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ISIMM in più di un’occasione ha posto l’accento sui rapporti tra nuovi media – in particolare il web – e la politica riflettendo sulle conseguenze che le nuove piattaforme comunicative possono avere nella vita pubblica, anche, a livello istituzionale.
L’esperienza ci dice che quando un nuovo mezzo di comunicazione si radica via via in un determinato contesto storico e sociale, non appare immediatamente quale potrà essere il suo significato e come potrà venirsi a ridefinire l’architettura dei sistemi entro il cui contesto esso si pone.
Dando uno sguardo al passato, dall’invenzione di Gutenberg, alla diffusione dei quotidiani nel XVII e XVIII secolo fino ai mezzi radiofonici e televisivi, appare come le innovazioni apportate dallo sviluppo delle nuove forme di comunicazione, ai linguaggi, alla quotidianità, alla stessa costituzione materiale delle nostre società, hanno sempre avuto bisogno di tempo per svilupparsi, sedimentarsi, consolidarsi.
Schematizzando si può dire che l’emersione di ogni nuovo mezzo di comunicazione può essere scandita in tre fasi:
1) Coperta: Difficoltà a prevedere quale sarà il tipo di cultura indotto da questa nuova tecnologia;
2) In emersione: Il mezzo di comunicazione inizia ad essere utilizzato via via da più ampie fasce di consumatori, che progressivamente abbandonano vecchie abitudini sociali e culturali o, comunque, le “riversano” nel nuovo medium. Per intenderci è la fase in cui la tradizionale lettura del giornale nel primo mattino, (quella che Hegel chiamava “la messa laica del cittadino moderno”) si accompagna alla navigazione su Internet o, al controllo della propria posta elettronica;
3) La terza fase è quella che potremmo definire “Esplicita” dove gli usi sociali del nuovo medium emergono con chiarezza, investendo i rapporti sociali e politici che s’intrecciano e si sviluppano con l’uso della nuova tecnologia.
Per quanto riguarda il web, penso che si possa oggi sostenere che stiamo attraversando la seconda fase, quella che abbiamo definito “In emersione”; in presenza però di alcune manifestazioni che possiamo definire”emergenze” che anticipano, in modo esplicito, il mutamento culturale in atto.
Ignorare, sottovalutare o addirittura demonizzare i nuovi media sarebbe un errore sotto il profilo culturale, economico e politico. Dobbiamo guardarci dagli errori del passato. Quando nel 1954 è scesa in campo la televisione molti pensarono che il piccolo schermo fosse un modo diverso di fare il cinema, il teatro la radio. Poi , in ritardo, si è capito come il mezzo televisivo avesse un carattere straordinariamente innovativo che aveva a che fare con l’immaginario collettivo, con l’emergere di nuove figure, di nuovi linguaggi, destinato ad incidere nei rapporti sociali e in quelli politici. In definitiva a segnare di sé un’epoca.
Il ritardo con cui è stato compreso il fenomeno è anche all’origine della sorpresa e della incomprensione a livello della cultura politica, del terremoto provocato negli anni 90 dalla cosiddetta scesa in campo di Berlusconi. Un fenomeno che va ben al di la’ del pur significativo fatto di essere Berlusconi stesso proprietario di tre reti televisive e, di un evidente e permanente conflitto d’interessi. Ma fermarsi a questi dati pur certamente significativi senza scavare più a fondo come e perché Berlusconi sia stato in grado d’interpretare un mutamento, che da tempo stava intervenendo nella società, proprio in ragione di ciò che era indotto dai paradigmi della televisione commerciale, sarebbe riduttivo e fuorviante.
Sarebbe azzardato qualunque paragone; tuttavia attenzione a non compiere l’errore di considerare passeggero o futile il brulichio culturale che si fa, oggi, spazio dietro ai flussi comunicativi delle reti. (Potrei dire, ma nella consapevolezza della sua insufficienza e parzialità, Grillo docet).
Una presenza “discreta” se non nascosta , fatta da miriadi di voci pervade oggi il web. Una presenza spesso ignota, quando, per miopia, non consapevolmente ignorata. E’ così che tale presenza può allora prendere di sorpresa quando, irrompendo nella sfera pubblica si manifesta in modo clamoroso com’è stato nel caso del V-day dell’8 settembre scorso.
Oggi, con la continua innovazione tecnologica e lo sviluppo di software “sociali“, che rendono progressivamente più semplice lo sviluppo di relazioni in rete, via via più articolate e complesse, dovremo abituarci a convivere con i fenomeni di “micromobilitazione“, utilizzati anche dal movimento che si è coagulato, appunto, intorno alla figura e al blog di Beppe Grillo,uno dei primi 5 web più visitati in Italia; uno dei 10 blog più popolari nel mondo; il primo in lingua non inglese e ora diffuso anche in giapponese.
Molti sono i movimenti sociali che hanno utilizzato le reti digitali per potenziare il proprio messaggio; si tratta di movimenti che nascono off line, in circuiti di comunicazione tradizionali, che poi hanno utilizzato le reti digitali per coordinarsi, ottenere attenzione e comunicare. Penso alle esperienze che vanno dagli zapatisti del Chiapas (1994), al movimento di Seattle (1999) con la sua drammatica coda di Genova (2001), o anche al movimento dei Giritondi (2002).
Ma esistono anche diversi precedenti a livello internazionale di movimenti che nascono direttamente on-line e che rappresentano la testimonianza di quanto Internet abbia consentito di realizzare una mobilitazione “civica”, impensabile senza l’uso di questa piattaforma. Movimenti che nascono in Internet e solo dopo – se hanno successo – si trasformano in iniziative “reali”. Penso all’ esperienza di Howard Dean, pur nei limiti che conosciamo, e che dimostrano che, comunque Internet non può sostituire la politica; o a quella del leader coreano Roh Moo-hyun, che vinse le elezioni presidenziali del 2002 ricevendo fino a settemila eMail al giorno dai suoi sostenitori, centinaia di miglia di visite al suo sito e raccogliendo fondi per la stratosferica cifra corrispondente ad un miliardo di euro. Questi fenomeni ed altri ancora per quanto dirompenti, rientrano in una cornice istituzionale consolidata (elezioni primarie o politiche).
Nelle parole d’ordine di Grillo c’è, invece, una forte carica antipolitica. Le sue parole d’ordine somigliano più al grido di “que se vajan todos” che si levava dalle piazze argentine dopo il collasso finanziario della Stato, che non agli usi dei nuovi media a cui mi sono riferito. Beppe Grillo può allora essere visto come una figura allo stesso tempo nuova e vecchia di populista: il vecchio sta nel suo linguaggio e nelle sue invettive antipolitiche (ricorda L’Uomo Qualunque di Giannini), il nuovo è incarnato nei media che l’ex comico genovese utilizza sapientemente. Usando i nuovi media Grillo incrocia gli umori, le insoddisfazioni e il progressivo distacco di pezzi di società, particolarmente giovanile e utente delle nuove tecnologie, nei confronti della politica e delle istituzioni.
Ma commetteremo un errore nello stabilire l’equazione “Beppe Grillo = Web” e “Web= antipolitica”.
Ciò significherebbe immaginare che i nuovi media siano destinati a devastare la politica, le istituzioni e le forme rappresentative della democrazia.
L’uso dei blog e degli altri strumenti digitali può essere considerato assai più complesso e di un segno significativamente diverso dell’uso che ne fa Grillo. I cosiddetti software sociali – il Web 2.0 – a ben guardare traducono in “reali” le comunità virtuali, aggregando soggettività, saperi e culture prima più nascosti o difficilmente connettibili. In generale i media generalisti e la politica si accorgono del fenomeno quando esso assume dimensioni macroscopiche o “televisive”. In realtà, il meccanismo si realizza ben prima, attraverso una ossatura organizzativa resa possibile da una piattaforma di software sociale – MeetUp – che, a partire dalle discussioni online, permette ai membri delle comunità virtuali di incontrarsi fisicamente, attivarsi a livello locale e organizzare eventi e iniziative diffuse sul territorio. Se è vero che la risonanza mediatica ottenuta dalle piazze del V-day ha permesso a questi gruppi di allargarsi e di crescere, è innegabile, però, che senza questa struttura, a monte, quell’evento non sarebbe stato possibile.
E’ quindi utile pensare al blog, e più in generale al Web 2.0, come il laboratorio creativo di una nuova soggettività sociale che serba in sé anche nuove forme di politica e di sapere. Sappiamo bene che, come ha ben mostrato Habermas, la nostra sfera pubblica moderna è nata nella placenta del caffè e dei bar parigini e londinesi del 600 e del 700. Ed è nell’ambito di questi contesti che essa ha preso forma, sperimentandosi, per la prima volta nello scambio tra i vari punti di vista, nella conversazione, nell’articolazione dialettica e razionale del pensiero. E’ in questo contesto che nasce il soggetto che da quel momento fino ai giorni nostri ha accompagnato la nascita delle democrazie contemporanee. In questi ritrovi, nelle chiacchierate letterarie che li animavano, nello scambio culturale e umano si è sviluppata quella individualità borghese che ha condotto alla nascita della Democrazia rappresentativa.
Mi chiedo se sia possibile oggi porsi questo interrogativo: è immaginabile, sia pur tenendo conto di tutte le differenze, un percorso in qualche misura simile dal punto di vista creativo anche per il web? E se si, in quale direzione?
Negli anni Novanta si era sviluppata una vasta letteratura legata allo sviluppo di Internet. Si sosteneva che il web avrebbe permesso comunicazioni orizzontali, opposte al tradizionale verticalismo che caratterizzava – e tuttora caratterizza – il modello broadcast dei mezzi di comunicazione di massa.
In molti ambienti, quelli che possiamo definire i cyberentusiasti, iniziavano a teorizzare anche di modelli di democrazia diretta. La metafora del web come una piazza in cui ciascuno potesse prendere voce e dire la propria, contribuire alle decisioni e votare anche tutti i provvedimenti in discussione era una metafora potente che metteva fortemente in discussione l’istituto della democrazia rappresentativa e il principio della delega.
Si faceva largo insomma l’idea che fosse possibile organizzare una comunità e forse anche una società globale senza che tra le decine, centinaia o migliaia di persone che vi partecipassero intervenisse alcuna mediazione: democrazia diretta, dis-intermediazione dei professionisti della politica e della cultura; questo era il mantra che ossessivamente circolava negli ambienti della “cybercultura”.
Questa visione utopistica di internet, se da una parte è sempre stata debole sul piano epistemologico e – tutto sommato – figlia di un determinismo tecnologico esasperato, dall’altra ha mostrato di non reggere neanche alla prova dei fatti. Oggi vediamo che internet è una rete che trasporta messaggi di tutti i tipi e che, volenti o nolenti, rispecchia il bene e il male già presente nelle nostre società.
Lo sviluppo del web negli anni successivi è stato impetuoso e – per molte imprese e per alcuni settori industriali – anche travolgente. L’accesso ad Internet è andato crescendo di anno in anno fino a giungere alla considerevole cifra di un miliardo di navigatori online. Eppure, man mano che si sviluppavano le reti digitali, è diventato anche chiaro che i nuovi mezzi non sono privi di dinamiche di concentrazione e di potere. Diversi studi ormai dimostrano, a livello empirico come a livello teorico, che non tutti i nodi della rete sono uguali. Anzi, sappiamo oggi che ci sono pochissimi nodi (o siti, o blog, o persone) che hanno un’enorme influenza, accanto a tantissimi nodi che ne hanno poca o nessuna.
Questa dinamica è possibile rilevarla anche nel campo del business: laddove nei settori industriali tradizionali convivono nello stesso mercato più operatori, nell’economia digitale assistiamo a un fenomeno di concentrazione per cui, dicono in inglese “The winner takes all”. Il primo che riesce a proporre un servizio o un prodotto percepito come superiore, ottiene una quota di mercato enorme, che può superare il 70, l’80 o anche il 90% del totale. Il poco che rimane viene lasciato a tutti gli altri.
Ora sappiamo che la metafora della piazza funziona fino a un certo punto, e che non solo non tutti hanno la stessa voce in capitolo; qualcuno dispone di un megafono, qualcun altro di un potente impianto di amplificazione, ma la gran parte delle persone non dispone che della propria voce. Sappiamo anche che, per quanto i cittadini possano essere informati e competenti, non sempre hanno interesse a prendere decisioni o a partecipare a discussioni su temi e argomenti di cui hanno poca conoscenza o interesse.
Con questo non voglio dire che nulla è cambiato, tutt’altro: le reti digitali innovano profondamente la comunicazione, offrendo nuove e inedite opportunità di coltivare relazioni personali e di gestire rapporti sociali e politici. Solo che è cambiato in una direzione diversa da quella annunciata da molti guru dell’egualitarismo tecnologico, di quello che è stato definito il “fondamentalismo digitale”. E, soprattutto, emerge la necessità di un continuo raccordo tra le migliaia di voci che si levano quotidianamente dalla rete. Quelle dell’intellettuale o del politico non sono funzioni dis-intermediate; il loro ruolo nella rete può trovare un nuovo terreno in cui esercitare una mediazione, una sintesi.
Credo che le nuove forme e i nuovi modi di esercitare mediazione e sintesi richiedano una profonda professionalità, una “tecnicità” sapiente e informata. Internet non può essere e non sarà mai la fine della politica o – come alcuni sostengono – della democrazia rappresentativa. C’è uno spazio ampio per la politica, forse maggiore di prima. Questo spazio va però profondamente ripensato e riorganizzato. Non funziona più da tempo la vecchia forma-partito, basata sulle sezioni, sui comizi, sul senso di identità e di appartenenza.
Quali forme può assumere l’organizzazione politica, in modo da essere al passo coi tempi, efficace nella società in rete? Questo del resto è il tema ricorrente che fa da sfondo alla discontinuità a cui fa costantemente riferimento Walter Veltroni rispetto al Partito Democratico, al suo modo di essere e al suo modo di esprimere l’iniziativa politica e, per altro verso è lo sfondo su cui Silvio Berlusconi dice di voler costruire il nuovo Partito della Libertà.
Ancora un’osservazione: la globalizzazione dei flussi finanziari, i fenomeni migratori, l’accesa dinamica della competizione internazionale, la fine del paradigma produttivo fordista, porta alcuni acuti interpreti a definire questa come l’epoca della modernità liquida. La stessa comunicazione in rete, di cui abbiamo discusso questa mattina, è una comunicazione fluida e magmatica, condizionata da un’incessante innovazione tecnologica.
Mi chiedo se non ci sia il rischio di una dialettica accesa, forse esasperata dai tempi e dai ritmi di questa società liquida, fra questa fluidità con la necessaria stabilità di cui necessitano le istituzioni?
Le istituzioni sono “struttura” e in qualche modo “devono” essere solide e durature nel tempo, devono permettere alle persone di sviluppare un progetto di vita, di avere certezza sui processi democratici, sulle leggi, sul modo di comportarsi, di vivere, di lavorare di amare e di confrontarsi.
Come riformare le istituzioni in un mondo in continuo cambiamento, caratterizzato dall’incessante innovazione tecnologica?
In generale la politica di fronte al problema di come utilizzare le reti digitali ha spesso reagito o demonizzando quanto avviene nelle comunità virtuali e negli anfratti più profondi della rete oppure interpretando questi fenomeni utilizzando categorie tradizionali.
Di fronte alla partecipazione diffusa delle “audience attive”che commentano le notizie dei giornali, che producono contenuti in proprio e li distribuiscono su piattaforme con YouTube ( per i video) Flickr (per le foto) My Space (per la musica e per il gioco), che s’incontrano in sedi virtuali ma anche reali discutendo di cultura e di politica, penso che è indispensabile un cambio di passo della politica affrontando la realtà nuova con spirito critico. La politica ha il compito di far sue le sfide della cultura digitale, di aggiornare i suoi linguaggi e i contenuti delle sue proposte, la politica deve cogliere l’aspetto collaborativi, connettivo e orizzontale dei nuovi media, collocandolo nell’ambito nei nostri modi di agire e di pensare. La politica è chiamata cioè a rappresentare e a canalizzare il caos creativo prodotto nella rete. Come ciò possa avvenire è il capitolo che oggi dev’ essere scritto.
Ci può venire in soccorso questa citazione dalle Città invisibili di Italo Calvino “Il paesaggio invisibile condiziona sempre quello visibile”.
La nostra sfida è forse proprio questa: scorgere le trame della cultura contemporanea prima che queste si lascino attrarre nelle derive del grillismo e dei peggiori “ismi” della storia.
Consulta il profilo Who is Who di Enrico Manca
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