Italia
Pubblichiamo di seguito il contributo del prof. Giancarlo Elia Valori, presidente di Sviluppo Lazio, da cui è tratto l’intervento al convegno “Da mercanti di bugie a innovatori della conoscenza. Il futuro nelle nostre mani”, organizzato dalla Fondazione Luca Barbareschi, in collaborazione con Key4biz e Fare Futuro, che si è tenuto questa mattina a Roma alla Camera dei Deputati.
Un implesso ben complicato, quello delle tecnologie ICT per il futuro del nostro Paese e dell’intero sistema produttivo e culturale globale. Se quello che chiamiamo “mondo moderno” è nato attraverso la creazione di tecnologie che “mimavano” le prassi lavorative tradizionali, il che portava ad un risparmio di lavoro o a un risparmio di capitale, oggi le innovazioni tecnologiche, concentrate nelle tecnologie della comunicazione-produzione di conoscenza, nascono trasformando, senza mimarlo, il meccanismo della conoscenza umana e quello della produzione di servizi. Il modello di Carroll Quigley nel suo monumentale “Tragedy and Hope”: ovvero un sistema culturale complesso che determina, tramite scelte geopolitiche, i suoi sottosistemi produttivi.
E’ quello che Karl Popper chiamava il “Mondo 3″ , quello delle idee e dei modelli astratti, che si è reso autonomo dal suo sostrato oggettivo e produttivo e si rigenera secondo le sue leggi, che sono determinate da una geopolitica diversa da quella che ha costruito la prima e la seconda Rivoluzione Industriale.
La “immane massa di merci” che Karl Marx descrive all’inizio del suo “Capitale” è divenuta “l’immensa massa di informazioni”.
Certo, come afferma il report dell’Economist Intelligence Unit sulla diffusione delle tecnologie ICT, “l’informazione è ovunque, ma la conoscenza è difficile da raggiungere”. Perché nel frattempo abbiamo scoperto che la conoscenza non è un rispecchiamento mentale di strutture esterne, ma un progetto, una direzione per l’azione. Aristotele chiamava le “cose” “ta pràgmata”, dalla radice del verbo “fare”.
Ma se oggi le aziende operano soprattutto con tecnologie ICT, cambia il rapporto tra cliente e impresa, e diviene essenziale e possibile l’individuazione, e l’anticipazione dei trends di sviluppo dei mercati; e questo ci fa pensare che, se è vero, come affermano molti studiosi di queste problematiche, che la cultura e la filosofia aziendale divengono centrali nei sistemi produttivi, e divengono inoltrale chiavi per il vantaggio competitivo delle aziende, è anche vero che viene superato il limite tra comunicazione d’impresa, programmazione dei beni e dei servizi e la stessa comunicazione sociale. Abbiamo a che fare con un sistema-impresa che diviene, attraverso il meccanismo immediato, reattivo e reticolare delle tecnologie ICT, omogeneo al sistema-paese. Il capitale vero e proprio diviene coestensivo e affine al capitale intangibile, all’universo dei segni e dei simboli che mai, prima d’ora, erano divenuti campo di battaglia per i vantaggi comparativi delle imprese e degli interi Paesi.
Sempre il report dell’Economist mostra poi che le imprese hanno ancora molta difficoltà a raccogliere non informazione, ma conoscenza e, soprattutto, conoscenza utile dal loro contesto, sia esso globale o locale.
Cioè, e questo vale anche in Italia, non sappiamo ancora leggere i vantaggi competitivi delle informazioni rilevanti (che non sono mai tali in sé, ma per noi) sia nelle imprese che nelle istituzioni, che sono anch’esse sottoposte ad una concorrenza virtuale che lascia sul terreno, ma in modo diverso, gli stessi “morti e feriti” della concorrenza classica tra imprese.
Finora abbiamo visto la globalizzazione come un processo di omologazione o, come sostengono alcuni, di semplice “americanizzazione”, mentre dobbiamo cominciare a vedere, proprio attraverso l’applicazione delle tecnologie ICT alla società e alla produzione, come uno spazio globale in cui tutto viene posto in concorrenza, e dove arrivano a confrontarsi, espandendosi o localizzandosi, sistemi culturali e strutture sociali, non solo beni e servizi.
I Dati, insegnano i teorici del management ICT, divengono informazioni attraverso un contesto, e l’informazione si trasforma in conoscenza con l’esperienza, le tecniche, l’insight teorico, che non è riproducibile o formalizzabile.
E la conoscenza ICT delle imprese (ma non solo delle imprese) si basa su individui, sui database, sulle reti formali e informali, e si materializza in politiche e procedure. E questo vale anche per i sistemi politici, non solo per le aziende.
Per usare le parole di un teorico indiano di business, Malhotra, se prima, fino agli anni ’90, i cambiamenti del panorama produttivo erano rapidi e occorreva agilità e flessibilità per adattarvisi in tempo, oggi la rapidità stessa e la natura stessa dei cambiamenti produttivi e comunicativi è tale che vince chi “pensa oltre”, non chi semplicemente prevede. E’ questo lo spazio in cui le tecnologie ICT fanno la differenza. E ‘, in altri termini, quello che diceva Ohmae nel suo “Borderless world”: si può produrre ricchezza non solo dalle aziende, ma anche dalle nazioni, e non importa, nel mondo globalizzato, quanto esse siano povere in partenza, ma se riescono a scoprire ed ampliare il loro “vantaggio competitivo” culturale, sociale, organizzativo. Formazione, conoscenza, collegamento con la produzione di beni e servizi: il mondo “senza confini” disegnato da Kenichi Ohmae presuppone una impresa e una società modellate entrambe da tecnologie ICT.
Se poi applichiamo a questo modello di Ohmae l’idea, che ci sembra ragionevole, di una affermazione del vantaggio competitivo nella misura in cui le aziende “coevolvono”, secondo la formula di Johann Murmann, ovvero le aziende (e le nazioni) si sviluppano e vincono sui mercati globali quando “entrambe hanno un impatto significativo sulla reciproca abilità a sopravvivere”, per usare la Teoria dell’Evoluzione contemporanea, allora la nostra idea si fa più chiara: la “coevoluzione” si attua in rapporto alle tecnologie ICT e al nesso tra le imprese e le istituzioni, anch’esso mediato dalle tecnologie ICT.
La Nuova Teoria Economica ha sottolineato l’importanza del nesso tra istituzioni, tecnologie e aziende. La “coevoluzione” quindi oggi si sviluppa attraverso le tecniche ICT e riguarda ogni settore sia del mercato che dello Stato, e implica un vantaggio competitivo che mette in gioco sia fattori aziendali tradizionali, che il “capitale intangibile”. Ovvero la cultura, la stratificazione delle abitudini sociali, la formazione, l’informazione e la conoscenza.
E le tecnologie ICT sono le uniche che oggi permettano non solo di collegare questi fattori “coevolutivi”, ma di conoscere per tempo le formule produttive e sociali di tutti gli altri concorrenti nel mercato-mondo.
L’azienda, secondo alcuni teorici degli anni ’90, sarebbe oggi una struttura che “costruisce conoscenza in modo singolare e esclusivo. E questo sistema coevolutivo è appunto la conoscenza specifica, il vantaggio competitivo dell’azienda (o dell’istituzione) stessa.
La “configurazione della conoscenza” ottimale per l’azienda implica quindi una selezione dei “drivers” del proprio business strategico, la costruzione delle reti di informazione che lo sostengono e lo rendono capace di competizione, infine la definizione dei modelli di interazione tra l’informazione da fuori” e quella “interna” e poi un monitoraggio di questo processo.
In altri termini, se pensiamo alla epistemologia contemporanea e al dibattito sulle scienze, si potrebbe dire che l’impresa è un sistema di comunicazione che diffonde i risultati di un esperimento confermato dai fatti.
La scienza non è più una applicazione del management, come nelle imprese del mondo moderno; il mondo postmoderno sovrappone informazione rilevante, impresa, struttura produttiva, accesso alle nuove tecnologie.
Ed è proprio per questo che, da Porter in poi, i teorici del vantaggio competitivo hanno sottolineato il fatto che si può creare valore non solo attraverso i legami interni, come nella vecchia teoria dell’impresa, ma per mezzo di processi unici, inediti, l’uso della conoscenza, le reti, il capitale intellettuale, i valori culturali.
Le tecniche ICT raccolgono quindi tutti gli elementi dell’innovazione d’impresa e istituzionale che possono salvare o affermare, oggi, una impresa o una istituzione nel mercato-mondo.
L tecnologie ICT, in questo contesto, sviluppano ed espandono le innovazioni conoscitive per tutta la catena di comando dell’impresa, raccolgono informazioni innovative dal basso verso l’alto, e ottimizzano lo sforzo del vantaggio competitivo, aumentano la qualità dei prodotti e servizi, il livello di innovazione dell’impresa, l’efficienza del management ma, è bene sottolineare questo effetto delle ICT nelle imprese, le innovazioni tecnologiche raggiunte in questo modo sono molto resistenti alle imitazioni e alle sovrapposizioni sui mercati.
Questo vale anche e soprattutto per le Piccole e Medie Imprese: lo sviluppo di internet in primo luogo, poi le specifiche tecnologie ICT nelle mani dei dirigenti possono permettere di azzerare, secondo il modello di Ohmae, i vecchi vantaggi competitivi e rendere possibile, se il sistema istituzionale e formativo funziona, di ripetere in ambito geoeconomico il mito di Davide contro Golia.
Qui l’importante è lo sviluppo, anche per le PMI, del dato minino diffuso, che permette alle imprese “Davide” di raccogliere dati, e soprattutto conoscenza, sugli scenari globali, sui global players, sulle tecniche d’impresa, etc. delle aziende “Golia”.
La comunicazione crea situazioni, per usare la terminologia della teoria dei Giochi, di tipo “win-win“: alleanze strategiche, la scoperta di nicchie di mercato da sfruttare tramite reti, una relazione stabile e continua con gli azionisti.
Le tecnologie ICT sono essenziali, sia per le piccole che per le grandi imprese, a migliorare le tecnologie di processo, aumentare la qualità, creare un mercato globale dei propri prodotti, ridurre i costi, generare nuove opportunità di business, generare valore e nuovi posti di lavoro.
Altro, quindi, che “mercanti di bugie”! la comunicazione (internet, il data mining, le tecnologie di rete, l’intelligenza artificiale e tanto altro) sono non lo “specchio” che deforma la realtà, ma una sorta di realtà, diremmo di “surrealtà”, di empiria profonda e invisibile ai vecchi sistemi di produzione e di scambio.
E questo vale anche per la comunicazione non-aziendale, ammesso che possa esistere qualcosa nel settore ICT che non riguarda il vantaggio comparativo, immateriale o materiale, tra le nazioni e le aziende.
Quindi, le tecnologie ICT nell’entertainment sono, o meglio debbono essere capaci di una posizione in rete di notizie, informazioni, metodi, sostrati culturali, tecniche di lavoro, testi classici, immagini, contatti peer-to peer tra esperti e scolari, nuove forme di formazione continua che vivano oltre il rapporto fisico tra docente e discente e che, peraltro, possono essere tutt’altro che noiose e ripetitive. Pensiamo al “Progetto Gutemberg“ per gli eBook di autori di cui sia spirato il diritto d’autore, della documentazione di immagini di molti musei internazionali o le varie università on-line, buone o meno buone, che sono sorte ovunque. Se si supera il limite tra produzione di valore e informazione critica, tramite le ICT, allora si supera il limite, arcaico, tra entertainment e formazione, e tra periodo scolare e attività di studio. Sarà una delle grandi sfide dell’Italia dei prossimi anni, e occorrerà contemperare qualità della formazione (che può essere addirittura maggiore di quella tradizionale) e libertà di accesso alla rete. Un problema più culturale che giuridico.
E, anche nella comunicazione, come nella produzione, il mondo modellato dalle ICT sarà non diviso tra piccoli e grandi, ma tra chi scopre nuove opportunità, comunque grandi, le crea (ma non si tratta, di nuovo, di “commerciare bugie”) e le utilizza in rete, in co-operazione, e chi invece rimane legato alle vecchie idee del big business (che implica oligopolio o monopolio, oggi impossibili) o anche alle vecchie retoriche del “piccolo è bello”. Piccolo quanto basta e il grande sarà sempre più il risultato di una rete ICT tra tanti “piccoli” che non avranno bisogno di qualificarsi come tali.
E le reti di innovazione saranno essenziali sia per i piccoli che per gli attuali grandi, e non avranno i confini delle vecchie nazioni, ma delle nuove identità: i distretti produttivi, le macroaree, le grandi alleanze geopolitiche internazionali. Sarà in questo collegamento specifico tra global e local, attivato dalle ICT, che si costruiranno le nuove identità e i futuri “centri di gravità” strategici, non solo economici.
E’ per questo che il ruolo dei governi sarà essenziale: per sviluppare le ICT, occorrerà rinnovare ciclicamente le infrastrutture informatiche, permettere a tutti un accesso sicuro alle banche dati e alle informazioni in circolo, costruire una serie di elementi di partecipazione degli utenti alla rete, fare verifiche, quando occorre, delle richieste del pubblico, unire le varie agenzie governative e intergovernative che si occupano della manutenzione della rete (e per questo sarebbe bene costituire un sistema europeo delle infrastrutture ICT), determinare gli incentivi fiscali o di altro genere per far aderire tutti alle reti ICT, e naturalmente mettere in campo fortissime tecnologie e sistemi legali per garantire oltre ogni ragionevole dubbio la privatezza e la sicurezza dei messaggi e dei dati delle reti ICT, sia produttive e aziendali, che “sociali”, ammesso che valga ancora questa arcaica divisione.
Si pensi, per esempio, alle utilità delle ICT nel sistema sanitario, per collegare i vari centri, o nella diagnostica evoluta e diffusa, o ancora nella analisi e nella diffusione dei dati epidemiologici. O alla nuova forma dell’educazione-formazione-intrattenimento di cui abbiamo sopra parlato.
O anche nell’industria turistica, dove poi si sovrappongono, nella rete, le imprese del settore e le reti legate alla formazione-apprendimento.
Un “sistema dei sistemi”, quello delle tecnologie ICT, un “superordine di superconcetti”, per usare la formula di Wittgenstein, che unisce comunità e gerarchia e permette di superare le dicotomie tra tempo libero e formazione, tra formazione e lavoro, tra conoscenza e produzione.
E’ probabile che, in un futuro non troppo lontano, si possa decidere di sostituire la rete ICT a vecchie istituzioni: si pensi alle biblioteche, o alle scuole tecniche, che verranno sostituite, nella loro parte pratica, dalle aziende stesse.
E’ vero che questo implica la rottura del vecchio modello di realtà, quello che faceva dire a Kant che “i tre talleri d’oro nella mia tasca sono sempre diversi da quelli presenti nella mia immaginazione”. E’ ovvio che l’universo virtuale non può sostituire la realtà, come hanno invece mostrato decenni di cinema di fantascienza. Ma non è affatto ovvio che invece non possa sostituire la comunità, mimandola, o non costituire la conoscenza, che è appunto, anche nella creazione soggettiva un “parlare a sé stessi”, come diceva Peirce, o “fare esperimenti con il pensiero, secondo la teoria di Ernst Mach.
Non c’è rottura epistemologica in questa rivoluzione delle ICT, c’è semmai la riscoperta di importanti filoni del pensiero classico e della rivoluzione scientifica dei primi del ‘900.
Per l’Italia, non siamo certo messi molto bene: dal primo piano nazionale delle ICT, organizzato nel 1991 da Singapore, fino al “White Paper on competitiveness” dell’Unione Europea del 1993, il nostro Paese ha un bassissimo “Networked readiness index”: il primo posto è ancora tenuto dalla Finlandia, seguita dagli USA e da Singapore, mentre noi rimaniamo al 26° posto, dopo la Spagna e prima del Lussemburgo. E dietro l’Estonia.
Per la disponibilità alla “banda larga” siamo al 30° posto, secondo le ultime statistiche disponibili, subito prima del Venezuela e dopo la Repubblica Ceca.
L’accesso pubblico ad internet ci vede al 49° posto, dopo il Marocco e prima dell’Indonesia.
E anche le aziende italiane che utilizzano l’ICT sourcing, secondo alcune analisi recenti di mercato, mostrano ancora di avere delle ICT una percezione di strumento per l’efficienza delle strutture già esistenti in azienda, mentre invece occorre dimostrare, e molte analisi a livello mondiale ormai lo certificano, che le ICT hanno, e devono avere, un impatto completo su tutto il processo di gestione-produzione-marketing delle imprese.
E’ difficile in Italia la delocalizzazione dei servizi ICT, e questo dovrebbe essere un tema-chiave per le Amministrazioni Regionali, e per le aziende che, come Sviluppo Lazio, offrono servizi strutturati alle imprese di un vasto territorio.
Certo, la questione del finanziamento pubblico delle infrastrutture di rete è un problema centrale e ineludibile. Che si tratti delle reti NII statunitensi o delle network transeuropee o delle reti infocomunicative giapponesi, ogni tipo di scelta strategica in questo settore implica investimenti colossali che è difficile immaginare possibili da parte di aziende o di pool di aziende private.
Per puro paradosso, i mercati che hanno maggiore necessità di queste reti per svilupparsi sono, per così dire, all’estremo più basso di utilità sociale: videogiochi, teleacquisto, video on demand ed altro.
Io penso che, per esempio, una fiscalità specifica su queste attività, che possa finanziare parte delle infrastrutture, non sarebbe male. Invece di “Robin Tax”, potremmo chiamarla “Dulcamara’s tax”.
E il vecchio rapporto Bangemann del 1994 sulle ICT in area Unione Europea, prevedeva alcune aree di applicazione delle tecnologie ICT, ma sostengo che il vero problema, oggi, è quello della autopoiesi delle reti.
Ovvero occorre finanziare reti che sono capaci di aggiornarsi a settori, minimizzando i costi di ristrutturazione, dato che il progresso tecnologico è tale che non è più possibile pensare allo sviluppo delle autostrade informatiche come se fossimo ancora ai tempi di una autostrada vera, quella “del Sole”, inaugurata nel 1964.
Architetture aperte, progettazione in parallelo, magari sostegno fiscale alle imprese che collaborano alla realizzazione di un “pezzo” (come gli appalti per l’Autostrada del Sole) e fiscalità di vantaggio per gli utilizzatori fissi, che possa sostenere la universalità degli accessi. E soprattutto una severissima autorità per la sorveglianza e la privacy della rete.
Le associazioni come la RIPE , i consorzi come RARE in ambito UE sono di alto livello, ma ci deve essere una capacità di coattività legale immediata per chi violi le regole delle ICT che non può essere esercitata da consorzi e associazioni. Immagino una sezione, tanto per esser chiari, dei Carabinieri o della Polizia di Stato, che già ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza informatica nella Polizia Postale, capace di controllare e attivare subito azioni di blocco e repressione delle irregolarità delle rete e di attribuirle direttamente ai singoli individui che le compiano.
Si dovrà immaginare una struttura di “contro-hacking” , questa sì a livello UE, che usi alchemicamente il male per il bene.
Si tratterà di sviluppare una grande rete di Ricerca nazionale, oltre il sistema CARR del Ministero dell’Innovazione, che dovrà essere collegata alle reti delle imprese e a quelle della formazione.
E comunque questa nuova configurazione del sistema ICT in Europa non permette più né un monopolio delle reti fisiche né un oligopolio.
Si potrebbe pensare ad una authority che mantiene la rete con una quota dei redditi fiscali delle operazioni compiute o favorite dalla rete, o ad una percentuale dei costi elettrici ed energetici. Ma stiamo andando oltre il nostro discorso di oggi.
Tutte idee che però si collegano ad alcuni dei temi posti alla luce dal progetto “Italia 2010″ : La quota di spesa IT sul PIl italiano è del 1,8% con un differenziale quasi della metà rispetto a Francia e Gran Bretagna.
Elemento essenziale, questo, per stabilire i vantaggi competitivi. L’UE non è un “embrassons nous” del Vecchio Continente, è un’area nella quale le imprese interne si fanno concorrenza in modo diverso da quelle esterne e accettano alcuni limiti interni per proteggersi dalla concorrenza esterna. Non aspettiamoci regali, quindi, se non la partecipazione ai progetti comuni, nel settore ICT o nelle tecniche più evolute di scoperta e gestione dei vantaggi competitivi.
Ognuno per sé, l’UE per tutti. Si aggiunga poi che l’Italia ha un altro “divide” oltre quel “digital divide” globale: quello tra aree evolute in campo ICT e zone ancora a bassissima intensità sia di formazione che di impresa innovativa. Anche se Ohmae ci ha insegnato che non importa da dove si parte, e che ogni area ha potenziali da mettere in gioco.
E ricordiamoci che, secondo molti economisti di settore, un Euro investito in ICT fa crescere il PIl di 1,8 Euro, mentre un Euro investito in non-ICT produce una crescita dell’1,1%.
La separazione tra regioni, che implica anche una diversa gestione del mercato dell’entertainment e della formazione in Rete, è forte in Italia anche nel settore ICT e verifica un investimento nelle tecnologie IT maggiore in Lombardia, Lazio e Piemonte. Le regioni che investono meno sono la Valle D ‘Aosta e il Molise.
Ma la dinamica della spesa in ICT è più negativa al Nord che al centro e al Sud. Un ulteriore frazionamento del paese, che ci fa pensare ad un futuro in cui, probabilmente, il frazionismo sociale sarà tale da rendere superato anche il nostro sistema regionale attuale.
I driver in Italia del mercato ICT sono comunque particolarmente legati alla comunicazione di massa più che alle imprese e alle attività specializzate: vincono, come è facile pensare, i telefonini, seguiti dalla TV digitale, poi le connessioni a banda larga (che vale anche per il business e la formazione) per passare alle soluzioni per la sicurezza, poi l’e-commerce, l’e-busniess, l’eLearning.
Ancora molto entertainment e comunicazione “classica”, ma ch potrebbe essere utilizzato per veicolare i valori e le necessità dell’evoluzione sociale e aziendale ICT oltre il divertimento, attraverso il divertimento, e il suo uso di massa.
E sarà centrale l’entertainment quando si tratterà di informare e far conoscere le tecnologie ICT per i cittadini e le imprese, nei piccoli comuni, o per le infrastrutture locali di servizio in rete.
Un grande “Modello Montessori” adatterà, tramite la comunicazione quotidiana, i sistemi di ITC alle necessità nuove od antichissime della popolazione e delle imprese. E dei servizi pubblici.
Diffondere, per esempio, il progetto ENTERPRISE di Pordenone, progressivamente, al resto dei comuni italiani sarebbe già un ottimo traguardo.
Sfruttare la tettonica a placche della società italiana: uno scivolamento lento ma sicuro dai centri verso le aree periferiche, i distretti, le nuove “città-stato” che sono engrammate nel nostro sistema politico naturale e immediato.
E occorre anche gestire gli squilibri di sviluppo tecnologico, dato che l’UE è per esempio leader nelle nanotecnologie e nelle comunicazioni, ma non investe abbastanza in ICT. Ovvero, in Italia, occorre sviluppare non solo poli di eccellenza, come quelli di Genova e Pisa, ma impostare da subito un collegamento tra la ricerca universitaria e sia l’entertainment che le ICT da impresa, per evitare che gli uni e gli altri si separino da quel comune fine applicativo che è al centro degli interessi di tutti.
Si è parlato, tra i ricercatori, di una ICT innovativa finanziata per 2/3 dal settore privato. E’ possibile. Se pensiamo ad un legame tra input e progetto tra entertainment e tecnologie ICT per formazione-impresa, l’idea non è peregrina. Che si potrebbe pensare di una società legata alla innovazione tecnologica ICT finanziata da un consorzio di imprese che, si occupano di entertainment e sistemi pubblici, enti locali e Università?
Per ora, le organizzazioni e i progetti delle ICT in area europea si muovono su linee di intervento utilissime ma non totalizzanti:
la competitività ICT per le Piccole e Medie Imprese, l’innovazione e la eco-innovazione, il progetto di Lisbona e quindi la “società dell’informazione” l’efficienza energetica. Sette megaprogetti ICT europei che focalizzano i loro obiettivi in queste aree.
Niente da dire, anzi.
Ma riteniamo, e qui chi si occupa di entertainment ICT ci comprenderà benissimo, che si debba iniziare a progettare contenuti per le reti. Per esempio un pacchetto di servizi standardizzati di data mining per le piccole e medie imprese, che si “autoinsegna” in rapporto a chi si collega a questo servizio (che è bene che abbia un costo, onesto ma visibile) o un sistema di aggiornamento nel settore dello “strategic management” applicabile, per moduli, alle PMI. Si può ben credere che la professionalità elevatissima dell’entertainment ICT possa fare miracoli nel settore.
E immaginiamo anche che dei contenuti per le scuole e le università, organizzati per ICT, ad un costo ragionevole, potrebbero essere una forma di aggiornamento dei programmi immediata, efficace, qualitativamente ottima.
Non sto pensando solo ai “serial” TV che insegnano la storia ai ragazzi, ma penso anche a videogames che insegnano la matematica e a contenuti visuali tra entertainment e informazione che insegnano la fisica, oltre a videogiochi interattivi che insegnano a gestire un’azienda e a adattarsi ai nuovi mercati.
Come San Filippo Neri, dobbiamo ricordarci che vivere “in delizia” è come imparare.
Ma dobbiamo stare attenti, stanno apparendo all’orizzonte nuove dinamiche dell’ICT. Mi riferisco all'”Ubiquitous Computing & Ambient Intelligence“ che presuppone una possibilità, da parte degli utenti, di accedere a vaste masse di dati e a strumenti molto “eleganti” per il calcolo attraverso dispositivi, spesso portatili, con interfaccia “amichevoli”.
E qui chiedo: dove andranno a finire i diritti di riproduzione, le attività delle Associazioni per la protezione dei diritti d’Autore, e per la riservatezza temporanea dei contenuti? Forse si potrebbe pensare ad un costo di accesso, piccolo ma rilevante per i grandi numeri, e poi ad un “costo di storage” in cui i contenuti si securizzano e il cui mantenimento-controllo ha un costo, che finanzia l’aggiornamento della rete?
Oppure si potrebbe pensare a brevetti ICT che vengono sperimentati in rete, e che poi vengono resi sicuri dopo le prime modifiche, che rimangono a pagamento sulla rete, con un denaro “virtuale” a credito-debito che si contabilizza solo alla fine dell’anno?
Tutto è possibile, se si comincia a pensare fuori dagli schemi consunti e consolidati.
Per quel che riguarda i dati oggettivi delle ICT in Italia, gli ultimi report danno una crescita lieve del mercato ICT in Italia dello 0,4% nel 2007, con la generazione di un business di 44.200 milioni di Euro, con un calo, significativo, dei servizi in rete fissa e un calo ulteriore dei finanziamenti pubblici nella domanda per il settore.
Cosa fare? In fondo è semplice: utilizzare, senza penalizzarli, i sovrapprofitti di alcuni settori ICT per finanziare la ricerca in termini di vantaggi competitivi per le Piccole e Medie Imprese. Stimolare, con una fiscalità amichevole e, soprattutto, con un sistema di ricerca e analisi in rete, le innovazioni specifiche e, poi, permettere agli individuati elaboratori dei programmi, per il periodo di non obsolescenza delle loro programmazioni ICT, di godere di un piccolo reddito aggiuntivo, una sorta di “diritto d’autore” monitorato e a tempo.
Cessata la efficacia del programma o del contenuto proposto e certificato, si passa ad un altro fruitore di diritti, che avrà intentato la cosa giusta al momento giusto.
Era la vecchia querelle degli “ancien et des modernes” che impazzava nella cultura francese del XVII secolo. Siamo scopritori di novità assolute oppure siamo, secondo la formula del libertino Garasse, “nani sulle spalle di giganti”? Siamo, risponderebbe un tecnologo ICT di oggi, entrambe le cose. Nani quando facciamo innovazioni minime, ma essenziali, giganti quando operiamo trasformazioni tecnologiche ed epistemologiche radicali, ma che hanno bisogno di tanti “nani” (magari altissimi) per essere applicate per tutti e in breve tempo.
La scienza, oggi, come la produzione e, per certi versi, la creazione concettuale ed artistica, manifesta un rapporto diverso tra soggetto e oggetto, come tra individuo e massa. Trovare l’equilibrio tra queste nuove aree semantiche di vecchi termini della storia culturale europea sarà la vera sfida delle ICT, e non solo di loro.