La Rai che non vedrai. Un libro per riflettere sui perché della crisi del modello di servizio pubblico

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La Rai che non vedrai

Il pregio di un buon libro è anche quello di suscitare nel lettore interrogativi e suggestioni. È quanto accade leggendo il libro La Rai che non vedrai (2007, Franco Angeli) di Elio Matarazzo, nel quale compaiono contributi di più studiosi.

 

Il primo interrogativo posto riguarda l’oggetto stesso dell’attività televisiva.

 

L’attività televisiva si estrinseca nell’ideare programmi, produrli, e proporli al pubblico nelle collocazioni ritenute più pertinenti, oppure nell’offrire al proprio pubblico di riferimento, scelto secondo specifici parametri di convenienza commerciale/pubblicitaria, i programmi acquistati prevalentemente all’esterno, fra le tante società di format e di produzione?

 

Il tema della scelta fra make or buy è quanto mai delicato, ed è affrontato nel libro con la solita lucidità e competenza da Luigi Mattucci. Viste le tendenze oggi dominanti non sarebbe difficile rispondere al quesito: al momento appare più conveniente l’acquisto dall’esterno, come è confermato dalla scelta di quasi tutte le imprese televisive. Ma tutte le imprese televisive sono uguali? Il servizio pubblico è diverso, innanzitutto nella sua programmazione, dalle imprese commerciali con le quali peraltro compete, se così non fosse non avrebbe senso di esistere. Ma si dirà che anche il servizio pubblico è un’impresa e quindi deve adattarsi ai classici parametri dell’economia aziendale, come la ricerca dell’economicità, della massima produttività e così via. No, non è così: il servizio pubblico è un’impresa che deve rispettare i parametri di efficienza tipici di qualsiasi azienda, ma è innanzitutto un’impresa culturale che deve rivolgersi al grande pubblico e questo le dà una specificità spesso sottovalutata. La economicità della gestione deve essere quindi riposta in un’offerta del tutto particolare, in un’offerta nella quale deve eccellere per qualità. Bisogna ricordare che il servizio pubblico completa, proprio per la qualità dell’intera sua programmazione, una domanda di televisione che la sola iniziativa privata non può esaudire.

 

Le difficoltà attuali del servizio pubblico, difficoltà presenti peraltro in tutti i Paesi europei, nascono dal fatto che il modello del suo “glorioso” passato si è come dissolto ed è nel contempo improponibile (essendo radicalmente cambiati il contesto e gli oggetti della comunicazione audiovisiva), mentre ha difficoltà ad affermarsi il nuovo. Difficoltà che nascono anche dal fatto che il sistema televisivo nel suo complesso è attraversato da diverse mutazioni che lo sottopongono a continue tensioni: ad esempio, le tecnologie creano nel mercato una turbolenza continua e nel contempo non è ancora chiaro l’approdo della tv del futuro; il pubblico televisivo è divenuto più esperto ed esigente, al punto che la tv generalista vede ridurre le sue quote di mercato a vantaggio dalla televisione a pagamento; nel contempo le dinamiche delle risorse vedono la pubblicità manifestare preoccupanti segni di stasi.

 

Il libro di Elio Matarazzo tratta dei modelli organizzativi del servizio pubblico, ne fa un interessante excursus storico e propone idee per il rilancio dello stesso servizio pubblico. In alcuni casi sono progetti “datati”, ma pur sempre attuali ed interessanti, in diversi casi sono elaborati con il contributo di un gruppo di manager ed intellettuali che hanno fatto la “storia” del servizio pubblico (come ad esempio Stefano Munafò, Giovanni Tantillo, Mauro Gobbini, ed il già citato Luigi Mattucci). Va anche segnalato che il libro si arricchisce della prefazione di un esperto del settore come Enrico Menduni.

 

Il libro affronta prevalentemente le questioni legate all’assetto del servizio pubblico. Un assetto che dovrebbe per un verso allentare la “presa” del potere politico sugli aspetti prettamente gestionali e nel contempo rafforzare i poteri di indirizzo del Parlamento sugli aspetti editoriali, in particolare per quanto riguarda il segmento dell’informazione. La tesi scelta dal libro è il modello della fondazione, una sorta di intercapedine fra l’azienda pubblica ed il sistema dei partiti politici. Un modello scelto fra l’altro dal Ministro Gentiloni nella sua proposta di riforma del servizio pubblico. Nel libro si sostiene a ragione che “un criterio di nomina del vertice aziendale dovrà assicurare all’azienda autonomia sostanziale rispetto ai condizionamenti del mondo politico, senza tuttavia cadere nella trappola conservatrice di una tecnostruttura (o burocrazia) autoreferenziale, che tende a configurarsi come parte di un sistema di potere politico-industriale preoccupato in primo luogo di difendere e perpetuare se stesso”.

 

Questi argomenti sollecitano alcune considerazioni di carattere generale sul nesso fra organizzazione e finalità aziendali.

 

In varie interviste, l’amministratore delegato della FIAT, Sergio Marchionne, ha rilevato che il rilancio della sua azienda è stato determinato dall’aver posto l’auto al centro delle strategie aziendali. Sembrerebbe un fatto strano, ma molto spesso capita che nelle aziende venga sottovalutata l’attività originaria a vantaggio della pura e semplice espansione nei mercati più o meno limitrofi. Quante volte abbiamo sentito presunti strateghi aziendali sostenere che i programmi per una televisione sono solo fattori accessori in quanto il pubblico si affeziona alla rete a prescindere dalla qualità della programmazione, mentre sono decisivi il palinsesto, il marketing e soprattutto l’apertura verso altri mercati? In linea con questa logica c’è stata una sorta di “finanziarizzazione” delle imprese televisive nella (sciagurata) convinzione che valesse di più l’aspetto finanziario rispetto a quello industriale, nella convinzione che il pubblico è alla fin fine abituato ad accontentarsi di qualsiasi tipo offerta.

 

È così che un’azienda si avvia al declino!

 

Non ci si dovrebbe mai dimenticare che la televisione è innanzitutto ideazione e produzione di programmi. La televisione è fatta da persone ed è rivolta a tantissime altre persone. Noi potremmo immaginare qualsiasi modello organizzativo, potremmo copiare quello che nel mondo appare il più razionale (che quasi sempre è quello della “mitica” BBC), potremo adottare il modello a “matrice”, oppure un modello divisionale, oppure un modello che suddivide l’azienda sulla base dei principali macrogeneri, oppure un modello frammentato in tante isole (società autonome) comunicanti fra loro (impresa a rete), oppure quello di una azienda fortemente accentrata, ma poi non si uscirebbe mai dalla fondamentale realtà che è solo la capacità creativa e produttiva a “fare” una buona televisione. In particolare in questa fase dove il pubblico televisivo è divenuto più esigente.

 

Il modello organizzativo più efficiente è quello che favorisce l’affermazione dei migliori talenti e che si mette a disposizione delle finalità dell’azienda.

 

In un’impresa editoriale, è l’organizzazione che deve valorizzare le professionalità creative e produttive! Un’azienda editoriale non può vivere solo di “piani industriali”, ma prevalentemente di “progetti editoriali”.

Durante l’estate 2007 si è sviluppato sui principali quotidiani un interessante dibattito sulla difficoltà nel nostro paese di raccontarsi, data la crisi del nostro cinema d’autore. Siamo un paese che ha la Ferrari e la Ducati, aziende che tutto il mondo ci invidiano, ma che poi perde quote nel campo delle produzioni artistiche e culturali. Per quali motivi? Il discorso è complesso e andrebbe affrontato con le competenze adeguate. Penso però che una delle cause vada ricercata anche nella incapacità e/o nell’impossibilità delle strutture di comando dell’industria cinematografica di aprirsi al nuovo. Lo stesso accade nel sistema televisivo. Qui si ha difficoltà ad aprirsi alla società per cogliere gli effettivi bisogni del pubblico e per ricercare le nuove tendenze ed i nuovi talenti. Un limite della televisione attuale è infatti la chiusura alla sperimentazione, la ricerca di nuovi talenti, è proprio la ripetitività dei programmi e l’omologazione fra le reti e soprattutto fra i modelli televisivi. Il “già visto”, i soliti programmi  ed i soliti volti sono il limite della tivù di oggi. Ed è il servizio pubblico che dovrebbe sconfiggere questi handicap. Si avverte sempre più il bisogno di una tivù che sorprenda il suo pubblico con programmi nuovi ed innovativi, con programmi che facciano pensare. Per questi compiti è necessario un modello organizzativo quanto mai aperto nelle sue dinamiche interne, aperto alla società, e sensibile al nuovo, alla sperimentazione, senza nel contempo dimenticare l’efficiente tipica dell’impresa.

 

L’organizzazione deve anche coniugarsi con le finalità dell’azienda. Quali dovrebbero essere le finalità del servizio pubblico? Nel libro Carlo Freccero, dopo aver ricordato l’importanza della diretta per la televisione in generale, afferma che “fare cultura a livello di massa è oggi possibile, si tratta di trasformare l’operazione culturale in evento”. Sempre più si percepisce la difficoltà per una grande rete nazionale di mantenere i suoi elevati ascolti medi nell’arco di tutti i giorni: l’ascolto di una rete è diventato come l’andamento di un titolo azionario molto volatile, con alti e bassi ascolti che si alternano continuamente. È la tesi sostenuta anche da un manager importante della tivù come Pier Silvio Berlusconi in recenti interviste. Su questa linea si colloca la scelta di alcuni capaci dirigenti pubblici di dare spazio alla televisione per eventi, modello che potrà costituire la televisione del futuro (programmi del genere sono stati, ad esempio, Il Purgatorio di Benigni, gli speciali di Adriano Celentano e di Gianni Morandi, il Vajont di Marco Paolini ed altri). I programmi televisivi piacciono se si fanno piacere! Ecco allora il compito della tivù moderna: creare le aspettative, le attese per i grandi appuntamenti (che per loro natura possono occupare spazi contenuti del palinsesto) che sappiano veramente appagare le aspettative del pubblico.

 

Sull’evento mediatico o televisivo, sulla “creazione” di questi eventi, sul maggiore sfruttamento della diretta, si giocherà il futuro della moderna televisione. Il servizio pubblico ha inoltre l’onere di coniugare queste leve con linguaggi e contenuti di spessore culturale (qui il termine “cultura” è inteso non come specifici generi televisivi, ma come cura particolare dei contenuti e dei linguaggi di ogni programma di qualsiasi genere); in sostanza si tratta di fare ciò che comunemente chiamiamo “buona televisione”. Qualcuno ribatterà che la “cultura” “non fa mercato”, dimenticando i tanti esempi che indicano il contrario. È per questo che il compito del management del servizio pubblico è quanto mai gravoso ed impegnativo, richiede competenze e passioni del tutto particolari e richiede un adeguato modello organizzativo per smentire questa diceria, che purtroppo ha ancora molti sostenitori.

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