Stati Generali del Cinema Italiano: globalizzazione e proprietà intellettuale. E’ ora di agire in difesa dei diritti degli autori

di di Roberto Barzanti (Docente di Istituzioni e politiche audiovisive nella Ue - Università di Siena) |

Italia


Cinema digitale

Globalizzazione è fenomeno plurale. I processi di globalizzazione in atto – e qui uso il termine in accezione neutra, prescindendo dalle connotazione sociali e politiche che assume secondo i tempi, i rapporti di potere, le aree investite – non hanno la stessa velocità, non la stessa qualità, né provocano conseguenze comparabili nei vari campi che coinvolgono. Negli ambiti della produzione artistica non si registrano, certo, gli sconvolgimenti finanziari derivati da un’immediata interdipendenza, ma anche analizzando le problematiche attinenti all’ideazione e alla circolazione delle opere, alle relazioni tra linguaggi e tradizioni, si percepisce quanto la globalità sia ormai la dimensione entro la quale si collocano esperienze e programmi che toccano aspetti essenziali dell’invenzione creativa e dell’elaborazione culturale.

 

Per un verso si hanno spinte poderose verso l’omologazione, la standardizzazione di simboli e  immagini che enfatizzino le nuove forme di consumo, per l’altro si assiste al rifiuto ostile dell’imposizione di modi e temi avvertiti come depauperamento e mutilazione di mondi da preservare e da custodire. Non assistiamo affatto alla marcia trionfante e vittoriosa di un pensiero unico, come si era da taluni profetizzato o ad un’imperiosa preminenza del mezzo (delle tecnologie), che annetta e offuschi il messaggio, i messaggi. Non che simili strategie non siano messe in essere, ma il panorama che abbiamo di fronte è assai mosso, variegato, ricco di contrasti e scontri, di contraddizioni e resistenze.

 

Si assiste perfino a un effetto nostalgia (“quando la realtà – ha osservato Baudrillard – non è più quella di una volta la nostalgia acquisisce pienezza di significato. Si assiste a una proliferazione di miti delle origini e di simboli della realtà, di verità, di obiettività e autenticità di seconda mano”), ad un acuirsi del bisogno di ritrovare radici o identità minacciate. In questa divaricazione talvolta lacerante tra violenta riduzione ad unità e difficoltosa sopravvivenza di tratti peculiari e irriducibili il patrimonio culturale, i beni materiali e immateriali di cui è fatto, le storiche eredità, le originali innovazioni sono in stato d’assedio. Soprattutto viene meno il rapporto con il luogo e con un rassicurante contesto, nazionale o regionale, in grado di dar leggibilità e obiettivi ad un testo letterario, ad una composizione musicale, ad un’opera audiovisiva. E di indirizzarla a un pubblico.

 

Le forme assunte dalla Società dell’informazione o della conoscenza, come si preferisce dire più per indicare un desiderio che per fotografare una realtà, consentono una vertiginosa circolazione di testi, opere d’autore dovute alla ricerca e all'”ingegno”, e di testi non riconducibili ad un’autorialità individuabile, magari ad un’ “intelligenza connettiva”, spesso a banali e estrose incursioni. Grazie alle  tecnologie digitali, alla diffusione tramite le piattaforme e alla multimedialità che eccita, una quantità impressionante di informazioni è compresente, almeno nella parte di mondo più sviluppata, disponibile e utilizzabile integralmente o parzialmente, riproducibile e modificabile a piacere, effimera, pronta per un uso immediato, tesaurizzabile a futura memoria.

 

Le questioni relative alla commerciabilità delle opere e più generalmente dei beni di ambito prevalentemente culturale o creativo sollecitano una graduale reimpostazione che assegni alla dimensione globale e ai processi di globalizzazione un ancoraggio determinante, in un quadro ben diverso da quello “internazionale” che pur fu, da subito, colto come necessario e strategico. La Convenzione di Berna risale nel suo impianto al 1886! La Cina è vicina, l’India è alle porte. Quante regioni del mondo sono toccate da problemi che non possono essere regolati solo riponendo loro categorie collaudate nell’Europa e vigenti, con latro segno, negli USA e nell’universo anglosassone.   

 

Qui intendo soltanto richiamare alcuni interrogativi cruciali e non appoggiandomi all’analisi di norme e dettagliati punti giuridici. Non è questo il compito che mi assegno.          

 

Chi ha a cuore le tematiche della tutela del diritto d’autore non può non muovere da una considerazione assai critica circa l’invadenza della nozione di “proprietà intellettuale”, che ricomprende sotto un unico concetto brevetti, marchi e copyright, di fatto accordando agli aspetti di scambio commerciale un’importanza trainante e quindi accentuando una torsione mercatistica, “trade related”: si vedano le vicende degli accordi TRIPs in seno alla WTO. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’UE inserisce la formula “La proprietà intellettuale è protetta” quale  secondo capoverso dell’art. 17, sul “Diritto di proprietà”. Il termine “proprietà intellettuale” è relativamente recente: si legga Siva Vaidhyanathan, Copyright and Copywrongs, 11, New York, New York University Press, 2001. Nel lessico politico è inflazionato dal 1967, dalla fondazione, cioè, della WIPO. “Il termine ‘proprietà intellettuale’ opera – ha osservato Stallman – in modo onnicomprensivo per raggruppare assieme leggi assai disparate. Persone non esperte di diritto che sentono il termine ‘proprietà intellettuale’ applicato a questi diversi ambiti legislativi, tendono a credere che si tratti di manifestazioni di uno stesso principio comune, e che essi funzionino in modo simile.

 

Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità”. Non si sottolinea questo tema per proclamare un’insormontabile e altezzosa distanza della creatività e degli avvenimenti o degli oggetti nei quali viene registrata dal “commercio” e dalle ragioni dell’economia. Altrimenti i fondamenti stessi della nostra riflessione non avrebbero validità. Dobbiamo mirare a costruire i canoni di una rinnovata economia della cultura, che faccia i conti – anche in senso strettamente economico – con le mutazioni in corso, non dimenticando però che questa è solo una parte della questione da trattare. Non mancano paradossi allarmanti. Oggi, ad esempio, si assegna la massima enfasi al copyright, quando la copia in senso materiale evapora o è portata di mano, on line o no, una clonazione all’infinito dell’originale. La concezione del droit d’auteur con tutte le implicazioni connesse al dualismo che la caratterizza  deperisce, a vantaggio di quella più invasiva e industrialistica, proprietaria e tendenzialmente monopolistica. La produzione fissata in supporti materiali e la circolazione in ambito nazionale presentano  problemi abbastanza circoscrivibili. Ma la dilatazione dei servizi delle cosiddetta Società dell’informazione è, invece, al centro di un dibattito sempre più arrovellato, a partire dalle potenzialità suggerite da Internet, e dai suoi eventuali danni.

 

Occorre, certo, non intrecciare e tanto meno sovrapporre riflessione teorica e strumentazione legislativa  contingente e praticabile. Eppure alcune linee guida che si prefiggano di non disperdere, e anzi di rilanciare acquisizione e problematiche  tipiche della via europea devono esser sinteticamente ripercorse:   

 

1.  Salvaguardare le specificità e i fini del diritto d’autore – e dei diritti connessi – nella sua – nella loro – accezione più nobile e soggettiva, personalistica. Le convenienze dell’economia – piuttosto del profitto istantaneo – e le logiche dei grandi gruppi, delle enormi concentrazioni multinazionali e tendenzialmente globali finiscono per marginalizzare l’autore: dal punto di vista della “giusta remunerazione” e da quello più inafferrabile della sua riconoscibilità, della sua dignità e della sua libertà in definitiva. La dimensione etica viene sminuita o compressa, anche per i disaccordi che permangono a livello internazionale. Si tratta di rifiutare questa deriva, di battersi per far sopravvivere non solo formalmente irrinunciabili diritti civili. Se “il lavoro non è una merce” neppure il diritto d’autore nel suo nucleo portante è una merce. E non si annulla nella confusa sommatoria delle cosiddetta “proprietà intellettuale”.   

 

2. Rafforzare le sedi internazionali sia per l’elaborazione che per l’applicazione delle norme. L’Unione europea ha svolto un ruolo importante e lo sta svolgendo, ma non basta. Il recente Libro Verde su Il Diritto d’autore nell’economia della conoscenza è molto al di sotto delle promesse del titolo e testimonia più un’aspirazione di verifica e di approfondimento del corpus esistente che la volontà di individuare nuovi svolgimenti. L’applicazione dei principi della concorrenza verso le Società degli autori e la gestione delle licenze nell’economia digitale non può prescindere da un’attenta considerazione dell’efficacia delle procedure e della qualità dei risultati. Probabilmente sono maturi i tempi se non per pensare a qualcosa che assomigli ad una sorta di Ufficio europeo, debitamente istituzionalizzato, che agisca come il sistema in via di definizione nel campo delle telecomunicazioni anche sviluppando e perfezionando la preziosa esperienza del GESAC e di organismi affini,  andando oltre i meccanismi associativi e le prospettive di autogestione. Si discute da tempo, da una quindicina d’anni, ed in termini più puntuali a partire dal 2006 dal Meeting inaugurale dell’ Internet governance forum (Igf) di una “Carta dei principi della rete”, di una Costituzione,  come ha detto più volte Stefano Rodotà, del web. Il prossimo appuntamento è in agenda in dicembre e si svolgerà in India. “Le leggi degli Stati – sottolinea Rodotà – si scontrano con il problema dei confini nazionali, mentre i codici di autodisciplina rischiano di lasciare il potere di regolazione solo ai privati che, anche quando si muovono con onestà, non entrano mai in conflitto con i propri interessi. Per questo ci vuole una Carta”. Quale cogenza avrà? Come garantire i principi che vi saranno iscritti?   

 

3. Battersi per la legalità nelle varie forme di circolazione on line delle opere, di scaricamento e di appropriazione indebita non deve significare non accettare una sana flessibilità. Il rigore va bene se non si traduce in un rigorismo astratto. La fortuna del film cinematografico si trova davanti a trasformazioni radicali dei modi di scrivere, di finanziare, di produrre, di distribuire e diffondere, di promuovere e fruire: “il compito di una politica cinematografica – si asserisce nelle conclusioni del Forum  convocato a Cracovia dal Consiglio d’Europa nelle scorso settembre – è quello di facilitare le transizione al nuovo, non di preservare le vecchie strutture e modalità operative, che stanno per essere spazzate vie”. Di per una tale dichiarazione di coraggio è incontestabile. In tema di diritto  d’autore (o copyright) ) non si dovrà  demordere da un punto già acquisito e già previsto nel  Trattato di Lisbona, ora in discussione, circa il requisito dell’unanimità per le decisioni o i mandati da fissare in materia da parte dell’UE per le negoziazioni internazionali.   

 

 4. Sostenere la creatività, promuovere la sperimentazione, favorire la reciproca conoscenza, aprirsi con lungimiranza ai Paesi che considerano il copyright, assimilato com’è alla “proprietà intellettuale”/”proprietà industriale”, poco più d’una scomoda eredità ottocentesca se non coloniale. L’autorialità ha molto a che vedere con la stagione romantica. È infungibile per proteggere opere collegiali, comunitarie: “L’appropriazione individuale di creazioni e invenzioni – ha ricordato in un bel saggio Joost Smiers – è un concetto alieno a molte culture”. E la durata che si accorda alla protezione desta scandalo, l’ereditarietà lo aggrava, non avendo alcun rapporto con l’incentivazione della creatività, che appartiene all’autore e solo all’autore. In uno scenario globale queste differenze di coscienza sono da prendere in esame con  preoccupazione. La ricaduta della protezione sarà  incisiva solo se avrà un’espansione autenticamente globale e se sarà avvalorata da un senso comune altrettanto globale, universale. Ciò spingerà a restaurare il diritto d’autore, a pulirlo da incrostazioni e deformazioni, a liberarlo da un eccesso di aggiunte e travisamenti che l’hanno reso esoso e incomprensibili agli occhi di popoli e Paesi di sensibilità tanto lontane dalle nostre. Anche da questi punto di vista il preteso universalismo eurocentrico è messo  a dura prova.         

 

5. La differenziazione nella gestione della rete può dar luogo ad una serie di opportunità da esaltare. L’Open source, l’esperienza Creative Commons, le prospettive dischiuse del software libero, ad esempio, sono spazi da considerare  complementari ai modelli proprietari e a quelli che si distinguono per “tutti i  diritti riservati”. Coesistenza pacifica, quindi , e non demonizzazione a senso unico. Le offerte nel web dovranno strutturarsi ed essere accessibili nelle forme più svariate: non mancheranno aree di gratuità, magazzini ben forniti, abbonamenti di modico prezzo. La diffusione di licenze legali elettroniche modulate secondo differenziate esigenze e pubblici diversi potranno coprire una vasta area del mercato, che si differenziati in mercati retti da logiche compatibili ma non identiche né sul versante dall’offerta, né su quello della fruibilità. Quasi come reazione a queste modalità tipiche del “diritto di copia” emerge un più evidente protagonismo degli autori – anche del singolo autore, delle sue opzioni individuali – e degli utilizzatori. La globalizzazione per un verso invita agli automatismi, per l’altro rende talvolta più penetrante l’esigenza di contattare direttamente  gli autori, di riconoscerli e collocarli in una geografia che si è dilatata a dismisura. Funzioni più sofisticate sono, dunque, chiamate a svolgere le stesse Società di gestione dei diritti in un sistema di governance in gran parte da costruire. Le garanzie della giusta remunerazione e la lotta alla criminalità informatica son da perseguire senza alcuna lesione dei diritti fondamentali, della privacy in primo luogo, e senza illudersi con scorciatoie giudiziarie o tanto meno poliziesche. In quell’ottica di corretto bilanciamento di istanze sul quale si sofferma in maniera chiara la sentenza C-275/ 06 del 29 gennaio 2008 resa della Corte di giustizia di Lussemburgo: secondo la quale “gli Stati membri, in occasione della trasposizione delle direttive in materia di proprietà intellettuale e di tutela dei dati personali, sono tenuti a fondarsi su un’interpretazione di queste ultime tale da garantire un giusto equilibrio tra i diversi diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario. Inoltre, in sede di attuazione delle misure di recepimento di tali direttive, le autorità e i giudici degli Stati membri devono non solo interpretare il loro diritto nazionale in modo conforme alle dette direttive, ma anche provvedere a non fondarsi su un’interpretazione di esse che entri in conflitto con i summenzionati diritti fondamentali o con gli altri principi generali del diritto comunitario, come il principio di proporzionalità”. Sono necessarie buone regole, ma regole ci vogliono. I teorici della miracolosa anarchia della Rete come regno supremo di libertà e della gratuità sono ogni giorno smentiti: “L’ideologia ultralibertaria – ha scritto  Carlo Formenti – appare inconsapevolmente alleata della ‘controrivoluzione’ liberal-liberista”. E Denis Olivennes nel suo sferzante pamphlet ha sarcasticamente ridicolizzato la “paradossale consociazione di antimoderni e ultraliberali attorno all’idea della gratuità”.

 

In conclusione: la figura dell’ “eccezione culturale” ebbe una risalto enorme nella fase finale dell’Uruguay round, Fu un passaggio decisivo, da non dimenticare. La cultura, e quindi la produzione artistica, e quindi gli autori e i detentori a vario titolo dei diritti sulle opere, meritano una considerazione “eccezionale”, specifica. Da far valere anche in sede di formulazione degli accordi sugli scambi. Oggi la Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali elaborata in sede Unesco e adottata  il 20 0ttobre 2005 interpreta esigenze fondamentali e offre un piano di confronto ineludibile, ma di enorme – inquietante – complessità attuativa. Destinata primariamente, a mio parere, a concretizzarsi in programmi e accordi, in investimenti e cooperazione. Occorrerà contrastare interpretazioni eccessivamente protettive e difensivistiche.

 

Ebbene: anche il sostegno agli autori, ai giovani in particolare, alle forme tradizionali e innovative di espressione dovrà concretizzarsi in buona misura in programmi, in interventi pubblici, in idonee azioni, in utili servizi che affrontino con risolutezza anche questioni che la meccanica della gestione dei diritti e il ruolo delle Società di gestione collettiva non possono più affrontare o risolvere da sole o facendo esclusivamente leva sulle risorse incassate e le competenze conferite. O confinandosi nello spazio domestico di consueta pertinenza. La svalutazione del lavoro intellettuale e dell’impegno creativo è balzata drammaticamente all’ordine del giorno (anche in Italia).

 

La volontà di proteggere (garantire) i diritti degli autori – e degli artisti, degli interpreti, dei titolari dei diritti connessi – e di assicurare un futuro al film, all’industria cinematografica, al mondo dell’audiovisivo sarà tanto più condivisa quanto più saprà rispondere con innovativo coraggio alla impaziente domanda di facilitato accesso alla conoscenza e alle modalità nuove di praticarla. Per allargare lo spettro di politiche incisive è indispensabile un confronto ravvicinato – senza pregiudizi o guardinghe ostilità – con le telecom e i provider. I quali non potranno rifiutarsi di contribuire ed assumersi anche puntuali responsabilità.

Insomma bisogna dare una svolta positiva e attiva al discorso, altrimenti votato a tradursi in impotenti ed alla lunga fastidiose lamentele, sul diritto d’autore e la sua necessaria rivisitazione. Ma – per carità – finiamola con i convegni sulla cosiddetta “pirateria”! Non servono a nulla: anzi sono dannosi, perché eroicizzano un costume diffuso e sventolano a vuoto minacciosi spauracchi penali. Adeguati meccanismi sanzionatori saranno efficaci solo se si riuscirà a colpire con essi i comportamenti patologici, una criminalità circoscrivibile e sempre più marginale in un complesso quadro di consensuale legalità e di buone pratiche.  

  

   

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