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Comunicazione anno zero? Forse.
Quel mix di pensiero laterale, creatività e ricerca che avrebbe potuto siglare grandi performance negli scorsi anni non sarà più sufficiente: il raggio di visione di chi opera nella comunicazione si deve allargare di molto oltre il 360° mentali.
E sui nuovi concept di visione della comunicazione contrassegnati in modo generico dalla fortunata sigla “2.0“ si è ormai ampiamente dibattuto su tutti i media, mentre poco si è parlato di sostenibilità della ‘filiera della comunicazione’.
Ecco un argomento ancora da sviluppare e comprendere. Nel vasto numero di aspetti esaminati sull’onda delle preoccupazioni suscitate dalla recente ricerca dell’ Ipcc – organo dell’ONU, ci si è scordati dell’aspetto comunicazionale.
Sullo “sviluppo sostenibile della comunicazione” (il termine “sviluppo sostenibile” è ormai parte del linguaggio comune, ad iniziare dalla Conferenza per l’ambiente di Rio de Janeiro del 1992) poco si è dibattuto.
Proviamo ad accostarci al problema: la comunicazione dovrà fare i conti in modo sostanziale con una visione eco-oriented e su questa necessità si dovrà plasmare il modo di progettare e di creare delle aziende e della agenzie, ma, più in profondità, la concezione di comunicazione ‘sostenibile’ vede il meccanismo stesso del comunicare al centro del cambiamento: produrre comunicazioni errate non solo disorienta l’utente finale che fatica a comprendere, come anche l’investitore che non ne trae profitto o il comunicatore che ne diventa il frustrato artefice negativo, ma produce un inquinamento comunicazionale ‘ambientale’, una ‘Adv Pollution‘ con effetti negativi a cascata.
Si potrà parlare di “comunicazione sostenibile” quando ad un progettare olistico si assommerà una metodologia comunicazionale essenziale al suo scopo: mettere in condivisione un’idea senza creare “rumore di fondo”.
Ecco allora il punto di partenza: conoscere meglio i meccanismi mentali dell’utente per progettare e realizzare un percorso virtuoso a partire dalle radici del processo attraverso metodologie di ricerca innovative.
Ma se la “filiera della comunicazione” fosse intesa come un lungo ‘condotto’, la necessità che tutte le giunture possano garantire il flusso corretto del materiale trasportato diverrebbe obbligatoria. Ma è così? La neonata Scienza della Comunicazione ci offre certezze su questo versante? La risposta mi sembra ovvia ed è negativa.
La frammentazione dei vari momenti della comunicazione e la loro impermeabilità al reciproco confronto – vedi la strategie web che, tolto rare eccezioni, danno vita ad un brand diverso da quello ‘rap-presentato’ nella strategia tradizionale, vedi le campagne di advertising televisivo che non trovano riscontro (neppure ‘laterale’) negli interventi sul punto vendita, o i codici colore di un packaging che stridono con quelli usati nel below the line – non fanno certamente ben sperare.
Se si aggiunge che il perverso meccanismo delle gare ha addirittura frammentato la visione anche all’interno di un medesimo comparto, direi che il quadro risulta completo.
Quante sono le aziende che presentano una ‘filiera comunicazionale’ coerente a partire dal motivo musicale della segreteria telefonica sino all’advertising o alle interactive actions online?
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