di prodotti dai rispettivi canali pay via cavo dei 3 gruppi), e ne sa fare buon uso, mentre i miliardi di video sharati su GoogleTube sono nella stragrandissima maggioranza una massa informe di clip user-generate low quality.
Golia perchè sta per proporsi come la destinazione ufficiale primaria per guardarsi gratis migliaia di puntate di Lost, Grey’s Anatomy, Desperate Housewives, Scrubs e infinite altre serie TV, film per bambini e show comici, vagonate di soap da General Hospital (che in Italia è latitante da 15 anni) in giù, carriolate di serie animate targate Disney tra cui il recente e acclamato Phineas and Ferb, oltre al considerevole indotto di webisodes e spin-off solo-Internet legati alle suddette trasmissioni.
Golia perché con il contratto di esclusiva biennale Disney/ABC si allunga in automatico di altri 2 anni anche il contratto di esclusiva con i genitori Fox/NBC Universal, ed entrano dentro palate di milioni di dollari di dote (50+50 ne avevano messi Fox e NBC all’inizio, altri 50 ne metterà ABC) da spendere in onnipresenti spot televisivi come quelli interpretati da Alec Baldwin, Eliza Dushku, Seth “I Griffin” MacFarlane e Dennis Leary.
Un Golia, peraltro, che stando alle dichiarazioni ufficiali:
* non cannibalizza gli ascolti televisivi classici (irrealistico, da considerarsi una “velina” per non irritare oltre modo gli inserzionisti; gli ascolti TV sono in contrazione irreversibile)
* non si cannibalizza con l’offerta su ABC.com, e questo è probabile. Solo il 13% degli Hulu-dipendenti clicca anche su ABC.com, e solo l’8% di chi guarda video in streaming su ABC.com macina bytes anche su Hulu. Messi insieme, i due aggregatori fanno paura, e chissà che non solletichino il naso di qualche commissario anti-trust.
Certo, la leggenda ci ricorda che Davide batte sempre Golia, e tuttavia se non è agevole identificare in toto Hulu nei panni di Golia, è spaventosamente difficile far sostenere a YouTube, anzi GoogleTube, il ruolo di Davide.
Quello su cui invece non si può sbagliare è l’ascesa del long-form nell’empireo dello streaminverso. Con prepotenza i dati degli ascolti online sono entrati dal giorno alla notte nei comunicati stampa dei canali televisivi. Prendiamo CBS. È l’unico dei telebig americani ancora fuori dalla piattaforma Hulu, insieme al minuscolo CW di Time Warner. Difficile si faccia avanti per corteggiare Hulu. Ha già infatti investito montagne di dollari per papparsi CNET e rilanciare il suo TV.com, che in effetti a Marzo 2009 ha fatto segnare un lusinghiero +27% nei visitatori unici. Bene, nello spostare le nuove puntate del suo peraltro piacevolissimo serial horror Harper’s Island a un impossibile orario di sabato sera, CBS si è giustificata una settimana fa con la tesi: “non conta niente in quale giorno programmiamo Harper’s Island in TV, i suoi fan preferiscono guardarlo in differita sui DVR dei set-top box oppure su CBS.com, dove si è imposto come il nostro #1 assoluto di sempre”. Capito l’antifona?
Dunque, se i long-form si avviano a prendere il sopravvento e con l’imminente arrivo nei negozi delle Widget TV sono destinati a dominare sempre più la domanda di intrattenimento interattivo e soprattutto la raccolta pubblicitaria, come può Google reagire prima di perdere l’attuale primato e la sua immensa platea youtubante?
Dal redesign di YouTube del 16 Aprile è emersa una strategia chiarissima: non si reagisce senza andare a competere sul terreno dei long-form. Il dilemma è quanto spingere sulla riqualificazione. È ovviamente un equilibrio sottile, quello tra i pochi contenuti premium e le bibliche masse di UGC amatoriali o semi-professionali. Inseguire eccessivamente il prodotto hollywoodiano, concendendogli troppo spazio in home (e persino i neonati sanno quanto conta la home di YouTube in termini di views), rischia di penalizzare le star “autoctone” faticosamente aggregate negli ultimi anni, da Fred a Michael Buckley a SXEPhil [vedi NewTV “Internet Killed The Video Stars” per un elenco più completo]. Star che, per via dei pagamenti in revenue sharing fatturati sul numero di views, hanno bisogno di continua promozione da parte di mammaTube. Altrimenti rischiano di dover tornare a lavorare in fabbrica.
Senza contare le grida di dolore della community dei peones, i milioni di anonimi YouTubers impauriti dallo spauracchio di censure, disallineamenti rispetto alla filosofia originale, e più in generale infastiditi dalla logica dell’andare appresso a Hulu a ogni costo (“oh, hell, no, YouTube has sold out completely”). Anche se alcune delle nuove features introdotte in via sperimentale – come una specie di chat stile Facebook nell’angolo in basso a destra dello schermo, l’editor per personalizzare i propri canali personali YouTube, e la possibilità di scaricare i video di partner selezionati (a pagamento? free? alcuni si pagano e altri no?) – non rientrano nella categoria corriamo appresso a Hulu, sono solo positivi miglioramenti dell’esperienza di fruizione del sito.
Del resto, lo scenario è destinato per forza di cose a cambiare. Per nessuno dei player leader ha senso ingessarsi. Lasciamo da parte film e telefilm hollywoodiani. D’accordo, sarà arduo aprirsi spazi su quel versante. Perché però Google non dovrebbe investire in diritti sportivi, aggiudicandosi ad esempio il calcio europeo, o gettare un guanto di sfida sui reality a Endemol? Non si vive di sola fiction e se gli sponsor approvano la battaglia tra Davide e Golia può riservare ogni sorta di sorpresa.
Ancora una volta, dipende tutto dagli umori di chi ha soldi da spendere in pubblicità. Secondo i blogger più indiscreti, Google non avrebbe una politica commerciale da urlo per la vendita di spazi di sponsorizzazioni sui long-form ospitati da YouTube (una manciata di episodi completi di vecchie glorie tipo Beverly Hills 90210, MacGyver e Star Trek anni ’60, a cui andranno aggiunti i film in arrivo da un accordo con la Sony e le ultime novità CBS; chiaramente parliamo di video non disponibili per i pc con IP non americano). Nelle puntate della Famiglia Addams, su 25 minuti ci sono a oggi solo 30 secondi di pre-roll, un break in testa, e altri 30 secondi di post-roll, un break in coda. Tutto il resto dell’episodio è libero da spot, il che fa felici gli utenti, ma lascia languire le casse.
NBC ed ABC sui rispettivi siti riescono a inventarsi i famosi “digital half dollars” vendendo esclusive puntata-per-puntata. CBS infila in ogni episodio più di un inserzionista. Hulu procede senza regole: ci sono video “gentilmente offerti” da una sola azienda e altri multi-sponsor. Sono inferiori a quelle televisive, ma ci sono parecchie interruzioni pubblicitarie.
Sebbene indietro su ogni fronte, YouTube ha nondimeno annunciato di aver aumentato del 50% il numero di views a cui è stato associato un inserzionista. Più nel dettaglio, il 9% dei suoi spettatori americani ha visto spot su YouTube nel 2008, contro il 6% del 2007. Quel 9% può sembrare misero, ma una volta rapportato al pantagruelico catalogo del portale diventa un macigno d’oro. Significa infatti vendere advertising a un numero di net-spettatori superiore al 100% totale del secondo diretto concorrente, che a inizi 2009 era Fox Interactive (IGN e MySpace). Fox Interactive secondo ComScore ha generato 463 milioni di views a Febbraio 2009, l’8% dei 5.3 miliardi di views generati da YouTube. I conti tornano…
Tra i segreti dell’exploit l’utilizzo del software ContentID, che consente di individuare tramite delle “bandierine” elettroniche i video caricati su YouTube in violazione dei copyright, e lasciare ai legittimi titolari dei diritti la scelta se farli mettere offline oppure lasciarli online e piazzarci dentro pubblicità. A quanto sembra, e non stentiamo a crederci, 9 media company su 10 se ne fregano altamente di imporre il rigore e preferiscono l’oleoso contante (leggi: i video “non autorizzati” restano up e YouTube ci aggiunge messaggi commerciali testuali in sovrapposizione forzosa, i cui ricavi vengono poi spartiti con gli studios e non con l’uploader originale). Ne accennavano tempo addietro quelli di MondoMedia in un’intervista: d’ora in avanti poco male se un fan carica su YouTube gli Happy Tree Friends senza permesso, ContentID identifica il contenuto, e YouTube monetizza versando a MondoMedia la sua percentuale.
Non è una panacea per alleviare tutte le spine, né tantomeno basterà a far recuperare gli 1.65 miliardi di dollari spesi da Google per rilevare YouTube, ma è una delle soluzioni per ovviare alla paradossale maledizione: “sono più popolare di Topolino, e mi sta rovinando”. Gli iscritti al sito caricano infatti 15 ore di video ogni minuto del giorno, imponendo a Google un’astronomica spesa – solo di banda e hdd – calcolata da Credit Suisse in 365 milioni di dollari annui. In pratica YouTube fornisce connettività gratis al mondo intero. Ma i suoi inserzionisti non sono interessati al mondo intero, sono interessati alle views interne agli Stati Uniti. Ora, poichè il 70% degli spettatori del portale non è americano, un’altra sfida per Google è convincere le aziende non-americane della bontà dello streaming come veicolo pubblicitario. Da qualsiasi punto di vista lo osservi, il modello di business di Hulu presenta meno incognite…
E tuttavia, una soluzione alternativa esisterebbe. La propongono diversi analisti indipendenti: lasciar perdere le guerre di audience online, e focalizzare YouTube sul core business di Google, ergo i motori di ricerca. Con il suo archivio di miliardi di video copiosamente taggati, recensiti e incastrati nella nuvola sociale del Web 2.0, YouTube è già naturalmente il miglior possibile motore di ricerca video. Quel motore che persino Google stessa non è mai riuscita né a ottimizzare né a imporre: a Gennaio 2009 sono state effettuate 3 miliardi di ricerche su YouTube, solo 98 milioni su GoogleVideo. Non servono le statistiche (che pure abbondano) a dirci che il navigatore medio, quando è in cerca di clip citate su un blog, o sui quotidiani, o nei talk show, semplicemente clicca a occhi chiusi su YouTube e sa di andare a colpo quasi sicuro. Le alternative, da Truveo a Blinx a CastTV e VideoSurf sono semisconosciute.
Oggi YouTube non è ancora un motore di ricerca, è un sito di video sharing. È nato come sito di video sharing, del resto. Se qualcuno non carica i video sulla piattaforma, la piattaforma non li indicizza. Per fare il salto, YouTube dovrebbe iniziare a linkare i contenuti esterni, inclusi possibilmente quelli dei concorrenti, Hulu e cugini in primis. E tuttavia, evitando conflittualità con le major, Google potrebbe chiudere una delle rare partite ancora aperte nel settore della search engine, e monetizzare cifre incredibili, via via che la percezione della NewTV come pozzo senza fondo dell’audiovideo si insinua nella coscienza collettiva e cresce la domanda di strumenti universali per trovare all’istante lo stream giusto.
E non parlo solo delle ricerche più ovvie, quelle per i contenuti di categoria premium, di serie A, B e C. Pensiamo all’incommensurabile congerie di video disseminati sui server planetari di interesse regionale, o scientifico, o microsettoriale (guide per aspiranti fotografi, spezzoni di wildlife africana, ricette di cucina russa), oppure limitato ai famosi Veri 1000 Fan della teoria di Kevin Kelly (il primo direttore editoriale della mitica rivista Wired) o persino ai soli 100 ex-alunni neo-quarantenni di un liceo romano. Quei video di cui qualcuno vi ha passato il link, chissà quando chissà dove, e ora neppure impazzendo e imprecando in lingue morte riuscite a ritrovare…
È vero che i pubblicitari hanno sviluppato un’insana avversione verso i video user-generati, ma questo non vuol dire okay, annulliamo di colpo nessuno-sa-quanti-miliardi-di-clip. Se YouTube è tentata di rinnegare le origini, c’è chi sembra pronto a raccogliere il testimone. Non è un illustre sconosciuto, è Facebook.
Secondo dati ufficiosi Facebook riceve 415.000 upload di video al giorno. Di questi il 40% sono girati con webcam casalinghe e appartengono al filone “guardami mentre ballo a casa della mia amica” o “quanto sono bravo a suonare la chitarra”. Solo il 4% sono in alta definizione e solo il 25% è da ritenersi di qualità semiprofessionale. Dopo il restyling pre-primaverile di Facebook, con l’enorme enfasi attribuita in home alle segnalazioni multimediali, accanto ai link dell’ultimo embed scoperto su YouTube gli utenti hanno preso a caricare direttamente sempre più video sul proprio profilo, e sempre più video “personali”. Chiaro, se questi video sono “personali” non dovrebbero rientrare nel raggio d’azione dei motori di ricerca. In realtà però non sono affatto tutti “personali e privati”. Addirittura da Dicembre 2008 i video hostati su Facebook sono, ovviamente a discrezionalità del loro creatore, embeddabili all’esterno, ergo pubblicamente condivisibili. Si attende, come ulteriore step a cementare il nuovo trend, l’aggiunta di strumenti di publishing video da parte di Facebook (un discorso già affrontato in NewTV “Asociale sarai tu e la vecchia tivvù“).
E se si prefigurasse una perniciosa rilettura a 3, Golia contro Golia contro Golia, del racconto biblico?
Coming up next: a proposito di riletture, venerdì esce al cinema quella di Star Trek firmata dal mio mito assoluto JJ Abrams. Per un maniaco della fantascienza come il sottoscritto è inconcepibile non aver ancora dedicato un articolo ai webserial futuristici che affollano il webetere, alle loro scelte narrative, e ai rispettivi modelli di business. Per cui… stream me up, Scotty!
NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.