Cina
Le potenze occidentali avrebbero utilizzato internet per trafugare informazioni classificate come ‘segreti di Stato’ al governo di Pechino, che replica così alle accuse di violazione dei sistemi informatici rivoltegli nelle scorse settimane da Francia, Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Secondo il vice ministro per l’Informazione Lou Qinjian, la Cina sarebbe stata vittima di una campagna sovversiva messa in atto dall’occidente e sarebbe dunque necessario rafforzare i controlli censori sulla rete – pratica peraltro in cui la Cina sembra già non avere rivali – attraverso nuovi enti di sicurezza ad hoc.
Pur non facendo alcun riferimento ai recenti episodi che hanno visto Pechino sul banco degli imputati per presunte violazioni dei sistemi informatici del Pentagono e di altre sedi strategiche europee, il vice ministro ha sottolineato che “internet è ormai diventato il maggiore canale tecnologico per le attività di spionaggio esterno contro i nostri centri vitali”.
Ma le accuse non si fermano qui, perché come riferito a un quotidiano locale, “negli ultimi anni, il Partito, il governo, gli organi militari, della difesa e della ricerca scientifica hanno riscontrato gravi casi di perdita, furto e fuoriuscita di segreti, con un danno considerevole per gli interessi nazionali”.
Il vice ministro non ha citato alcun esempio specifico a supporto delle sue tesi, ma ha nominato quello che sarebbe il pericolo numero uno, gli Stati Uniti, che con altre “potenze ostili” starebbe sfruttando i punti deboli delle reti informatiche cinesi e la propria supremazia in ambito tecnologico per utilizzare internet per effettuare “infiltrazione politiche”.
Incursioni agevolate, dice ancora Lou Qinjian, dalle ‘back door‘ di cui sono dotate tutti prodotti tecnologici importati dagli Usa, che quindi consentono agilmente di rubare segreti.
Circostanza peraltro negata dalle aziende americane, anche se è inconfutabile che la gran parte delle tecnologie usate dal governo di Pechino per filtrare e controllare i contenuti della rete sono prodotte negli States.
Per evitare ulteriori inconvenienti, propone dunque il vice ministro cinese, c’è bisogno di un approccio unitario al problema, con una nuova agenzia che si occupi di analizzare le implicazioni sulla sicurezza informatica derivanti dall’utilizzo di tecnologie straniere.
L’agenzia di screening risolverebbe “le questioni legate alla sicurezza informatica dei maggiori investimenti stranieri, delle fusioni e acquisizioni, dei prodotti e servizi ad alta tecnologia e della cooperazione internazionale in ambito scientifico e tecnologico”.
Non è mancato, ovviamente, l’accenno a nuovo politiche per incoraggiare la Cina a produrre e acquistare più tecnologie di sicurezza prodotte in loco.
Secondo l’ultimo rapporto del Centro d’informazione cinese su Internet (CNNIC), la Cina conta circa 140 milioni di internauti, “corrotti da contenuti degenerati e retrogradi”, ha sottolineato ancora Lou. Per questo è urgente imporre sulla rete una censura ancora più ferrea di quella esercitata finora.
Non è un segreto infatti che il governo cinese, pur incoraggiando l’uso di Internet come strumento di business, impedisce agli utenti di accedere a informazioni relative a temi ritenuti scomodi, quali la democrazia, i diritti umani, l’indipendenza del Tibet o il movimento religioso del Falun Gong.
Chi non rispetta queste imposizioni, rischia il carcere con l’accusa di incitamento alla sovversione.
Secondo un rapporto redatto da tre università anglosassoni, la Cina impiega migliaia di persone in un sistema di censura “onnipresente, sofisticato ed efficace” e dispone di “sistemi di sorveglianza tecnologica e giuridica e di censura su Internet tra i più sviluppati ed efficienti al mondo”.
Sistemi che hanno portato alla chiusura di migliaia di Internet Cafè e all’arresto di migliaia di persone ritenute “dissidenti” o “pericolose”, ma anche ad obblighi di censura per le società occidentali che vogliono mantenere la propria attività nel Paese.
Negli ultimi tempi, ha fatto molto discutere il caso Yahoo!. Il popolare portale Web, attenendosi alle leggi del Paese, avrebbe infatti rivelato alle autorità il nome di un presunto cyberdissidente, Shi Tao, condannato grazie alla presunta collaborazione della società, a 10 anni di prigione per aver diffuso sul web informazioni ritenute “segreti di Stato” dal governo di Pechino.
Il documento diffuso da Shi Tao conteneva una nota interna trasmessa alla sua redazione dalle autorità per mettere in guardia i giornalisti contro la destabilizzazione sociale e i rischi legati al ritorno di alcuni dissidenti in occasione del 15° anniversario del massacro di piazza Tiananmen.
Yahoo, come del resto molti big player della Rete, ha accettato di censurare la versione cinese del proprio sito per non incorrere nelle ire del governo, ragion per cui, se si digitano sul motore di ricerca parole come “libertà”, “democrazia”, “indipendenza di Taiwan”, i risultati saranno nulli o accuratamente selezionati.
Del resto, business is business e le web company non vogliono rinunciare a una fetta dell’immenso mercato, secondo solo agli Stati Uniti, dal momento che l’unica alternativa al mancato rispetto delle imposizioni del governo è quella di abbandonare il Paese, cosa che non sarebbe certo di aiuto agli utenti cinesi.