Costi di ricarica nel decreto Bersani: le cose non dette

di di Sandro Frova (Professore ordinario di Finanza Aziendale - Università Bocconi) |

Italia


Sandro Frova

Sul cosiddetto “Decreto Liberalizzazioni” si è svolto un ampio dibattito, che ha toccato anche il punto dei costi di ricarica. Premesso che, a parer mio come di molti altri osservatori indipendenti, i costi di ricarica nulla hanno a che vedere con le liberalizzazioni, osservo che mentre molti hanno cavalcato l’aspetto del “taglio del costo” e del consumerismo, di fatto sinora nessuno ha provato ad immaginare le conseguenze sulle imprese e sulla concorrenza. E’ un discorso certamente scomodo, ma credo doveroso.

 

Parto dall’art. 1 del Decreto Bersani, in cui si stabilisce che “Al fine di favorire la concorrenza e la trasparenza delle tariffe … sono vietati … l’applicazione di costi fissi e di contributi per la ricarica di carte prepagate …”. Dunque due sono gli obiettivi: concorrenza e trasparenza.  

 

Sul secondo, mi pare che la ratio sia chiara e, nell’ottica del consumatore, condivisibile. E anche se si potrebbe discutere sul fatto che il principio della trasparenza portato all’estremo  rischia  di spuntare fortemente l’arma della differenziazione, ovvero una delle armi principali della concorrenza, è innegabile che, soprattutto sui tagli minori, il cliente non è oggi come oggi in grado di farsi un’idea by and large dell’effettivo costo del servizio usufruito. 

 

Ma è sul primo punto – la concorrenza – che, a mio parere, si dovrebbe soffermare maggiormente l’attenzione, anche e soprattutto alla luce del distorto impatto mediatico conseguente ai commenti sui mezzi di comunicazione. Provo a spiegarmi in breve: giornali e TV hanno dato enorme risalto al tema costi di ricarica, ben sapendo che si tratta di una voce di spesa che tocca di fatto quasi tutte le famiglie; quasi tutti, però, hanno trattato l’argomento dando implicitamente per scontato che i costi di ricarica, e dunque i famosi 1,7 miliardi di euro annui, spariranno; e lo stesso Ministro proponente, dichiarando che 1,5 miliardi di euro sono “bazzecole”, pare dar credito a questa interpretazione. In altri termini, mi sembra che il tono del dibattito abbia ingenerato nella gente comune la convinzione che quei costi spariranno dalla spesa telefonica, quasi come se si fosse trattato di una tassa iniqua.  Non ho idea se, dal punto di vista dei flussi monetari in entrata, alla fine i costi di ricarica spariranno del tutto, in parte o per nulla dai fatturati delle imprese; in altri termini, non sappiamo se saranno compensati dall’aumento di altre voci della spesa telefonica. Ritengo però utile commentare qualche numero e trarne alcune semplici indicazioni in termini di concorrenza, ovvero nei termini di uno dei due obiettivi indicati nel decreto.

 

La figura 1 ci fornisce in grande sintesi i “numeri” del settore della telefonia mobile in Italia a fine 2005; per inciso, si tenga presente che la tendenza 2006 ed anche quella  2007, a prescindere dal decreto di cui stiamo discutendo, è di una diminuzione dell’incidenza dell’EBITDA sul fatturato di settore. A fronte di poco più di 10 miliardi di euro di margine operativo lordo (EBITDA), il flusso di cassa della gestione operativa (ovvero le risorse finanziarie che effettivamente rimangono a disposizione delle imprese, dopo aver effettuato gli investimenti a pagato le tasse, per remunerare il capitale investito e per pagare gli oneri finanziari sull’indebitamento) è di circa 4,7 miliardi di euro. Si tratta ovviamente di cifre importanti, ma sono importanti anche i capitali che il sistema investe -sotto forma di equity e di debito- nella telefonia mobile. Ecco che allora possiamo interrogarci sull’impatto di una eventuale, parziale o totale, evaporazione dei costi di ricarica dai ricavi complessivi del settore.

 

Se  gli 1,7 miliardi di fatturato sparissero del tutto, il flusso di cassa di settore scenderebbe (nell’ipotesi 2005) a circa 3 miliardi di euro. Una simulazione semplificatissima, con numeri che servono unicamente a dare un’idea delle implicazioni economico/finanziarie del decreto, indica che -in tal caso-  ipotizzando per le imprese del settore un valore complessivo equity + debito di 75 miliardi di euro, il costo/rendimento medio ponderato del capitale (WACC) sarebbe, sempre nella media del settore, del 4%. Ma chi investirebbe capitali di rischio ad un rendimento del 4%? Se invece le entrate da costi di ricarica non sparissero per nulla, il costo/rendimento del capitale sarebbe circa del 7%, una cifra certamente più realistica (a livello di settore) e, fatto non irrilevante, più coerente con le aspettative dei mercati finanziari.

 

Questo esercizio “banalizzato” – gli esperti di finanza e valutazione di azienda mi vorranno perdonare- mi serve per giungere ad una prima conclusione: se l’abolizione dei costi di ricarica  si tradurrà, nell’insieme, in una corrispondente diminuzione della spesa dei consumatori e del fatturato del settore, allora avremo un vero e proprio tracollo del valore delle imprese; a meno di immaginare -ma questo non sarebbe ovviamente negli obiettivi del Decreto Bersani- una feroce sforbiciata agli investimenti e/o l’avvio di una nuova stagione di “razionalizzazione” dei costi (a partire dal lavoro) che il settore, in effetti ancora giovane, per sua fortuna non ha ancora avuto il piacere di conoscere.

 

Dunque, delle due l’una: o le imprese “ribaltano” sui nuovi piani tariffari – conseguenti all’entrata in vigore del Decreto Bersani –  tutti o una parte importante dei ricavi derivanti dagli ex costi di ricarica (per inciso, non è che dopo l’Antitrust le accusa di comportamenti collusivi?); oppure, se per qualsiasi motivo, anche populistico, i flussi di cassa delle imprese verranno tagliati in modo secco, potremmo assistere ad un processo di consolidamento del settore derivante dalla probabile insostenibilità economico/finanziaria del business per gli attori più deboli.  Torno allora alla prima riga dell’art. 1 del decreto “Al fine di favorire la concorrenza… “: siamo proprio sicuri?  

 

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