Italia
Pubblichiamo di seguito l’intervento di Enrico Manca (Isimm) al Seminario della Fondazione Bordoni dal tema Frequenze: la nuova competizione, tenutosi a Roma il 14 gennaio 2008.
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I benefici prodotti dallo sviluppo delle tecnologie della comunicazione mobile sono stati di grande rilievo per l’umanità intera, superando in modo significativo i costi economici e ambientali pagati per il loro sviluppo. Siamo tutti consapevoli come questa forte innovazione abbia positivamente e, drammaticamente, cambiato la nostra vita personale e il sistema delle relazioni economiche e politiche internazionali. Nessuno mette più in discussione queste affermazioni, anche grazie al contributo alla sicurezza e alla lotta al crimine e al terrorismo dato da codeste tecnologie di comunicazione.
Quello che invece non è altrettanto percepito dall’opinione pubblica e, spesso, anche dalla politica è invece il fatto che tutto ciò è potuto avvenire in tempi così rapidi e con costi tutto sommato contenuti, pur in presenza dell’uso di una assai modesta porzione dello spettro delle frequenze oggi utilizzabile. Ciò è potuto avvenire grazie all’uso della tecnologia digitale, oltre che all’architettura “cellulare” delle reti che consente il riutilizzo ottimale delle stesse frequenze nelle celle non contigue.
Era quindi naturale che prima o poi emergessero due problemi:
· un massiccio e legittimo bisogno da parte della industria del mobile di importanti frequenze aggiuntive a quelle attuali, necessarie a sostenere la crescente domanda di vecchi e nuovi servizi;
· la necessità per la collettività di favorire dei “risparmi” a quei settori industriali che sono storicamente forti consumatori di frequenze, a causa dell’uso di generazioni di tecnologie che comportano un uso non ottimale delle frequenze stesse.
Nessuno si meraviglia se lo Stato incentiva il risparmio energetico: lo si trova naturale e rispondente all’interesse generale; nessuno si pone però il problema dell’utilità, pur godendo a piene mani dei benefici della industria mobile e della telematica, della necessità e dell’utilità del “risparmio” di frequenze o del loro uso ottimale (il che è lo stesso). Da questo punto di vista, capisco poco certe fughe in avanti, tese a sminuire il ruolo del digitale terrestre, che appare comunque un passaggio obbligato nella strada del risparmio frequenziale.
In questo quadro, è naturale che spetti ai governi – attraverso incentivi, convenienze e la promozione della concorrenza – assicurare che l’uso dello spettro avvenga nel modo più efficiente. Anche a questo riguardo, la dimensione internazionale e globale del problema è essenziale. Senza accordi internazionali non si può:
· né assicurare la interoperabilità dei servizi,
· né la interconnessione delle infrastrutture di rete,
· né trovare i ritorni economici degli investimenti necessari per sviluppare le tecnologie per le reti e i terminali capaci di garantire l’accesso ai servizi.
E, quindi, va tenuto conto del fatto che l’Unione Europea e la ITU si siano posti per tempo il problema, prevedendo un’allocazione di una porzione maggiore di spettro destinata alla industria di servizi mobili, della quale le telecomunicazioni sono grande parte ma non l’unica; penso alla Tv mobile o ad altre tecnologie di accesso ad Internet.
Nei prossimi mesi a livello comunitario il Consiglio dei Ministri dei paesi dell’Unione e il Parlamento Europeo dovranno decidere, tra l’altro, in merito alle proposte di riforma della politica di gestione dello spettro avanzate dalla Commissione su proposta della Commissaria Reding a luglio dell’anno scorso. In questa prospettiva sono molto importanti le implicazioni che ne deriveranno in materia di autorizzazione dei servizi, se cioè le frequenze potranno essere assegnate in licenza d’uso per uno solo specifico servizio o se invece potranno essere assegnate ad operatori che a loro volta potranno scegliere le tecnologie da applicare e i servizi da fornire di conseguenza. Sono decisioni queste che toccheranno in modo diretto la struttura competitiva di importanti settori industriali, mettendo in discussione modelli di business consolidati e favorendo nuovi assetti industriali e forze di mercato.
In definitiva, emerge come il modello Command&Control sia inadatto al nuovo contesto tecnologico, anche perché presume un’autorità centrale onnisciente, che le frequenze sono risorse economiche e, quindi, lo stato di scarsità e di abbondanza è dettato dall’interazione tra domanda e offerta di mercato, infine che è necessario mantenere delle porzioni di spettro da destinare ad usi condivisi e, quindi non assegnate.
In rapporto a questa situazione e in riferimento al caso italiano, vorrei sottolineare come l’accordo per un nuovo piano nazionale di distribuzione delle frequenze per il Digitale Terrestre di cui si parla in esito al passaggio alla piena digitalizzazione della Sardegna, se chiuso e attuato, potrebbe consentire al nostro paese di fare un sostanziale passo in avanti, proprio su un tema così importante per la competitività della nostra economia e per lo sviluppo della nostra industria culturale e dell’audiovisivo: la valorizzazione del digital dividend.
Vorrei sottolineare il grande contributo che ha dato e che sta dando la Fondazione Bordoni per la realizzazione di questo obiettivo. Mi riferisco, in particolare, alla transizione totale che si sta per verificare a Cagliari.
Lo scenario che si sta per aprire, a livello nazionale e internazionale, promette grandi cambiamenti: estendere notevolmente lo spettro disponibile per gli usi connessi ai servizi della società dell’informazione, significherebbe, infatti, creare le condizioni migliori per favorire l’innovazione, suscitare nuova imprenditorialità, e garantire, allo stesso tempo, un’offerta competitiva di servizi di comunicazione ai consumatori.
Ma non è uno scenario scontato: la premessa sta, naturalmente, nella concreta possibilità che il dividendo digitale sia realizzato. E’ necessario, cioè, che si completi il processo di switch-off delle trasmissioni televisive analogiche, nei tempi più brevi possibili e nelle forme più praticabili.
Ma la realizzazione dello switch-off e la conquista di uno scenario tutto digitale non è che una premessa. Altri necessari accorgimenti andranno presi.
Mi limito a segnalare tre obiettivi:
· l’uso delle frequenze – sia che siano assegnate in base a tradizionali meccanismi di allocazione, sia che siano regolate dalle forze del mercato, sia che siano destinate ad usi condivisi – deve essere coordinato con i paesi confinanti e garantito dagli accordi internazionali, con particolare riguardo alle esigenze di armonizzazione individuate dalla Commissione Europea;
· il catasto delle frequenze, in corso di allestimento da parte dell’Authority e del Ministero delle Comunicazioni, deve essere completato in tempi brevi con criteri di equità, trasparenza e certezza per le imprese e per il pubblico in generale. In tal senso, credo sia opportuno rendere pubblico l’accesso al database delle frequenze.
· il coordinamento istituzionale tra AGCOM e Ministero delle Comunicazioni dovrebbe diventare fisiologico, con particolare riguardo alla delicata fase di immissione di nuove porzioni di spettro sul mercato; in quanto risorsa pubblica, il regime regolatorio di ogni singola frequenza dovrebbe, infatti, trovare il giusto equilibrio tra le istanze di efficienza (rappresentate dall’AGCOM) e quelle afferenti alla politica industriale (cui è preposto il Ministero delle Comunicazioni).
In conclusione vorrei ribadire un concetto su cui non smetterò mai di battere: le Istituzioni devono passare dal ruolo di giocatori a quello di arbitro. Abbandonare il modello Command & Control non significa,quindi, rinunciare al ruolo del pubblico:significa, invece, tanto più in un contesto orientato al mercato, garantire condizioni di gioco che siano eque, certe e trasparenti per tutti.
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