Unione Europea
La Corte di Giustizia Ue ha giudicato incompatibili con la normativa comunitaria i poteri speciali – cosiddetta ‘golden share’ – detenuti dallo Stato italiano in Telecom Italia, Eni, Enel e Finmeccanica e ha condannato l’Italia, dando ragione alla Commissione europea che a giugno 2006 aveva deferito il nostro Paese alla Corte di Strasburgo per la violazione degli articoli 56 e 43 del Trattato CE.
Per la Corte Ue , il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 giugno 2004 con il quale sono stati definiti i criteri di esercizio dei poteri speciali, “non contiene precisazioni sulle circostanze in cui i criteri di esercizio del potere di veto possono trovare applicazione”, con la conseguenza che “gli investitori non sanno quando tale potere di veto possa trovare applicazione e i criteri da esso fissati non sono dunque fondati su condizioni oggettive e controllabili“.
Nel mirino della Corte di Strasburgo, in particolare, i poteri speciali che prevedono la possibilità per lo Stato di opporsi all’assunzione, da parte di investitori privati, di partecipazioni rilevanti – pari ad almeno il 5% dei diritti di voto – in queste società o di porre il veto alla stipula di patti o accordi tra azionisti che rappresentino almeno il 5% dei diritti di voto.
Incompatibile con le norme Ue anche la possibilità per lo Stato di opporsi all’adozione di delibere relative allo scioglimento delle società, al trasferimento all’estero della sede sociale, al cambiamento dell’oggetto sociale, alla modifica dello statuto in previsione della soppressione o della modifica della Golden Share, alla nomina di un amministratore senza diritto di voto.
Una di queste clausole, sottolineano i giudici di Strasburgo, “è stata inserita negli statuti di ENI, Telecom Italia, Enel e Finmeccanica”.
“Ciò – aggiunge la Corte – scoraggerebbe gli investitori che intendono stabilirsi in Italia al fine di esercitare un’influenza sulla gestione delle imprese. Inoltre esso va oltre quanto necessario per tutelare gli interessi pubblici che ne costituiscono l’oggetto”.
Incompatibile con il diritto comunitario anche l’affermazione secondo cui “il potere di veto deve essere esercitato soltanto in conformità con il diritto comunitario e la circostanza che il suo esercizio possa essere soggetto al controllo del giudice nazionale”.
Il termine Golden Share indica la possibilità per uno Stato, di mantenere poteri speciali su un’ex impresa pubblica, anche dopo la privatizzazione. Tra questi, quello di riservare allo Stato stesso una quantità di azioni o di nominare un proprio membro, con poteri più ampi degli altri componenti, nel consiglio di amministrazione della società.
La Golden Share – introdotta in Europa intorno agli anni ’90, quando furono avviate le prime privatizzazioni – può essere anche una quota simbolica di una sola azione, ma conferisce ugualmente allo Stato un potere strategico, anche dopo il completamento della privatizzazione.
La durata della Golden Share è generalmente limitata nel tempo, ma il trattato Ue consente eccezioni per ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica, salute pubblica e difesa; pertanto l’obiettivo di proteggere alcune attività economiche può essere accettabile in casi specifici.
Il decreto del 2004 indica che i poteri speciali “sono esercitati nel rispetto dei principi dell’ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione”.
Devono ricorrere, quindi, “circostanze di grave pericolo di carenza di approvvigionamento nazionale minimo di prodotti petroliferi ed energetici, di materie prime e di beni essenziali alla collettività, nonché di servizi di telecomunicazione e di trasporto di servizi pubblici, pericoli per la difesa nazionale, la sicurezza militare, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, emergenze sanitarie”.
Secondo la Commissione però, e la Corte ha confermato la pertinenza dell’osservazione, l’uso dei poteri speciali previsti dalla normativa italiana per raggiungere tali obiettivi è “eccessivo”, i criteri per l’esercizio di questi poteri sono “vaghi e di portata indeterminata” e di conseguenza conferiscono alle autorità “ampi poteri discrezionali nel giudicare i rischi per gli interessi vitali dello Stato”.
Per gestire le preoccupazioni di interesse pubblico, infatti, a giudizio della Ue avrebbero potuto essere considerate alternative meno restrittive.
La risposta delle autorità italiane al parere motivato della Commissione era stata inviata nel dicembre 2005. La Commissione ritenne però che le argomentazioni italiane a difesa della legge fossero “insoddisfacenti” alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia e che i poteri speciali previsti dalla legge italiana limitassero indebitamente le libertà di circolazione dei capitali e di stabilimento garantite rispettivamente dagli articoli 56 e 43 del trattato, scoraggiando, in ultima analisi, l’ingresso di capitali stranieri nel nostro paese.