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Raccolta rifiuti hi-tech: l’Italia in clamoroso ritardo, mentre anche l’industria di telefonini e Pc comincia a cambiare rotta

Italia


Il 1 gennaio 2008 sarebbe dovuto partire anche in Italia il sistema di raccolta dei rifiuti hi-tech ma, denuncia Greenpeace, mancano ancora all’appello diversi decreti attuativi necessari a tradurre in pratica le disposizioni di legge. Tra questi, c’è il cosiddetto “Decreto Semplificazioni”, che obbliga la distribuzione a ritirare gratuitamente, in ragione di uno contro uno, l’apparecchiatura usata al momento dell’acquisto di un nuovo articolo simile destinato a un nucleo domestico.

 

Il “Decreto Semplificazioni”, sottolinea Greenpeace, “è un elemento importante nell’organizzazione e nel controllo del flusso dei rifiuti elettronici, oltre che incentivo per i consumatori a conferire il prodotto in disuso nella giusta maniera, invece che lasciarlo in casa o abbandonarlo per strada”.

 

Questo decreto doveva entrare in vigore entro il 28 febbraio 2008, ma ancora non vede luce.

 

Il ritardo accumulato dall’Italia appare senza giustificazioni, tanto più che anche l’industria, dietro le pressioni dell’associazione, comincia a rendersi contro della necessità di farsi carico dei rifiuti elettronici, anche per evitare di trasformare i Paesi più poveri in pattumiere hi-tech. L’Onu calcola che ogni anno vengano prodotti nel mondo 20-50 milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici. Di questi una buona parte viene esportata – spesso illegalmente – per finire in discariche incontrollate in Africa oppure a riciclatori clandestini in Asia, dove le normative a protezione dei lavoratori e dell’ambiente sono inadeguate o addirittura assenti.

 

Una vera bomba a orologeria se si considera che telefonini, computer, televisori, stampanti e quant’altro contengono elementi tossici e persistenti che rappresentano un rischio per l’ambiente e la salute umana nelle varie fasi di trattamento, riciclaggio e smaltimento.

Nei Paesi in cui vengono illegalmente trasferiti sono spesso i bambini a trattare questi rifiuti, con tutte le conseguenze legate all’esposizione ai cocktail chimici in essi contenuti e che si sprigionano quando i Raee vengono trattati in modo rudimentale e senza protezioni per la salute dei lavoratori.

 

Per questo, Greenpeace chiede anche l’impegno dell’industria, che negli ultimi anni ha cominciato a comprendere l’importanza di eliminare il più possibile le sostanze tossiche dai propri prodotti: un impegno sottoscritto dalla maggior parte delle aziende produttrici di PC (pari al 53% del mercato globale), dal 77% delle aziende che producono cellulari; dal 36% di aziende che producono televisori e dal 58% delle aziende che fanno console.

 

Una vittoria, in questo senso, è rappresentata dalla decisione di Philips, che ha confermato che i costi di riciclo di un articolo non saranno più pagati direttamente dal consumatore – attraverso una tassa addizionale – ma saranno parte integrante del prezzo finale del prodotto.

In questo modo, spiega Greenpeace, “le aziende saranno anche incentivate a produrre beni più puliti e facili da riciclare, dovendo assorbire nel processo di produzione anche i costi di riciclo del prodotto a fine vita”.

 

In Italia, spiega Greenpeace, “5.000 persone hanno partecipato alla cyberazione su Philips, contribuendo ad aumentare la pressione sull’azienda. E il risultato è arrivato”.

 

L’opinione pubblica, dunque, appare molto più sensibile della politica su questo delicatissimo tema e per ottenere qualche risultato in più Greenpeace ha lanciato pochi giorni fa l’idea di una petizione online, invitando gli italiani a scrivere al ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo – affinché chiarisca come mai l’Italia non abbia portato a regime il sistema di raccolta dei RAEE – e a inviare una foto denuncia di rifiuti elettronici abbandonati.

 

“Oggi – spiega Greenpeace – siamo sulla strada giusta verso un hi-tech privo di sostanze tossiche, durevole ed efficiente da un punto di vista energetico. Ma il traguardo non è stato ancora raggiunto” e non si arriverà a nulla fino a quando i consumatori saranno costretti a scegliere tra un prodotto efficiente o facilmente riciclabile tra uno senza Pvc o di più lunga durata.

“Soltanto quando un prodotto rispetterà tutti gli standard ambientali – conclude – sarà davvero green”.

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