Europa
“Del maiale – si dice in Italia con saggezza paesana – non si butta via niente”; ancora: “tutto fa brodo”. Non viene in mente a chi scrive una efficace traduzione di queste due perle dell’Italopensiero nella lingua di Shakespeare, ma come riflessi logici, vengono entrambe perfettamente interpretate tutti i giorni dai media cosiddetti anglosassoni. Una delle prime cose che ti insegnano, come aspirante giornalista inglese, americano, irlandese, australiano, canadese, neozelandese, indiano, sudafricano, è che “context is everything“, cioè che stabilendo il giusto contesto per una notizia, le si può dare un valore “newsworthy“, cioè valido per la pubblicazione.
Nel vecchio canone giornalistico che ci veniva inculcato, era d’obbligo inserire le risposte informative alle domande ideali who, why, what, when, where (chi, perché, cosa, quando e dove) nel primo paragrafo, pur di comunicare da subito il contesto della notizia, in modo semplice ma concreto.
In base alla diversa storia culturale dei Paesi anglosassoni (rispetto a buona parte di quelli dell’Europa continentale), dovuta al profondo impatto della Riforma luterana e allo sviluppo del codice etico protestante, esistono molte classi di notizie considerate “volgari“, “invadenti” o “inammissibili” in altre culture, che invece hanno un senso (purché abbiano un chiaro contesto) per il lettore.
Sesso e Scandali
L’esempio classico è quello dello scandalo sessuale che coinvolge persone importanti. La severa impostazione protestante che una volta informava l’Establishment delle culture anglosassoni, abbinata a una nitidissima indipendenza editoriale rispetto al potere politico, rendeva non solo possibile, ma anche auspicabile, la pubblicazione di molte notizie “indiscrete”, notizie che non sarebbero mai state pubblicate in un Paese cattolico, come per esempio l’Italia. Negli anni Sessanta, in Inghilterra, scoppiò il caso Profumo, con mille dettagli triviali e peccaminosi finiti sui giornali, non solo perché l’allora ministro della Guerra del governo tory se la faceva con una ragazza squillo amante di una spia russa, ma anche perché Jack Profumo aveva mentito in Parlamento, peccato cardinale per i Paesi di tradizione anglosassone.
Con il declino della deferenza sociale e l’ascesa di una nuova classe di editori, la tendenza di “sbattere il ministro in mutande (meglio se calate) in prima pagina” è cresciuta in modo esponenziale; negli anni Novanta, l’ultimo governo tory del premier John Major è stato più volte mortificato (o, se si preferisce, “sputtanato”) dalla pubblicazione di notizie, e persino foto, di alcuni suoi esponenti coinvolti in amplessi irregolari e spesso altamente originali. L’imbarazzo della famiglia e della fidanzata (tuttora deputata dello stesso partito) del parlamentare tory Stephen Milligan – fu trovato nel 1994 morto dopo un atto di ‘auto-asfissia erotica’, vestito in calzamaglia da donna, legato ai polsi e con un’arancia in bocca – fu notevole e penoso da guardare, ma il contesto politico (il governo Major che cercava di rilanciare la morale pubblica con la campagna ‘Back to Basics’) giustificava pienamente la pubblicazione di tutti i dettagli, per quanto triviali e morbosi.
Rigore Liberal
Sarebbe stato ridicolo, e squalificante per le testate vicine al governo tory se solo i giornali londinesi di sinistra avessero pubblicato tutto sul caso Milligan: il rigore giornalistico lo impose a tutti. Come nell’America del caso Clinton-Lewinsky: per il New York Times, testata orgogliosamente liberal, sarebbe stato catastrofico non pubblicare i piccanti particolari delle macchie dello sperma presidenziale sul vestitino della stagista voluttuosa dai capelli corvini. Non si trattava di una questione di “buon gusto”, ma di fornire le informazioni più complete possibili su un caso bizzarro, che interessava i lettori americani, di ogni status sociale, gruppo demografico e lealtà politica. Un compito che spetta alle testate ‘quality’ quanto a quelle ‘tabloid’, magari variando un pochino la scelta lessicale. Un’autocensura sul caso Clinton, o sul caso Milligan, o sul caso Profumo, pur di “non pescare nella pattumiera delle notizie trash” avrebbe tolto al NYT, al Times di Londra o alla BBC il prestigio professionale che loro gelosamente custodiscono, e che a certi rivali di altre nazioni, lingue e riflessi culturali, ogni tanto invidia.
Accade a Fleet Street
Del maiale, dicevamo, non si butta niente: quando un qualsiasi direttore di Fleet Street (la storica via delle sedi editoriali londinesi) riceve una notizia piccante e “scandalosa” su una qualsiasi persona, di qualsiasi parte sociale o politica, se non trova il giusto contesto o ‘hook’ al quale ‘agganciarla’ per l’immediata pubblicazione, mica la butta; la tiene nel cassetto fino a quando il giusto contesto – un momento più politicamente opportuno – non si presenti. Con qualche variazione nazionale, in tutte le culture anglosassoni, prevale sempre il ‘diritto di sapere‘ del pubblico, al di sopra del ‘diritto alla privacy‘ di questo o quell’altro vip. Nei Paesi ‘continentali’ esistono leggi sulla privacy; in quelli anglofoni, no.
‘Publish and be damned‘; pubblicate comunque e al diavolo con le conseguenze, è il vecchio motto che risale alla fine del Seicento. E se si tratta di una notizia sulla quale una certa lobby ha cercato di essere reticente, o di esercitare una censura, allora la validità del famoso ‘contesto’ aumenta in modo esponenziale. Il senso giornalistico di fairplay, tradotto in termini concreti dai direttori anglofoni, è che il privilegio della reticenza o della discrezione rispetto ad una notizia imbarazzante non può esistere, e se esiste, va sfidato e possibilmente abbattuto. Basta pensare alle vicende del principe Carlo, oppure della defunta principessa Diana. Secondo l’etica democratica del giornalismo anglosassone, nessuno può pensare di essere al di sopra della notizia: Buckingham Palace non ha mai osato sfidare questa regola, anche nei momenti più imbarazzanti.
Risultato?
La monarchia britannica continua a convivere, senza grossi problemi, con la stampa di Fleet Street.
Consulta il profilo Who is who di William Ward.