Censura: cresce il numero di Paesi che imita la Cina. L’allarme di OpenNet

di Alessandra Talarico |

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Censura

La censura internet sta evolvendo e allargando la sua portata, praticata da almeno due dozzine di Paesi e applicata a un numero sempre maggiore di informazioni e applicazioni.

È quanto denuncia l’iniziativa OpenNet (ONi), nata con la missione di investigare e denunciare l’uso di tecnologie di filtro e metodi di sorveglianza applicati con scopi censori al web.

 

La soglia di attenzione dell’associazione è salita in seguito alla decisione di una corte turca di bloccare il sito YouTube nel Paese per mettere un freno a commenti ritenuti offensivi nei confronti di Mustafa Kemal Ataturk, fondatore della Repubblica turca. Una decisione che secondo ONi rappresenta “l’attacco più visibile a un sito mai adottato nel mondo”.

 

A fare da modello, ovviamente, la Cina, dotata di uno dei sistemi di sorveglianza del web più estesi e costosi al mondo, costruito con l’aiuto delle tecnologie di molte aziende occidentali.

Anche la censura, insomma, ha messo in piedi una serie di ‘best practice’ che vengono imitate e richieste.

 

L’iniziativa OpenNet – realizzata dalla Harvard Law School e dalle Università di Toronto, Cambridge e Oxford – ha analizzato per sei mesi la situazione in 40 Paesi, giungendo a conclusione che anche in molti posti ‘insospettabili’ la censura viene utilizzata, eccome.

 

Sì è notata, anzi, una certa ‘inversione di tendenza’ con molti Paesi che hanno introdotto da poco sofisticati sistemi di sorveglianza. Negli Stati Uniti, ad esempio, secondo il dipartimento di giustizia, l’FBI avrebbe abusato del Patriot Act (varato all’indomani dell’11 settembre per contrastare il terrorismo) per collezionare in maniera del tutto illegale informazioni riservate di decine di migliaia di cittadini.

 

Secondo Ronald Deibert, professore associato di scienze politiche all’Università di Toronto, almeno 10 Paesi si possono identificare come ‘pervasive blocker’, provvedendo regolarmente a impedire ai cittadini di visitare una vasta gamma di informazioni online. Tra questi: Cina, Iran, Arabia Saudita, Tunisia, Burma Myanmar e Uzbekistan.

 

Alle tecniche tradizionali di controllo si aggiungono inoltre nuove forme di censura, quali ad esempio, il blocco completo di intere applicazioni – in Cina è successo con Wikipedia, in Pakistan col servizio blog di Google – e l’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate come il filtro delle keyword, usato per bloccare l’accesso a determinate informazioni identificando termini ‘sensibili’.

 

Secondo i dati di Reporters sans Frontierès, sono 59 i cyberdissidenti arrestati per le loro attività su internet. I gruppi a difesa dei diritti umani hanno spesso accusato le web company di collaborazionismo, come nel caso dell’arresto dello scrittore cinese Shi Tao, condannato grazie alla presunta collaborazione di Yahoo!, a 10 anni di prigione per aver diffuso sul web informazioni ritenute “segreti di Stato” dal governo di Pechino.  

 

Yahoo, come del resto molti big player della Rete, ha accettato di censurare la versione cinese del proprio sito per non incorrere nelle ire del governo di Pechino, ragion per cui, se si digitano sul motore di ricerca parole come “libertà”, “democrazia”, “indipendenza di Taiwan”, i risultati saranno nulli o accuratamente selezionati.

 

Anche Google – che invece negli Usa difende strenuamente i diritti di riservatezza e libertà degli internauti – ha ceduto alle pressioni dei regimi repressivi come la Cina ed è stata per questo accusata di sostenere la politica del ‘due pesi due misure’.  

Il gruppo si è difeso ammettendo che la stessa politica di accondiscendenza ai dettami governativi è applicata anche in Europa e negli Stati Uniti, che impongono limitazioni all’accesso a informazioni relative al nazismo e alla pedopornografia. Si tratta, però, di cose ben diverse e richieste da governi non certo repressivi.

 

Le società internet, più recentemente, hanno cercato di smorzare le polemiche avviando forme di cooperazione con le associazioni a difesa dei diritti umani e della libertà di stampa per realizzare un codice di condotta atto a proteggere la libertà di espressione e la privacy dei loro utenti, dopo il discusso caso della condanna a 4 anni di prigione del blogger egiziano Abdel Kareem Nabil Suleiman (“Kareem Amer“), 22 anni, accusato di aver postato commenti incitanti all’odio contro l’Islam e di aver insultato il presidente Hosni Moubarak sul suo blog.

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