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Una manciata di settimane fa la Vice President, Ad Sales Research di Current TV, Theresa Pepe Falcone, si è scagliata contro Nielsen, che tradizionalmente misura l’audience TV negli States. Più i canali sono peones, più i ratings Nielsen sono imprecisi. “Abbiamo scoperto sbalzi illogici, verso l’alto e verso il basso, del tutto slegati dalla programmazione di Current“.
Vabbè, la scoperta dell’acqua calda. Ma complimenti al coraggio di chi per primo l’ha detto ad alta voce.
Negli USA Nielsen monitora un campione di 14,000 case, circa lo 0,01% della popolazione. Con la frammentazione atomica degli ascolti su miriadi di canali spesso multiplexati, basta che a una decina di panelist pruda il telecomando e i dati delle reti da diecimila spettatori vanno in gita sulle montagne russe (le emittenti del “club dei diecimila, quando dice bene, e in prime time si intende!” abbondano su Sky, da History Channel in giù; ci sono canali RAI Sat, tipo Smashgirls, che non superano mai neanche i 5000 spettatori…). Tra parentesi, a proposito di Stivale, il nostro Auditel vanta con orgoglio un campione di 5.160 famiglie equivalenti a 14.000 spettatori, “tra i più numerosi al mondo”, ma non mi pare ci si discosti poi tanto dalle contestate soglie USA: 14.000 rilevati = 0,025% degli italiani.
Ora, a prescindere dai confini territoriali dei mercati televisivi e dalle singole metodologie attuate, credo sia evidente anche a un bambino l’ovvietà matematica: non si possono applicare sistemi di misurazione concepiti per una torta analogica spartita fra 6-7 canali, sistemi adesso adattati alla transizione a 60-70 canali (DTT e DHT), nell’era della NewTV IP-based con 6 milioni (60? 600 milioni?) di feed video più o meno “palinsestizzati”.
E non è solo questione di quantità, ma di qualità. La visione dello streaming online è attività multiforme, talora interattiva. Quasi sempre il totale views per le clip on-demand non deriva da un’unica fonte (clip XYZ hostata sul sito ZYX, lì solo e soltanto), ma è la sommatoria dei parziali degli accessi a video spalmati su “n” piattaforme, a volte spezzettati dagli utenti stessi ed embeddati ovunque, in ogni caso consumati senza soluzione di sosta, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, nel tempo (lunga coda). Quanto sopra a volte vale anche per il live streaming, sebbene sia in teoria un minimo più semplice da quantificare. Inoltre, on-demand o live che sia, lo streaming non si può più separare dalla componente sociale, ovvero dalla reazione che suscita il contenuto – o il frammento di contenuto (pensate alla gag virale di 90 secondi tagliata dallo show comico di 90 minuti) – nell’ecosistema del Web 2.0. Non lo si può separare, perché quella reazione conta ai fini pubblicitari, e chi caccia il money ha sempre ragione.
Da qualsiasi parte la guardiamo, la NewTV è funzionalmente differente dalla fruizione del segnale televisivo tradizionale. In parole povere, i metrics per definire chi vince e chi perde nella sfida della streaming audience sono tutti da scrivere, e con la manina già salutano (bye bye) i vecchi campioni statistici (thank you, è stato bello finchè durato).
La questione è urgente. ComScore parla di 14.3 miliardi di video online visti dagli americani nel mese di Dicembre 2008. Circa 150 milioni di yankees si sono sorbiti una media di 96 stream a testa, mentre Babbo Natale allenava le renne. YouTube in crescita spaventosa (+49% rispetto a Novembre), ma Hulu incassa il record più ambito, quello del tempo speso sul suo player dai navigatori (10 minuti per video, in media; GoogleTube neppure ti consente di uploadare video più lunghi di 10 minuti…)
Insomma, figo, fighissimo, la NewTV spopola. Ma per convincere chi finora ha sempre investito sull’analogico a trasferire i suoi eurodollari nello streaming servono certificazioni e regole. Servono metrics universalmente accettati, sebbene ancora perfettibili.
Non a caso, le prime regolette le ha stilate l’Interactive Advertising Bureau. Determinare chi vede cosa, chi clicca dove, chi interagisce come – i metrics – è vitale per l’espansione del fatturato in videospot. Potete scaricare i documenti IAB da qui: www.iab.net. Roba tecnica, tipo la divisione delle pubblicità “in-stream” tra lineari (i pre-rolls e i takeover, in pratica cartelloni o sponsorizzazioni a inizio/fine video, oppure interruzioni pubblicitarie classiche, i cari vecchi break; per intenderci, tutto quello che spezza il flusso video originario) e non-lineari (gli overlays, ad esempio sovraimpressioni grafiche durante il video, talvolta cliccabili, che non interrompono la consumption del contenuto).
Il problema è che manca ancora il consenso sulla definizione di “view”. Dopo quanto tempo speso incollati davanti al monitor a fissare un eschimese che fa lo scemo su CollegeHumor possiamo essere calcolati come “spettatore” della clip? Alcuni dicono: dopo 3 secondi di visione si può contare una view. Altri puntano sui bits: dividiamo il totale bits trasferiti di un video per il peso del file (se un video che pesa 10MB ha generato 1GB di traffico, avrà avuto circa 100 views). Quest’ultima teoria ha già la sua fazione scissionista: okay l’equazione, ma applichiamo un filtro più lassista (si produce una view quando almeno il 75% del file, “pesato” in bits, è stato trasferito sul pc dell’utente).
Va da sé che, come si può essere calcolati nell’ascolto medio della Ventura anche se durante l’intero varietà stai amoreggiando con la fidanzata e la TV rimane accesa perché a nessuno dei due viene in mente di cercare il telecomando e spegnerla, allo stesso modo si può cliccare su un online video, guardarne 10 secondi e stancarsi subito, ma nel frattempo la tua connessione veloce ha già scaricato l’intero file (e infatti se clicchi sulla barretta del player puoi già schizzare a fine filmato)…
Stando a TubeMogul, più della metà degli internauti molla il suo stream dopo appena un minuto (e circa il 10% si rompe dopo neanche dieci secondi). Una pubblicità post-roll infilata nei secondi finali di un video di 3 minuti viene vista solo dal 16% dell’audience iniziale. Cito TubeMogul perché so che non sparano troppe balle, e nello specifico per tirare fuori queste statistiche hanno misurato i secondi visti di 22 milioni di stream, su 6 delle piattaforme top (escluso YouTube però, ma soprattutto – e non è affatto secondario!!! – esclusi i contenuti long-form come gli episodi TV di Hulu). Diciamo che sono dati validi per il mondo dello UGC, non per la NewTV in salsa corporate simboleggiata al momento da Hulu. Ma non fa male conoscerli, no?
Tra le voci più critiche alla situazione, quella di Jim Louderback, attuale boss di Revision3. Non una voce profana, se consideriamo lo slogan di Rev3: “Siamo un TV network per il web”. Ergo, parliamo di un content provider di soli webshow originali, prodotti a qualità standard broadcast e distribuiti in netcasting sia su Revision3.com che su un ampio spettro di aggregatori di online video. A differenza di un Hulu che è solo contenuti high quality ma mashuppa serie web-only con tonnellate di catalogo televisivo in streaming, o GoogleTube con i suoi miliardi di video user-generated pixellati girati con qualche giocattolo da 100 euro, Rev3 si proclama soggetto di razza ariana pura. E in breve tempo ha acquisito un bel portafoglio di inserizionisti, da Sony a Microsoft passando per IBM, HP, Netflix, Verizon, etc. Si è portati intuitivamente a credere che il tema dei metrics sia per loro di vita o di morte, e che più sia diffusa l’idea di un mondo follemente infatuato dallo streaming viewing più acqua affluisca al loro mulino. E invece…
E invece di recente Louderback ha urlato “basta bugie!”. Bugie bianche, giochini tecnichi per gonfiare le statistiche, resi possibili dalle regole ancora grezze sui metrics dell’online video. A esempio del peccato porta le 9,242,941 views, ben 5 milioni a Dicembre 2008, apparentemente generate da un web show del misconosciuto Redacted.com. I produttori dello show speravano di rivenderlo a Rev3. Ora, anche calcolando la comprensibile esagerazione di chi sta pompando il suo prodotto, per un long-form pro online video ORIGINALE – leggi: niente micetti, niente gag virale youtubica stile Evolution of Dance, e niente webisodes di Lost – 5 milioni in un mese sono un’enormità di views ai livelli del Dr. Horrible (che però ha dietro Joss “Buffy” Whedon + massivo hype, e non un format minore condotto da una bionda tuttavestitanientescollature).
A quel punto Louderback decide di indagare. E scopre che lo show è riprodotto in autoplay in un minuscolo video player in ogni pagina di Redacted.com, che più o meno ha, o forse aveva visto che al momento in cui scrivo è offline, un traffico di 5 milioni di pagine viste al mese. Morale della favola: le 5 milioni di views del nostro portentoso nuovo show online non sono in realtà spettatori nel senso classico dello specifico web show, ma semplici page views (o con termine più suggestivo “impressions”) del sito nel suo insieme. Visitatori che in base alle line guide IAB hanno tuttavia lasciato scorrere il player per almeno 3 secondi, giusto il tempo di uploadare la home di Redacted sul browser, e quindi vengono calcolati non solo come page views, ma al tempo stesso anche come video views. Un trucco che Louderback rinfaccia persino a Google per la serie animata di Seth “Family Guy” McFarlane.
Anche quelli di TubeMogul hanno da poco indagato sui criteri di calcolo delle views di alcuni dei maggiori player del settore, scoprendo che YouTube è assai severa, Metacafe severissima, Dailymotion chiude un occhio, e MySpace li chiude tutti e due (I risultati integrali della ricerca).
YouTube in effetti si è distinta per onestà la scorsa estate quando ha segato gli autoplays dal computo generale delle views embedded. Di norma quando si embedda un video YouTube in un blog, o su MySpace, il video non parte in automatico. Ma non è difficile manipolare il codice html dell’embed e invertire la selezione di default. L’eccesso si è avuto con i fan di Avril Lavigne quando hanno creato un sito embeddandoci sopra il video youtuboso di Girlfriend con autoplay e autorefresh. L’obiettivo era di far battere a Girlfriend il record di views all time su YouTube, detenuto da Evolution of Dance. Ora, immaginate quante views si possono guadagnare embeddando in maniera forzosa un video con autoplay nei commenti di milioni di adolescenti sparpagliati sui social networks. I ragazzi ogni giorno aprono la pagina dei commenti, lo vogliano o meno il video parte, e sono conteggiati come views. Chiaramente le vittime di questo scherzetto raramente accettano con il sorriso; al contrario di solito magnetizzano disprezzo verso chi li ha spammati, verso il video in sé, e (ahi ahi ahi!) verso le eventuali pubblicità inserite nel video. YouTube se n’è accorta ed è intervenuta, non tutti i concorrenti hanno fatto altrettanto.
Appare evidente che basarsi solo sui dati dei server e quantificare il numero di views non basta. Anche perché i numeri sono viziati da bots e spider, i robot e i ragni dei motori di ricerca, che per indicizzare scaricano a ritmo continuo. Alcuni credono che incidono pure firewall e NAT o affini (gli utenti Fastweb per esempio non compaiono verso l’esterno con un IP unico, ma con un IP condiviso da decine di altri abbonati: il server del netcaster conta un IP, magari dietro ci sono 40 persone che hanno visto la clip).
ComScore sostiene di affiancare alle statistiche server-side un sondaggio periodico su un 1 milione di americani, e di unire a questa mole di risultati (campione statistico + dati grezzi) l’analisi dei tag. In pratica ogni video viene “marchiato” con una stringa di codice, in gergo watermarked. È lo stesso meccanismo del tagging, ma nascosto. Una bandierina invisibile. Questa mappatura consente ai colossi dei metrics di seguire il percorso delle clip da un sito a un altro, da un embed al successivo, chissà se anche da un download legale a uno illegale, e poi raccogliere e uniformare i dati.
Su questo principio si basa anche Video Census di Nielsen, proprio quelli dell’Auditel USA. Gli stream monitorati da Video Census sono tutti taggati e rintracciati nel loro peregrinare di web syndication in web syndication. Addirittura Metacafe, aggregatore di contenuti user-generati con 30 milioni di visitatori unici al mese, ha lanciato una feature in stile Wikipedia, appositamente per coinvolgere gli utenti nell’attribuzione delle tag, dei metadati, per ogni video presente sul portale.
Tra parentesi, taggare è fondamentale per l’ottimizzazione della video ricerca nei motori (SEO del video streaming), che a sua volta è fondamentale per attrarre traffico. Ci sono un mucchio di fattori tecnici da considerare per una buona SEO dei propri stream (Al riguardo consiglio l’ottima guida di Robin Good). Chiusa parentesi.
Ovviamente, in mancanza di standard consolidati, è tutta questione di fiducia. Sei un gigante o nanerottolo dei media? Vuoi report sulle performance dei tuoi video online? Scegliti un servizio tra i tantissimi, pagalo quello che devi pagarlo, e fidati dei numeri cangianti (per dirne una, non c’è coerenza sui parametri per definire i Gross Rating Points tra Nielsen Net Ratings e ComScore).
Non esistono alternative.
O meglio, in teoria sistemi intrusivi di controllo dell’utente potrebbe bypassare problemi e incertezze, ma c’è quella trascurabile inezia chiamata privacy che per nostra fortuna stoppa i sogni folli di controllo orwelliano dei netcastanti e delle concessionarie di pubblicità online.
Mmm, ho scritto “pubblicità”? E sì, ho scritto “pubblicità”. Perché alla fine il cuore della questione è: il messaggio promozionale, lineare o non-lineare che sia, è arrivato allo streaming viewer? Per valutare l’efficacia della campagna, vengono in soccorso altri strumenti accanto all’antico e quantitativo “numero di views”. Pensate a tutti quei bottoncini 2.0: vota il video, aggiungilo ai tuoi preferiti, sharalo su Facebook, embeddalo sul tuo blog, segnalalo su Stumbleupon, etc etc. L’online video è virale, i suoi metrics non possono prescindere dalla viralità, che poi è sinonimo di condivisione sociale, e che per potere transitivo si traduce in “creazione della brand/product awareness”.
Nella pubblicità tradizionale il successo di una campagna si valuta sulla reach (il numero di eyeballs esposte al messaggio) e la frequency (quante volte le stesse eyeballs vedono il messaggio). I nemici di questi metrics sono famosi, dallo zapping al fast forward per chi preferisce guardarsi le trasmissioni in registrata. Sul web testuale classico reach e frequency sono state presto neglette, in virtù della propensione degli internauti a ignorare banner e cugini; al cumulato delle impressions si preferisce quello dei click through e delle azioni attive del consumatore/navigatore. Chi fa cliccare sui banner vince. Il video streaming aggiunge un nuovo elemento: la profondità del rapporto tra contenuto e spettatore. Si può trascurare l’attività di un webpresentatore su Twitter e Facebook? In un passato per niente remoto mi è stato contestato “nel tuo contratto di autore e conduttore non c’è scritto di rispondere alle eMail, quindi non attenderti un premio per averne ricevute 400 al giorno”. Eppure il posizionamento di un prodotto nell’universo della NewTV è massivamente influenzato dal rapporto diretto tra creativi e audience; per le emittenti commerciali questo si traduce in più efficacia promozionale per l’in-show host endorsement della trasmissione integrata nel Web 2.0.
Ci sono società come Visible Measures che stanno facendo affaroni setacciando il grado di interazione (Engagement Curve) del pubblico navigante con gli stream, in relazione alla reach totale, il livello di esposizione netmediatica, degli stessi. In buona sostanza, non bastano le views, reali o tarocche che siano. Bisogna trackare anche la viralità degli online video, e qui, ci scommetto gli zebedei, i miei lettori broadcaster analogici iniziano a odiarmi, perché gli si scombinano tutte le carte…
Per dimostrare la teoria, Visible Measures ha messo sotto torchio la viralità di 50 pubblicità dell’ultimo Superbowl (notoriamente gli spot più creativi, esplosivi e costosi del pianeta). Sport, signori, anzi advertising di altissimo budget dentro la competizione sportiva #1 degli Stati Uniti. Roba seria, mica GoogleTube con i suoi teenager citrulli (oops, “target eccentrico”, mi dicevano in radio)…
La mattina successiva al Superbowl 2009, VM ha pescato in Rete 4,000 clip associabili ai 50 spot della sera precedente. Queste 4,000 clip avevano ricevuto 75 milioni di views, 55mila commenti e 185mila voti. Nei 2 giorni seguenti si sono aggiunte altre 2,000 clip e altre 20 milioni di views. Inizialmente sono pubblicitari e agenzie a caricare i video, ma ben presto la maggioranza dei Superbowl Ads online proviene da comunissimi spettatori che li hanno registrati su DVR, convertiti in .avi e uppati sul sito preferito di streaming gratuito. E non parliamo di meri copia-e-incolla digitali. Gli spot sharati in prima persona dagli internauti sono spesso remixati, parodizzati, rieditati, ci si gioca sopra con creatività e fantasia. E a quanto pare, il gioco funziona. I video “ufficiali” brandizzati e sparati nelle homepage principali attraggono il 75% delle views, i video “non ufficiali”, costati zero e diffusi via passaparola e social networks, quasi il 25%.
Come però già sappiamo, l’aspetto caldo di queste misurazioni non sono le views quanto l’engagement. Si mettono a comparazione la quantità di commenti generati dagli spot delle bevande con quelli delle auto, la visibilità all’interno delle varie piattaforme di video sharing, il peso dei video ufficiali rispetto a quelli community-driven. In soldoni, chi merita di ricevere i ricchi CPM dei grandi inserzionisti? Again and again, servono dei metrics affidabili per influenzare le decisioni di spesa.
E qui usciamo dai misteri del “Caso di Mr. View” e torniamo a una certezza: l’universo globo emigra velocemente verso il web, a prescindere dalle modalità dell’emigrazione (c’è chi lo fa viaggiando su un pc, chi preferisce l’iPhone e i suoi cugini nemici, chi lo farà con i nuovi TV broadbandizzati con chip Intel integrato, chi via PS3, XBox o Wii, chi si destreggia tra tutti i mezzi di netlocomozione). Indietro non si torna. Va capito come gestire la neonata realtà crossmediale.
Sperando che nella vostra old media company non vi siano proseliti dei 5 stati di reazione alla NewTV elaborati da Mike Abundo. Stato 1: la Negazione (l’online video è solo una moda, ma dove vanno?). Stato 2: l’Ira (che diavolo è successo alla gente, perché non guardano più il tubo catodico, ammazziamoli tutti). Stato 3: l’Affanno (quello lì ha un account YouTube e uno MySpace? Davvero? Non fatelo uscire dall’ufficio…). Stato 4: la Depressione (dobbiamo cambiare il nostro modello di business. Licenziamo qualcuno. Chiunque!). Stato 5: l’Accettazione (compriamoci quelli che già lo fanno, ma trattate sul prezzo).
Insomma, non tutto è oro quel che luccica nell’Eldorado promesso, e fa piacere sapere che ci sia chi frena sulle soluzioni troppo semplici persino tra i sacerdoti del nuovo tempio. Le formulette magiche degli streaming metrics vanno ancora raffinate. Ma attendiamo fiduciosi sostanziali sviluppi nel 2009; fiduciosi non perché ottimisti di natura, ma perché lo richiedono i big spender della pubblicità.
Coming up next: infiliamo le mani dentro il portafogli delle nuove streaming star e contiamo le banconote. I più veloci tra gli early movers dello UserGenContent World monetizzano la NewTV o è una favoletta per gli ingenui?
NewTV. Non è più troppo presto, non è ancora troppo tardi.