Italia
Okay, visto che siamo al debutto di questa weekly column, leviamoci subito di mezzo le presentazioni.
NewTV parlerà di TV, intesa come flusso di contenuti audio-video più o meno incorniciati in un palinsesto coerente, ma di TV fruibile attraverso terminali dotati di indirizzo IP [il che ormai include potenzialmente tutto, dal frigorifero agli schermi LCD che si piazzano in salotto].
Troppo lungo? Allora diciamo che si parla dei nuovi modelli televisivi in divenire. Con stile avverso alle veline paludate e con taglio parziale e soggettivo nelle analisi di scenario e trend; non potrebbe essere altrimenti… in un settore che muta forma ogni 6 mesi ogni previsione è un rischio, e bisogna assumerselo senza tirarsi indietro. Si partirà sempre dalla realtà internazionale, nella speranza di poterla incastrare con il racconto di analoghi sviluppi italiani.
Cos’altro?
Ah, ovviamente il mio thank you particolare a Key4Biz e al direttore Raffaele Barberio per l’ospitalità. Spero non mi cancelleranno per aver attratto un “pubblico eccentrico” com’è successo in passato alle mie trasmissioni (old) radiotelevisive.
E ora veniamo alla carne. Saltiamo a piè pari il discorso teorico sull’IPTV, per quello spulciatevi la Wiki oppure Television Disrupted di Shelley Palmer. Procediamo con il Case Study #1, la sfida che è diventata chiave di volta del nuovo sistema: long-form pro video contro UGC (user-generated content). Se preferite iconizzare, facciamo Hulu, ovvero Viacom+Fox, gli Antichi che invadono il Nuovo, contro YouTube, ovvero Google, il Nuovo per antonomasia.
È dai giorni dell’ultimo sciopero degli sceneggiatori di Hollywood (5 Novembre 2007 – 12 Febbraio 2008), quando per non accettare il pagamento dei residuals sulle repliche in streaming l’universo corporate non ha esitato a far saltare per aria un’intera annata televisiva, che ogni osservatore acuto ha preso coscienza dello shift nelle priorità per chi gestisce i media americani. Per la cronaca, alla fine ci si accordò su royalties pari all’1.2% degli introiti lordi dai download [tipo iTunes], e il 2% degli introiti pubblicitari sullo streaming gratuito, ma solo a partire dal diciottesimo giorno di permanenza online.
E tuttavia nell’ottica del broadcaster mediterraneo i new media e il loro videosimbolo YouTube sembrano uno spauracchio modesto. La poltrona rimane ben salda quando il concorrente è una litania di video amatoriali su gattini miagolanti appoggiati sul cuscino del divano di casa o i monologhi strappasbadigli di 10 teenager emo che parlano slang newyorchese. L’UGC non insidia la TV tradizionale europea, nonostante i 130 milioni di “spettatori” continentali [visitatori unici] mensili di YouTube; al contrario è stato rapidamente assorbito da varietà e telegiornali e ovunque non si faccia caso alla qualità pixellosa delle hit spontanee user-generated youtubiche. Tutto simpatico, ma non si andrà a rottamare RAI 1 o il MySky. Non si innesta lo Zero-Sum Game (quando la somma di vincite e perdite è sempre uguale a zero, o, in termini mediatici, se il tempo online aumenta deve diminuire in proporzione quello speso su altri media, a partire dalla TV, visto che il totale minuti al giorno dedicati ai media non dovrebbe poter superare una prefissata soglia fisiologica… ma al riguardo vi consiglio le ricerche in controtendenza di Joel Waldfogel).
È vagamente sentita come “più” killer semmai l’offerta di contenuti pregiati illegali via torrent o P2P parenti [The Pirate Bay ha superato i 25 milioni di condivisori in Novembre]. Fortunatamente TPB non si può quotare a Londra, nè può tentare l’hostile takeover della Disney; è un elemento di fastidio e disturbo, non un reale concorrente.
Meccanismo delle percezioni a parte, quel che è innegabile però è la leva guadagnata da GoogleTube catalizzando 350 milioni e spiccioli di occhi worldwide su base regolare mensile (50/60 fissi ogni giorno + altri 50 catturati dagli embeds fuori del dominio youtube.com). Immaginate un mondo in cui dal giorno alla notte RAI e Mediaset crollano a share da lumicino, e tutti guardano ReteCapri. Anche disponendo di palinsesti infinitamente superiori, non è mai semplice riconquistare il pubblico perduto. Soprattutto se ReteCapri, passata la fase di shock collettivo, decide di capitalizzare sul suo trionfo più-unico-che-raro e modifica la linea editoriale…
È quello che stanno tentando con accelerata progressione in quel di GoogleTubolandia. Si sperimenta con qualche film nella Screening Room, si uppa qualche episodio dal magazzino Showtime, il player diventa 16:9 per tutti e la parola d’ordine è HD. E poi ancora vediamo che succede a produrre un live show, presentiamoci come canale semi-televisivo a chi possiede PS3 o Wii (tutti in pratica), firmiamo con William Morris che gestisce le maggiori star di Hollywood e infiliamo Mel Gibson e Sharon Stone in mezzo agli UGC. Ogni giorno se ne tenta una nuova…
Fermi non sono, questo è poco ma sicuro. Il punto debole di GoogleTube rimane, paradossalmente, il loro cuore, ovvero lo user-generated content, per natura imprevedibile e low quality. I primi inserzionisti del nascente mercato pubblicitario del video streaming non ne vogliono sapere di puntare i loro contanti sulle clip virali. Preferiscono un sano, vecchio videospot dentro la puntata in streaming di Lost. E così sia Screen Digest che LiveRail stimano introiti 2008 per YouTube pari a circa 100 milioni di dollari sul mercato americano, contro più o meno 90 milioni di dollari di Hulu. Un assurdo logico, se pensate che YouTube ha 84 milioni di visitatori unici regolari negli Stati Uniti interessati ai suoi 4 miliardi di video, mentre Hulu ha solo 6.5 milioni di spettatori per ora spalmati su appena 90 milioni circa di proposte in “palinsesto” [statistiche Nielsen Online, VideoCensus, Dicembre 2008] .
Ma nel mastodontico – o modesto, a seconda dei punti di vista – catalogo di Hulu già si trovano, certosinamente organizzati per canali tematici, tutte le stagioni delle hit Fox ed NBC, dal Dottor House a Heroes, passando per The Office e 30 Rock. Non sequenze da 2-3 minuti, non registrazioni domestiche unauthorized, non remixaggi parodistici. Intere puntate, intere stagioni, a risoluzione 720×480 [qualità dvd, un pelo meglio di Sky] o 1280×720 [qualità HD di fascia bassa]. Senza contare le produzioni originali, tipo il Dr. Horrible di Joss “Buffy” Whedon, che meriteranno articoli a parte.
Diverse serie lo scorso autunno, incluso l’orrido remake di Supercar (Knight Rider), hanno debuttato online su Hulu con una settimana di anticipo sull’esordio televisivo, un ribaltone totale della prospettiva classica di Internet come mero archivio-sgabuzzino in VOD. Strategia replicata altrove nel cyberspazio dalla stessa NBC sul suo sito ufficiale, e persino da un canale via cavo premium, ergo l’antitesi del free content, come Showtime per il cultissimo Dexter. Dolce miele per un utenza che, secondo Solutions Research Group, nel caso di Hulu è per due terzi maschile, ha un’età media di 32 anni, e un reddito del 22% superiore allo standard USA. Forse è per questo motivo che negli Stati Uniti si passa molto più tempo (due volte e mezza) a guardare video streaming “professionali” [leggi: serial TV, film, news e sport] che non clip user-generate; in Europa, studi Cisco di inizi Gennaio 2009, è l’esatto contrario. Ma in Europa non esiste Hulu…
Secondo il controverso blogger miliardario Mark Cuban, il modello di business di Hulu si avvicina a quello televisivo (più traffico genera, più guadagna con i suoi tuttora miserevoli 2 minuti circa di pre-roll, post-roll, overlays advertising per ogni 22 minuti di streaming), quello di YouTube è vincolato all’atavico paradosso di Internet (più successo ho, più spendo in banda e costi strutturali, più soldi perdo).
In parole povere, ReteCapri… ahem, YouTube lo guardano tutti, ma la contabilità soffre in attesa di un colpo di coda della casa madre, mentre Hulu, ancora poco diffuso [sebbene sia in crescita prodigiosa e fulminea], già fa felice la sua concessionaria di pubblicità. Per i curiosi, uno spot su Hulu costa dai 25 ai 30 dollari CPM (costo-per-migliaia di impressions), ma non si possono acquistare campagne su un singolo show, bisogna prendere i pacchetti per fasce demografiche. Questione di contratti. Sul sito della ABC invece si può investire in break sulle singole serie, a partire da Desperate Housewives e Lost (con CPM tra i 45 e i 65 dollari la scorsa estate; a naso dovrebbe essere drasticamente diminuito quest’inverno).
Nel 2009 sia GoogleTube che Hulu raddoppieranno a 180 milioni di dollari le revenues pubblicitarie. Briciole rispetto al tubo catodico, se pensiamo che la raccolta RAI sulla ben più modesta dimensione italiana, e con tanto di tetto normativo, è di 1.200 milioni di euro e rotti all’anno. E nondimeno, attenzione, i numeri nei new media seguono traiettorie stratosferiche nel passaggio dagli early adopters al consumo di massa. Un anno fa avevamo meno di 200.000 iscritti italiani a Facebook, oggi sono 5.6 milioni…
Il punto non è quanto incassano oggi, il punto è: la rielaborazione dell’offerta televisiva nelle due (per il momento) chiavi alternative Hulu/TV.com & YouTube verrà avvertita dalla popolazione come un vantaggio evidente? Una fruizione più comoda e ricca dei contenuti? Un add-on irrinunciabile nella vita quotidiana?
La mia risposta è: sì. Non entro un paio di mesi, ma neppure da qui a 10 anni. Le eyeballs sono già lì.
Negli Stati Uniti, a Dicembre 2008, secondo Nielsen, 124 milioni di esseri umani hanno guardato video in streaming. In media ogni webviewer USA ha visto nell’ultimo mese 77 webtrasmissioni in streaming (leggi: può trattarsi di un gag di 30 secondi o di un documentario integrale; sono esclusi ovviamente i video che i ragazzi si scaricano torrenzialmente per successiva visione offline). Si è passato in media 3 ore a guardare video online. Again, briciole quando paragonate con le 142 ore spese davanti alla TV nel 2008 dall’americano tipo. Inoltre acuti critici come Craig Moffett del Bernstein Research fanno notare con preoccupazione lo squilibrio tra la propensione media a sorbirsi spot davanti alla TV (alta) e davanti al PC (zero), con l’inevitabile conseguenza che i pochi commercials sopportabili dovranno essere pagati con CPM stellari per poter far quadrare i conti della baracca.
Ma a ribaltare, anzi riscrivere, le attuale proporzioni, sia di tempo speso che di introiti pubblicitari generati [oggi la proporzione viene data a 20/80 tra stream monetizzati contro stream gratuiti] ci penseranno i televisori che acquisteremo a partire da Natale. Da Sony a LG, dal modello high-end per maniaci al clone cinese, gli apparecchi televisivi saranno presto tutti collegabili nativamente al web e in grado di decodarne i segnali video compressi, senza bisogno di set-top box, Roku, Alici TV e compagnia bella. Non sono stati ancora risolti tutti i problemi di navigazione via telecomando, ma diciamo che il prossimo sito di streaming russo illegale con la collezione dei porno di Moana potreste vederlo su un monitor diverso dal solito…
Non è finita. L’integrazione nella rete di connettività domestica si accompagna all’innesto nell’esperienza televisiva di strumenti ormai indispensabili per il navigatore, dai widget per dati testuali [Yahoo vi invia informazioni extra sulla partita con una profondità che l’EPG Sky si sogna e con update regolari] a quelli per chattare [su MySpace in tempo reale del concerto live di Bon Jovi]. La sesta stagione di Lost dovrebbe essere la prima con i widget incorporati. E al posto delle Guide TV avremo i feed RSS che in un angolo dello schermo avvertiranno quando switchare il nostro remote control dal quindicesimo rewind consecutivo della battuta fulminante di Jim Carrey all’appena uploadato hot & fresh new video da Vattelapesca, Missouri, schizzato negli ultimi 10 minuti al #1 nel canale Fun di GoogleTube.
Non stupisca l’enfasi sull’amplesso tra TV e Web 2.0. Chi conta, in America, ci crede. E chi siamo noi per smentire i mogul dei grandi network? Del resto il modello Hulu ha trovato già un cugino con attitudini “social” più spiccate in TV.com della CBS, guarda caso attuale dominatore assoluto dei ratings analogici, con abissale distacco in diverse serate sulla triade ABC-NBC-Fox. Pochi contenuti per ora su TV.com, e moltissimi in condivisione con Hulu e altre videodestinazioni online, anche se stanno affluendo serie in esclusiva da CBS e badilate di show da MGM, Sony, PBS, Endemol USA e Showtime. Rispetto al rivale Hulu, a Fancast del provider-colosso Comcast e all’eterno ibrido/promessa Joost, TV.com può però vantare una community ragguardevole, costruita negli anni (non dalla CBS, beninteso; il network di Lee Monves ha acquistato l’intera baracca con dominio furbetto annesso una manciata di mesi fa).
Quanto pesa questa community? Il New York Times dice 16 milioni, il Wall Street Journal 5 milioni di iscritti. Poco o molto, ma pesa. E introduce nell’equazione una nuova intrigante variabile, la socialità nella fruizione dello streaming. Un elemento a oggi trascurato – la differenza tra l’importanza dei commenti nelle clip di GoogleTube rispetto a quello che avviene in Giappone con Nico Nico è abbagliante – e soprattutto soggetto all’imponderabile. Quanto conta il timing nel debutto di una community vincente? Quanto le feature offerte al navigatore? Quanto i mod? La tematicità? Quanto è pura casualità nell’aver ospitato i thread più roventi? Più a monte: serve davvero una community alla Streaming TV dei potenti network ex-locali presto globali? CBS ne è convinta. Il 2009 di TV.com ci indicherà quanto sia brillante o meno brillante la loro intuizione.
Ma torniamo alla domanda che tu, mio cinico lettore, hai in testa da una dozzina di paragrafi… Sono tutti ninnoli? Giochini per smanettoni? O reinterpretazioni dell’esperienza visiva considerate ormai imperative dalla Facebook Generation e come tali prevedibilmente adottate all’istante, bye bye al passato, accompagnamolo a fare compagnia ai telefoni a disco della SIP?
Non sono stravaganze per Joe Kilar, CEO di Hulu, uno di parte ma con neuroni di livello: “Se me lo chiedete, la novità principali è la possibilità per gli utenti di trasportare i loro contenuti preferiti, intere puntate o solo spezzoni di 2 secondi, nei loro spazi di social networking, sul proprio blog, inviarli per eMail agli amici, e discuterli”. Magari via iPhone o similare con la fidanzata che si annoia al lavoro. Si evolve da un’esperienza statico-passiva a un’esperienza di condivisione dinamica. Un passaggio che per forza di cose non si può applicare a ogni singolo minuto di fruizione televisiva [sarebbe aberrante], ma rende quei 10, 30 o 60 minuti al giorno in cui avremo BISOGNO di televisori IP-based [o asciugacapelli portatili con schermo televisivo IP-enabled; il succo è la trasmissione via protocollo IP liberata dai vincoli dell’odierna distribuzione one-to-many] il Cavallo di Troia dei Signori dello Streaming per polverizzare in un solo colpo analogici, satellitari, digitali terrestri, decoder di Stato, nani e ballerine.
Il vaso di Pandora che si apre promette di far divertire per anni tutti gli studiosi di media annoiati a morte dal Purgatorio degli ultimi due decenni. Ne tiro fuori solo una, ci torneremo: i metrics. Nel nuovo scenario l’Auditel con i suoi campioni statistici misteriosi diventa un ferrovecchio. Al suo posto user data trasparenti in tempo reale senza approssimazioni, loggabili per gli inserzionisti ma con il manuale incluso delle istruzioni [pensate all’incidenza della Lunga Coda; i parametri per valutare il successo di una trasmissione si atomizzeranno insieme al numero di volte che la trasmissione stessa potrà essere vista nell’arco di durata dei diritti].
Riflessi di quanto sopra sullo specifico italiano, si intende il giorno del poi, l’anno del mai in cui avremo a disposizione un servizio di banda larga universale sostenuto politicamente? In teoria il dirigente dell’analogico regnante potrebbe dire “macchecifrega? Tutto è cambiato per restare uguale, regnano sempre le major, e i diritti pregiati li venderanno sempre a noi”. In teoria. Nella pratica RAI e Mediaset (quest’ultima pare molto più sensibile alla criticità del momento; vedi Endemol) non possono vantare library proprietarie reattive ai mutati scenari; è peraltro da valutare nel caso RAI la tutela nel tempo dei diritti di proprietà intellettuale sul catalogo.
Nella globalizzazione del consumo di intrattenimento, sport e news nulla vieta – fatti salvi i famigerati mal di testa biblici di ogni localizzazione – attendersi un’estensione overseas di Hulu, TV.com e YouTube che limiti fortemente la torta degli incumbent locali. Immagino però che ce ne renderemo conto solo quando Hulu Europe acquisirà i diritti del calcio, negherà le licenze per serie TV e feature films, lasciando i broadcaster italici appesi alle fortune dei reality, quelli rimasti liberi, e all’estro di Simona Ventura. Come dite? Figurati se vengono ad acquistare il calcio e insidiare Sanremo? Può darsi… Ma cito Jason Kilar, CEO di Hulu, intervista a MediaPost del 29 Dicembre 2008: “La nostra mission è di aiutare le persone a trovare e godersi i migliori contenuti sul mercato ovunque e in qualsiasi momento lo desiderino. […] Stiamo monitorando attraverso i logs geo-filtrati degli accessi a Hulu la domanda latente dei nostri contenuti fuori dagli Stati Uniti. Siamo ossessionati da questi dati. Quasi tutto il nostro team ha esperienza di global business. Io ero global, nel mio precedente incarico in Amazon“.
Senza contare che la fase di transizione e riposizionamento può rivelarsi terreno fecondo per nuovi player che sappiano giocare con tempismo le loro carte. E non penso solo agli operatori tlc o i provider Internet. Gioco di fantasia, ma chi impedisce al leader nazionale del dating online di sviluppare la sua clientela M/F trasversale built-in offrendo ai suoi milioni di abbonati un pacchetto di contenuti in partnership con Mr. NewTV Newcomer? Una volta superata l’era delle frequenze assegnate per legge e degli impianti pesanti, mentre si riscrivono velocemente tutti i contratti, nel brave new world dei televisori IP-supported si naviga in mare aperto…
Bene, that’s it per oggi. Ogni commento è il benvenuto.
Nella prossima “puntata”: Naruto, quello che trasmette Mediaset, l’erede di Dragonball nell’immaginario dei bambini di questo secolo, da Gennaio 2009 in diretta simultanea mondiale via streaming. E no, Mediaset non c’entra niente…
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