Italia
Poco più di un anno fa, diciamo Natale 2007, la coscienza pubblica dello Stivale stava ancora digerendo lo sdoganamento dei blog come fonte attendibile di notizie e la loro capillarità. Adolescenti e musicisti stavano adottando MySpace, mentre poche manciate di curiosi, i leggendari early adopters, si avventuravano su Facebook.
A Natale 2007 ero reduce da 150 puntate di una mia trasmissione sui e con i blogger. Cancellata, nel momento in cui il sito ufficiale schizzava verso un milione di pagine viste al mese (certificate da un hosting provider tedesco, mica pizza e fichi), perché il profilo degli affezionati era ritenuto “eccentrico”. Leggesi: troppo giovani. Vabbè, no comment. Mi rifaccio sotto e propongo ai miei analogici, romani e anzianotti interlocutori un format di talk-game con finalità divulgative intitolato Social Network. Passo il funzionario minore. Supero con slancio il funzionario maggiore, si parla della conduttrice da affiancarmi per stemperare i tecnicismi. Dopodiché arrivo al dirigente firmante e lì mi stoppo. “Non abbiamo bisogno di un programma su Internet, già ne parliamo quando serve negli altri”. Testuale. Inutile mentire, può anche darsi che un giorno o l’altro il mio talk-game riuscirò a realizzarlo, ma la percezione diffusa nelle stanze dei bottoni italiche non è di odio verso i new media, è di indifferenza. Quanto ci vorrà prima che divengano predominanti? 5 anni? 10? Sarò già in pensione…
A ogni modo, 14 mesi dopo quel Natale 2007, e un italiano su 6 si è nel frattempo iscritto a un social network, in stragrande maggioranza Facebook. Una progressione di crescita così iperbolica la ricordo solo per l’avvento dei cellulari low cost tascabili a metà anni ’90, quando da un giorno all’altro le città sono state invase di trilli alieni. Aveva un senso allora (il cellulare è uno strumento utile; si sopravvive anche senza, ma è un limite), ha senso oggi (chi non partecipa ai social network si perde gran parte del “divertimento” e dell’interazione online; si sopravvive anche senza, ma è un limite).
Già oggi due terzi della popolazione planetaria di Internet sono attivi sui social network. Su scala mondiale un minuto ogni 11 speso online è trascorso su siti di community (nel 2008 era un minuto ogni 15). In Inghilterra è un minuto ogni 6, inBrasile è un minuto ogni 4. Il famoso pubblico “eccentrico” tutto teens e pischelletti ininfluenti di cui si auto-convincono gli eterni cocchieri dei media italiani è un mito del passato. Adulti e anziani hanno abbracciato il social networking in massa. Nel 2008 Facebook ha incrementato la sua componente iscritti tra i 50 e i 64 anni il doppio rispetto all’aumento di adolescenti: +13.6 milioni di cinquantenni contro +7 milioni di ragazzini. In assoluto l’espansione più evidente è tra i 35/49 anni: +24 milioni di iscritti in un anno. I dati italiani, monitorati periodicamente dal blog di Vincenzo Cosenza (www.vincos.it) rispecchiano fedelmente i trend globali. Chi non ci crede, se ne faccia una ragione.
Secondo l’analista Ross Sandler agli attuali ritmi di crescita Facebook potrebbe sorpassare Google nel 2012 [si parla di visitatori unici mensili]. Già oggi il 19% delle sessioni aperte su Google è generata da visitatori provenienti da Facebook. Sono diventate due facce della stessa medaglia. Non posso fare a meno di Google, e non voglio fare a meno di Facebook.
E tuttavia, o meglio per fortuna, la realtà del social networking non è così monocorde come si può credere. Facebook domina in Nord America ed Europa dopo aver raggiunto e sorpassato MySpace, ma in Centro-Sud America se la batte con hi5, e in Brasile perde di brutto contro Orkut, che scommetto non avevate mai sentito eppure sfoggia 23 milioni di iscritti carioca. In Giappone stravince Mixi con l’80% del mercato locale e quasi 23 milioni di iscritti. Peraltro Mixi è prevalentemente un servizio mobile-centrico, una variante d’uso amata anche all’Ovest (da 1 britannico su 4).
In Cina addirittura non solo hanno patriotticamente scelto social network cinesi, riescono persino a lucrarci sopra alla grande. Il leader di settore, Tencent, proprietaria dell’anti-Facebook QZone (200 milioni di iscritti all’ultimo appello di un mesetto fa), ha appena annunciato 750 milioni di dollari di introiti (+80% in un anno) dalla vendita di regali virtuali. Sì, tipo quando un’applicazione di Facebook vi chiede se volete inviare un orsetto virtuale morbidoso come gift per il profilo della vostra fidanzata. Dov’è il trucco non lo so, ma i cinesi abboccano sempre all’amo. Anche se lì magari al posto dell’orsetto vi inviano un panda virtuale con il cappello di paglia da monaco shaolin…
Per un discorso più specifico sui social media vi consiglio l’eBook curato da Nicola Mattina per il Club dei Media Sociali su Linkedin (la versione online è su socialmediatrends.wikispaces.com). Noi invece passiamo alla NewTV, non me ne sono dimenticato, don’t worry.
Abbiamo già parlato [vedi qui] di metrics e dei nascenti parametri per misurare l’audience della neotelevisione in streaming. Chiarito cosa determina il successo o meno di uno stream si arriva a definire quanto vale in soldoni pubblicitari. Si è detto – ho citato Louderback di Revision3 al riguardo e analizzato il percorso online degli spot del Superbowl – del peso che va attribuito all’engagement nel valutare il consumo di streaming. Il grado di coinvolgimento di chi riceve il web messaggio pubblicitario, espresso in ratings, commenti, sharing e tremila altri modi, diventa valore aggiunto e questo valore aggiunto ha un costo per gli inserzionisti (di contro è un ricavo per i netcaster). Un clamoroso ed evolutivo revival dell’indice di gradimento, ora finalmente stimabile in maniera statistica semi-oggettiva. L’engagement è così la terza variabile di influenza degli investimenti pubblicitari in NewTV, accanto ai classici reach & frequency [le fondamenta quantitative pure dei Gross Rating Points, non più sufficienti nel nuovo scenario].
Ebbene, i social network sono e saranno sempre di più la chiave di volta dell’engagement marketing. Lo sono sul pc, lo saranno al cubo quando si diffonderanno i televisori con Facebook e concorrenti integrati [alcuni le definiscono “Widget TV”, ci torniamo fra un attimo].
Prendete PerezHilton.com, il blog di gossip #1 sul pianeta. Il giorno dopo gli Oscar 2009 ha sbancato i botteghini con 14 milioni di pagine viste in 24 ore. La maggioranza dei visitatori (in gergo i referrals) non è arrivata da Google, come finora è sempre accaduto per qualsiasi sito di qualsiasi natura. È arrivata da Facebook.Ci sono 28 milioni di brandelli di contenuto – video, link, post di blog, foto – condivisi ogni mese su Facebook. La domanda da porsi è: se Facebook traina i blog, quanto tempo prima che inizi a trainare gli streaming degli eventi sportivi, dei lifecaster, di Hulu e di ABC.com con il suo archivio di tutto Lost in HD?
E in uno scenario in cui all’improvviso NBC comincia a parlare di digital dimes (1 dime = 0,10 dollari) che hanno preso il posto dei digital pennies (0,01 dollari) nel confronto con i possenti analog dollars della OldTV… in uno scenario in cui ABC.com si dichiara finalmente profittevole su base lorda, ovvero ogni singolo episodio presente in streaming sul sito genera un profitto… in uno scenario in cui il Vice Presidente di Disney/ABC, Albert Cheng, dichiara “più che di digital dimes contro analog dollars parlerei di un adolescente, la NewTV, di fronte a un adulto vicino alla pensione, la OldTV”… in questo scenario come si può fare qualsiasi ipotesi sull’impatto dei social media senza scuotere alla fondamenta l’intera baracca?
John Ham, CEO di Ustream [vedi “The Truman Web Show”] sostiene che il potenziale virale dei video online si sia moltiplicato drammaticamente nell’era di Facebook e Twitter. Quel che prima passava da zero a 100.000 views all’istante di eMail in eMail, di chat in chat, ora passa da zero a milioni di views all’istante, spinto in accelerazione solare dalle piattaforme di social networking.
Stando ai ricercatori di Hitwise il traffico ricevuto in regalo dai videoportali tramite segnalazioni sui profili di Facebook è salito del 112% tra inizi 2008 e inizi 2009. Il traffico originato da conversazioni su Twitter è salito del 42000%. Facebook, MySpace, Twitter, gli aggregatori di link tipo Digg e Stumbleupon e i blog, soprattutto i blog, battono ampiamente i motori di ricerca (Google e Yahoo in primis) come fonte di indicazione stradale primaria per dirigersi verso nuovi contenuti in video streaming. Sono statistiche fornite da TubeMogul dopo aver analizzato ilsolitoridicolonumerodiclip indicizzato dai loro server. Fa eccezione YouTube per via del suo immenso catalogo di clip; il 45% delle views su YouTube sono generate internamente al sito stesso (in realtà è logico, quando vai su YouTube in cerca di video è quasi matematico che cliccherai su altri 4-5 video correlati di cui neppure sospettavi l’esistenza).
Due aspetti vanno immediatamente sottolineati:
* Gli spettatori che arrivano via Web 2.0 ai videostream sono già ben predisposti, dopo aver cliccato sulla thumbnail del video suggerita da un amico con commenti tipo “da spaccarsi dalle risate” o “questo video mi ha commosso”. Siamo tutti ingurgitati dall’engagement experience. Nella OldTV si chiamava passaparola e impiegava settimane a svilupparsi, nella NewTV è automatizzato, ipertestuale e impiega manciate di minuti a esplodere.
* Immaginate la forza eversiva di questa inedita modalità di accesso ai contenuti audiovideo quando sarà incorporata dentro la TV in salotto, la NewTV con accesso alla larga banda e a tutti i siti di streaming. Una NewTV che nella fase iniziale non darà accesso totale a tutti i siti, ma solo a quelli resi compatibili dai cosiddetti widget (un po’ come sull’iPhone bisogna attendere le applicazioni su misura scaricabili prima di poterci fare le stesse cose che facciamo sul pc).
Proviamo a immaginare una seconda sera tipo.
1. Sto guardando un poliziesco norvegese, con i sottotitoli amatoriali. Perché? Perché mi gira di farlo, l’ho letto sul blog di uno che ora non mi ricordo come si chiama.
2. Sono quasi a metà, noiosetto. Tempo di una pausa. Controllo gli aggiornamenti di Facebook. Scrivo 80 caratteri su Twitter.
3. Con il telecomando navigo Facebook sulla Widget TV delle meraviglie e scopro che il mio ex-compagno di liceo, che ho rivisto alla cena di classe quest’inverno dopo due decadi piene, mi ha appena segnalato un live streaming, roba di pallanuoto. Vabbè, l’ha segnalato a tutti i suoi amici, ma facendone parte mi sento coinvolto.
4. Mollo il poliziesco in stand-by [ la Widget TV ha un hard disk interno] e mi sposto sulla stream-diretta, contemporaneamente flirtando via chat (non scelgono mai il momento adatto le donne per inviarti un messaggio!) e verificando che nel mio RSS feed non sia uscito il nuovo episodio di quel serial animato giapponese che doveva concludersi oggi, lo danno gratis su Hulu International.
5. Intanto finiscono le patatine fritte, tra che mi alzo e mi risiedo con un pulsante aggiungo anch’io al mio profilo Facebook la pallanuoto in stream-diretta e twittero 3 righe su quant’era figo Mickey Rourke in The Wrestler, quasi quasi vado lo cerco su Netflix e me lo rivedo subito.
6. Rosico perché la mia Widget TV non mi consente di browsare il web a piacimento, solo di navigare sui siti “widgetati”. Quindi non posso cercare le foto di Mira Sorvino mentre fa lo striptease per Randy The Ram, e neppure leggere quanto ha incassato il film sull’Internet Movie Database (perché non si widgetizza anche l’IMDB?).
7. Etc etc etc, avete capito l’antifona.
Secondo The Diffusion Group il 76% degli internauti americani desidera una barra dei widget sulla TV. Un supporto sorprendentemente esteso per un concetto così inedito e non testato. Chi conosce Internet conosce i widget, ed è evidente che li vuole ovunque, dall’iPhone alla televisione (c’è chi suggerisce di inserire un monitorino con router nei frigoriferi, così prima di cucinare si può accedere alle videoricette dei siti di videocooking… ovunque è ovunque).
Non stiamo per trasformarci tutti in omini verdi, la tecnologia modifica le modalità di fruizione ma non le sconvolge traumaticamente (eccetto per chi ancora guarda solo e soltanto RAI 1 e rischia lo shock culturale). Se volete, ci attende uno zapping più caotico, frammentato e nevrotico. Alla fine il succo è lo stesso, si guarda qualcosa su uno schermo, chiamatelo tele o come vi pare. Questo non cambia.
Cambia invece – e qui il passaggio è dirompente – la catena del valore. Non devo più sottostare alle imposizioni di un broadcaster che mi detta dall’alto cosa vedere sui suoi 10 o 20 o 200 canali. Ora ho accesso a milioni di palinsesti parcellizzati su milioni di destinazioni e disponibili in qualsiasi momento, su qualsiasi dispositivo multimediale; inoltre i miei desideri di consumo [di entertaiment, infotainment, news, sport, oroscopi e softcore] sono in gran parte mossi dal flusso di “embeddaggi” e parole nei social network a cui partecipo. Per me utente significa libertà di scelta, per te fornitore di contenuti significa ripensare da zero il modello di business, per loro piattaforme di social network significa entrare nella catena del valore. L’end user, il consumatore finale, assume così una doppia veste: mantiene quella standard, ma si trasforma al tempo stesso in (a volte) consapevole distributore.
Se dovessimo rappresentarlo graficamente, dovremmo far assumere al lineare “trenino” di anelli della catena del valore una curiosa forma circolare. Chi volesse cimentarsi, può inviare il suo grafico a info@key4biz.it…
Okay, assodato che dai social network non si scappa, cerchiamo di capire come risolvere il puzzle e gestire l’assorbimento definitivo delle community nella chain value televisiva.
Chiariamolo subito, un’equazione scientifica non esiste, né esisterà nel ragionevole futuro. Bisogna adattarsi al flusso. Le “telecommunities” di Pete Blackshaw non sono accatastabili in categorie burocratiche. Lo dimostra il Convergence Panel di Nielsen, un presidio statistico sulle case in cui si utilizza contemporaneamente Internet e televisione. Durante l’ultima Notte degli Oscar il consumo simultaneo si è quadruplicato rispetto al 2008, con vincitori minori (ad esempio l’IMDB per info sui film premiati) e vincitori mattatori (Facebook, tenuto aperto in media per 76 minuti durante il gran gala, e Twitter, con 100.000 messaggi all’attivo nel corso della diretta, 400 al minuto, 7 al secondo). L’equivalente di guardare una trasmissione in compagnia, solo la compagnia è di migliaia di persone, in una babele di linguaggi.
Per fotografare il flusso YouTube ha appena introdotto il conteggio dettagliato di commenti, voti, favoriti – in parole povere il “community engagement” – nei suoi tool per monitorare l’andamento dei video (si tratta della sezione YouTube Insight, visibile a chiunque carichi clip sulla piattaforma; consente di conoscere da dove arrivano le views, come si sparpagliano nei giorni, statistiche demografiche, affini e cugini). Non ci sarà per ora un legame diretto tra il community engagement e i prezzi degli spot. Per intenderci, la casa di produzione taldeitali saprà se la settima puntata del suo serial web-only ha creato maggior engagement in Francia o in India, ma non riceverà un centesimo in più da eventuali trionfi di chiacchiera sulla trama. Il revenue sharing continuerà a essere calcolato sulla base delle views. Per adesso…
Su Facebook la situazione è infinitamente più rudimentale. Non c’è un team commerciale dedicato a monetizzare i video (va aggiunto per onestà che YouTube l’ha messo in piedi da pochi mesi), né ci sono strumenti per seguire gli analytics. La condivisione di video su Facebook è concepita per il piacere personale, non a fini di entertainment generale.
E tuttavia balza all’occhio l’opportunità: perché non lanciare una nuova serie direttamente su Facebook? L’ha fatto Eisner su MySpace in tempi non sospetti con Prom Queen e a oggi è l’unica hit certificata dell’ex-imperatore della Disney. Ora ha deciso di tentare Ashton Kutcher, astro nascente di Hollywood e protagonista di un capolavoro come Butterfly Effect. La sua Katalyst Media lancerà il docudrama KatalystHQ in esclusiva per FunSpace, una versione modificata del classico “muro” di Facebook (a oggi adottata da 13 milioni di iscritti). Ergo, per seguire il Quartier Generale di Kutcher, che sarà ovviamente una delle star del programma, e la vita dei suoi collaboratori, bisognerà installare sul profilo FunSpace. Nulla di complicato, un po’ una rottura però. Curiosamente quelli di FunSpace non pagano Kutcher per l’esclusiva, smezzano insieme i soldi dello sponsor, i croccanti al formaggio Cheetos.
KatalystHQ durerà 3 minuti a puntata e ogni mercoledì verrà postato un nuovo episodio. Parte però già svantaggiato dalla limitazione intrinseca di dover installare un applicazione di terzi, in questo caso il FunSpace. Da qui all’estate saremo in grado di valutarne i risultati e l’eventuale forza della sua lunga coda (non si può prescindere dalla lunga coda quando si punta su una distribuzione virale come quella nei social network).
Nel frattempo è già possibile controllare quanto “rumore” produce un contenuto, ad esempio una serie TV, su Facebook e Twitter. Ci sono siti appositi come Trendrr.com che si occupano del Twitterverso e di esaminare e aggregare dati sui comportamenti collettivi nel microblogging: gli opinion leader (determinati da numero di followers, i seguaci di un account Twitter), la frequenza dei messaggi e la frequenza delle risposte, la velocità e la forza attrattiva delle parole-chiave in ogni determinato istante (Trendrr per esempio calcola il numero di account Twitter che in una data ora contengono nei loro update un termine specifico, tipo Key4Biz, o una frase o qualsiasi parametro semantico d’interesse).
I metrics fondamentali vengono poi espressi graficamente, comparati con altri benchmarks, visualizzati in una miriade di modi. Cliccate qui per farvene un’idea.
Twitter è una bestia da tenere sott’occhio con cura. Secondo statistiche Nielsen diffuse il 20 Marzo, negli Stati Uniti è cresciuto del 1382% in un anno, escludendo chi usa Twitter via mobile (uno sproposito di gente). Da mezzo milione a 7 milioni di twitteromani abituali, con trionfo nella fascia d’età 35/49. Rispetto a Facebook, che passando da 20 a 60 milioni di americani iscritti si è gonfiato nel 2008 soltanto del 228%, Twitter sembra ancora un nanerottolo, ma è il nanerottolo che fa più gola – o paura a seconda dei punti di vista – a tutti. Peraltro è un nanerottolo di quelli che gli italiani dovrebbero adorare, integrato com’è di natura nell’uso del cellulare e dei suoi servizi di messaggistica.
Gli stipendiati di Hulu hanno l’ordine di leggere quotidianamente cosa si dice di loro su Twitter; la stessa circolare è finita sulle scrivanie di tutti i dipendenti di Veoh. L’amministratore delegato di Hulu si vanta di ricevere 30 menzioni all’ora su Twitter, contro le 30 al giorno di un semestre fa. C’è una società, Summize.com, che tiene il conto. Sono soldi, costa pagare Summize, costa allocare risorse umane a rispondere alle domande dei microblogger di Twitter. Eppure si è deciso ai più alti livelli di farlo. Persino i produttori del cultissimo Californication, quello con David “X-Files” Duchovny e un’ingiurosa infinità di belle donne consenzienti, hanno creato account Twitter per tutti i principali personaggi del telefilm. Le cose sono 2: o sono scemi gli americani, o sottovalutiamo la rivoluzione noi europei.
Quello a cui prestano attenzione Oltreoceano è soprattutto la discrepanza tra i dati di ascolto forniti da Nielsen (l’Auditel USA) e le curve di interesse generate dagli internauti, che non sono marziani senza bocca né naso, ma ormai la maggioranza della popolazione americana pagante. Prendiamo le ricerche mensili di TVLoop, una community di telefanatici giunta a 16 milioni di iscritti e più volte citata dalla blogosfera italiana per le sue molteplici applicazioni sparse sui social network. TVLoop butta dentro i suoi tabulati le statistiche di posta messaggi, di chi vota i video, chi condivide, chi iperlinka, chi invita a unirsi ai gruppi di fan, tutte le possibili interazioni online. Per carità, la scientificità di dati estratti da una singola community, per quanto enorme, è millesimale; come del resto sono approssimazioni i dati Nielsen…
Aberrazione statistica o meno, quando mettiamo a confronto la Top 10 TVLoop con la Top 10 dei ratings tradizionali esce fuori che la metà dei vincitori del prime time in chiaro sono fuori dalle grazie della platea web. Nel cyberspazio stravince Two and a Half Men, l’esilarante commedia familiare con Charlie Sheen (solo quinta negli ascolti classici). Chi “vive” online Two and a Half Men non si stupirà del risultato, conoscendo la potenza memetica delle citazioni tratte dalla sitcom CBS (gran parte della interazione su web nasce dal quoting dei suoi brillanti dialoghi).
L’obiettivo neanche troppo nascosto di TVLoop? Dimostrare, a loro vantaggio ovviamente, che non è giusto continuare a spartire la torta pubblicitaria con le vecchie regole. I consumatori sono influenzati dalle loro esperienze di community e i relativi livelli di engagement contano quanto se non più del totale spettatori catodici.
Qualità contro quantità, un dilemma atavico che si ripropone con inattesa attualità.
Coming up next: video comicità online, parte 1.
NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.
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