Cronache di (dis)servizio pubblico: maggiore trasparenza dei documenti e capacità propositiva per una indispensabile riforma Rai. (2ª puntata)

di di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale) |

Italia


Angelo Zaccone Teodosi

L’articolo che abbiamo pubblicato su “Key4biz” il 9 settembre 2008, primo di una serie, ha suscitato consensi trasversali ma, tra tutti, ci sembra opportuno riportare i complimenti di Rocco Monaco, Presidente della recentemente costituita associazione di “utenti” televisivi Utelit (Utenti Televisivi Italiani), che ha deciso di veicolare ai suoi 23.000 iscritti gli articoli di Key4biz in questa “campagna” d’autunno.

Eppure, talvolta, manifestare argomentate critiche nei confronti della Rai sembra un po’ come sparare sulla crocerossa. Sembra facile raccogliere consenso, e provocare cori di sdegno.

Oggettivamente, abbiamo a che fare, da anni (da Celli in poi), con un gruppo che lamenta un grave deficit di strategia industriale e culturale, e, al contempo, un grave deficit di risorse economiche.

 

Alcune responsabilità sono certamente endogene, ma la gran parte delle cause della deriva Rai sono esogene: vanno ricercate in un sistema politico che non ha mai voluto affrontare, seriamente, il ruolo della televisione pubblica nel mutato scenario mediale nazionale.

Mantenere il livello del canone Rai così basso significa delegittimarne – concretamente e simbolicamente – il valore istituzionale e la missione pubblica, e costringerla ad emulare la televisione commerciale.

 

Come è noto, il nostro istituto, nelle proprie ricerche e libri, ha costruito una “teoria della televisione” che sembra riprodurre il paradigma marxiano “struttura” / “sovrastruttura” (economia / politica): fatte salve eccezioni (il caso, unico in Europa, del britannico Channel 4), il modello di finanziamento di un “public service broadcaster” influenza in modo determinante la sua offerta, ovvero la “sovrastruttura”, il palinsesto, la sua composizione e la sua modulazione. E’ normale, naturale, fisiologico che la Rai proponga in prime-time, ed in generale nelle fasce più pregiate (almeno dal punto di vista degli utenti pubblicitari) del palinsesto, programmi ammiccanti, beceri, banali, e spesso omologhi a quelli della televisione commerciale. E’ “costretta” a farlo, dalle regole assurde alle quali è stata sottoposta da uno Stato ipocrita: quello stesso Stato, che, “mutatis mutandis”, sostiene di fatto l’industria nazionale produttrice del tabacco e poi obbliga alla esposizione di segnali terroristici sui necrofori pacchetti di sigarette. Quella ipocrisia che anima Mara Carfagna e la convince a “pulire” le strade dalla prostituzione, come se fosse un problema giustappunto di… estetica metropolitana ovvero di arredo urbano o di rimozione dei rifiuti (la classica polvere sotto il tappeto). Quella ipocrisia che “costringe” la Rai a trasmettere seriali americani affollati di psicopatici, ma poi si mette a posto la coscienza (…) sovrapponendo la farfallina rossa. Quella stessa ipocrisia che prevede istituzioni come il Consiglio Nazionale degli Utenti, e poi le relega ad un ruolo di assoluta marginalità nell’economia politica complessiva del sistema audiovisivo nazionale.

E’ doveroso peraltro anche rispondere all’intervento di Remigio del Grosso (leggi intervento), Vice Presidente giustappunto del semi-clandestino Consiglio Nazionale degli Utenti (Cnu), nonché del semi-segreto “Comitato Scientifico” della Rai, che generosamente definisce “acute” le nostre analisi.

 

Il “caso Rai” richiede infiniti approfondimenti, tecnici prima che politici, e l’iniziativa di “Key4biz” intende proporre letture critiche multiple e plurime, un vero e proprio irrituale dibattito sul ruolo della televisione pubblica in Italia.

In questo nostro odierno contributo, ci limitiamo a criticare la insufficienza ed inadeguatezza delle informazioni rese di pubblico dominio dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, per comprendere se Rai stia rispettando o meno quel che è previsto dal vigente “Contratto di Servizio” tra Stato e tv pubblica. Remigio del Grosso (ci) invita alla lettura delle pagine della Relazione Agcom presentata il 15 luglio 2008, in particolare a quelle dedicate alla Rai (pagg. 183-207). Ha ragione del Grosso: leggere l’elenco delle trasmissioni che la Rai stessa classifica come “servizio pubblico” suscita dubbi, preoccupazione, allarme, e finanche ilarità.

Ma è forse più grave ancora è che Rai non renda di pubblico dominio i dati relativi al regime di contabilità separata, cui è obbligata dalla legge: il cittadino non ha idea di quanto effettivamente Rai spenda, esattamente, per le trasmissioni di “servizio pubblico” e per quelle “commerciali”.

Crediamo che, in un Paese più rispettoso del ruolo delle istituzioni, dell’indipendenza dei poteri, della funzione del servizio pubblico, la Rai sarebbe obbligata a fornire alla collettività una relazione autodescrittiva (ed autocritica: chiediamo troppo?!), accurata, approfondita, dettagliata, della propria attività. Una relazione critica in termini socio-culturali ed in termini economico-finanziari.

E ci sembra qui importante riportare un estratto di un documento che il Professor del Grosso conosce certamente bene, essendone stato co-redattore, le “Linee guida del progetto di monitoraggio del valore pubblico dei programmi della Rai e di valutazione della corporate reputation della Concessionaria del Servizio Pubblico Radiotelevisivo”, documento del dicembre 2007.

 

Si tratta della relazione redatta dalla commissione nominata dal Ministro Paolo Gentiloni, presieduta da Giuseppe Sangiorgi, e formata da Mario Abis, Remigio del Grosso, Gabriele Lavia, Giorgio Marbach, Piero Zucchelli. Commissione chiamata a definire una strumentazione tecnica di verifica delle funzioni di servizio pubblico affidate alla Rai sulla base del “Contratto di Servizio”. Strumentazione, all’ottobre 2008, ancora inesistente: no comment! Si legge nelle “Linee guida”: “Un capitolo a sé del vissuto Rai fin qui delineato riguarda la Consulta Qualità istituita nel 1995 e a lungo presieduta da Jader Jacobelli. In ragione del proprio lavoro il Comitato per il monitoraggio della qualità Rai ha acquisito i pareri espressi dalla Consulta dal novembre 1995 al marzo 2005. Anche questi pareri però venivano consegnati all’alta dirigenza aziendale e tenuti riservati. Si tratta di un inedito “libro bianco”su dieci anni di programmazione Rai che meriterebbe invece di essere conosciuto dagli studiosi della materia ed anche da un pubblico più vasto. Uno dei tanti, sintetici giudizi espressi compendia così il dibattito su qualità e ascolti: “Occorre conciliare audience e qualità perché l’audience senza qualità non vale, e la qualità senza audience è sprecata” (ivi, pagg. 15-16).

 

Or bene, noi chiediamo, da cittadini, da giornalisti, da consulenti, che la Rai renda di pubblico dominio queste centinaia e centinaia, forse migliaia, di pagine di analisi critiche. Non debbono restare un “segreto di Stato”. Che si pubblichi il “libro bianco” proposto da Sangiorgi e colleghi!

Così come chiediamo alla Rai che i verbali delle commissioni chiamate a vigilare sul suo operato (come il Comitato Scientifico di cui è membro del Grosso) vengano resi di pubblico dominio.

Così come chiediamo alla Rai che altre centinaia di pagine, quelle frutto del cosiddetto “Iqs”, l’arcano indice di “qualità e soddisfazione” (costato alla Rai milioni di euro, nel corso degli anni), vengano rese di pubblico dominio… Basta segreti (di Pulcinella, peraltro) e basta ipocrisie (tv di Stato e tv di mercato).

Chiediamo semplicemente trasparenza. Esercitiamo un nostro diritto di cittadini.

Maggiore trasparenza significa maggiore conoscenza, maggiore capacità critica, e, infine, maggiore capacità propositiva – per tutti, vertici Rai e politici di professione inclusi – per una indispensabile riforma della Rai.

 

Non condividiamo invece la soluzione, radicale e semplicista, proposta dal Vice Presidente del Cnu: privatizzare due reti Rai e destinare solo la terza al servizio pubblico. Questa soluzione finirebbe semplicemente per indebolire la televisione pubblica, e per rafforzare un sistema commerciale già sufficientemente ricco di risorse. I governi francesi e spagnoli, pur nelle loro differenti cromie, stanno andando in altra e saggia decisione: certamente ridefinire la “mission” del “psb”, riducendo il ruolo della pubblicità nell’economia dell’emittente, ma compensandola con adeguate risorse pubbliche (e che siano dal canone pagato dai cittadini o da un finanziamento diretto dello Stato è veramente questione di lana caprina). Non si deve indebolire economicamente la Rai , la si deve semplicemente tirar fuori dalle sabbie mobili del mercato pubblicitario, razionalizzandone la struttura ma dotandola comunque di risorse adeguate alla sfida che deve affrontare.

 

In maniera altrettanto radicale e semplicista, contro-proponiamo, ancora una volta, il “modello Bbc”, o, ancora, il “modello Ard”, o, il “modello Zdf”: televisioni pubbliche forti, ricche, plurali e – in quanto tali – pluraliste, rispettose delle diversità socio-culturali, delle minoranze di ogni tipo. E, a proposito del modello tedesco, peccato che in Italia sia mancato alla Lega un pensiero alto in materia di televisione, (così come, peraltro, in materia di media, cultura, spettacolo): Bossi ed i suoi si accontentano di un incerto federalismo fiscale, allorquando il modello tedesco (e finanche quello spagnolo) di televisioni pubbliche regionali potrebbe essere di grande aiuto per porre rimedio alla disastrata deriva italica.

Il dibattito continua su queste colonne.

 

 

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