Unione Europea
Sulla DSMA: non limitarsi alle norme sulla pubblicità
La prima lettura da parte del Parlamento europeo della proposta di revisione della direttiva 89/552/CEE, aggiornata ma non nella sostanza dalla 97/36/CE, ha suscitato grande clamore soprattutto per gli aspetti legati alla pubblicità, ammessa in quantità di gran lunga superiori e in forme finora inedite. Sarebbe, però, errato non dare uno sguardo anche ad altri passaggi, non privi di importanza, ed è opportuno farlo ora, nella fase di attesa della seconda lettura di una direttiva destinata a cambiar nome e filosofia: infatti il nuovo testo ha l’ambizione di coprire ogni servizio audiovisivo e sarà etichettato con la sigla impronunciabile DSMA (Direttiva Servizi di Media Audiovisivi).
Non era affatto scontato che la Commissione riuscisse a raggiungere un accordo teso ad allargare il campo d’applicazione fino a ricomprendere non solo i servizi simili a quelli televisivi (tv-like) ma la produzione audiovisiva in quanto tale e in quanto servizio, ovviamente. Ci sono state forti opposizioni a questo che molti ritenevano un travalicamento o una rischiosa invasione di campo. I fornitori di servizi e gli operatori delle reti preferiscono essere, tendenzialmente esentati da ogni obbligo. Questa dilatazione è foriera di implicazioni rilevanti: se i principi di natura etica applicabili all’intero panorama dell’audiovisivo trasmesso dalle emittenti o diffuso dalle reti saranno considerati acqua fresca il riflesso di questa novità sarà nullo. Se saranno presi sul serio e ben tradotti in appropriati strumenti legislativi il passo avanti sarà tutt’altro che banale.
Il testo votato da un Parlamento che non si è impegnato per cambiare in profondità il progetto di partenza esige un vaglio minuzioso dei 135 emendamenti adottati, anche in quei punti meno pregnanti che magari si limitano a segnalare inquietudini e velleità, più che precisi obiettivi e volontà chiare. Sono da registrare, ad esempio, se non altro come manifestazioni di fondate e ricorrenti intenzioni tutti quei passaggi che hanno inserito nel testo richiami alla tutela del pluralismo e al rafforzamento del diritto d’accesso. Ad esempio al considerando 4 si è aggiunto un enunciato in sé di peso: Per assicurare la trasparenza e la prevedibilità sui mercati dei media e abbassare le barriere d’accesso, occorre rispettare i principi fondamentali del mercato comune, come le norme sulla concorrenza e la parità di trattamento, tenendo conto dell’importanza di condizioni omogenee e di un autentico mercato europeo della radiodiffusione. Insieme a questa esaltazione di una concorrenzialità che escluda sul serio posizioni dominanti, numerosi sono i passi che rilanciano il problema del pluralismo, che finora non ha riscosso l’interesse necessario. Basterà ricordare un considerando immesso di sana pianta, il nuovo 47 bis: “Le diversità culturale, la libertà di espressione e il pluralismo dei mezzi di comunicazione sono elementi importanti del settore audiovisivo europeo e rappresentano quindi condizioni indispensabili per la democrazia e il pluralismo”.
Ma il concetto così controverso e cruciale di pluralismo non è relegato solo nel campo dei considerando, che tradizionalmente omaggiano le buone intenzioni. Nell’articolato riemerge in due articoli fondamentali. Laddove ci si sofferma sui compiti delle Autorità e degli Organismi nazionali di regolamentazione – “che esercitano i loro poteri in modo imparziale e trasparente” – si è aggiunto (em. 148) che spetta loro vigilare su tutte le disposizioni della direttiva, “in particolare di quelle relative alla libertà di espressione, al pluralismo dei media, alla dignità umana, al principi di non discriminazione, alla protezione dei minori, delle persone vulnerabili e disabili”. E, con ulteriore emendamento, si è proposto un nuovo articolo che indica agli Stati membri l’esigenza di promuovere misure, contestualmente al rilascio di concessioni o autorizzazioni, “affinché le emittenti che rientrano nell’ambito della loro giurisdizione riflettano nel complesso il necessario pluralismo dei valori e delle opzioni all’interno della loro società che sono compatibili con i principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
Qualcuno potrà obiettare che, anche se tali disposizioni sopravvivessero nel testo finale, sarebbero destinate a rimanere aria fritta in mancanza di norme regolamentari puntuali e pregnanti. Obiezione pienamente giustificata. È comunque significativo che, poco dopo il dibattito di Strasburgo, Viviane Reding abbia reso noto un primo documento di lavoro della Commissione sul pluralismo dei media in Europa e abbia delineato due tappe successive: uno studio indipendente (da pubblicare entro il 2007) sul grado di pluralismo dei media esistente negli Stati dell’Unione, accompagnato dalla messa a punto di alcuni indici concreti di misurazione e successivamente (nel 2008) una comunicazione della Commissione sugli indici di pluralismo riscontrati quale avvio di un’ampia consultazione pubblica sul da farsi.
Questa ripresa (tardiva) di un confronto portato avanti di malavoglia e a singhiozzo, non va sottaciuta. Anzi sprona a elaborare linee di possibile concretizzazione di una volontà del genere: sono nel vero quanti sostengono che con direttive tipo la prossima DSMA non si può svolgere un’autentica e approfondita azione in favore del pluralismo, neppure di quello relativo alla visibilità di fiction, film e programmi di origine europea. A questo proposito sarà da notare con rammarico che l’obbligo della trasmissione in chiaro di programmi ritenuti di particolare rilevanza sociale e la questione bruciante di una più facile accessibilità ai contenuti da parte dei fruitori e dei gestori delle piattaforme non abbiano conquistato lo spazio che sarebbe opportuno concedere. Resta in piedi la lista degli eventi che ciascun Stato potrà selezionare per favorirne una ricezione non condizionata, ma in aggiunta si prevede solo la possibilità, per le emittenti con sede in altri Stati, di disporre di “brevi estratti di attualità” da impiegare “esclusivamente per i notiziari di carattere generale” aggiunge un emendamento (n. 224) che sa tanti di lobbismo UER. In realtà il tema dell’accesso ai contenuti, nelle sue varie accezioni, campeggia come uno dei punti decisivi sul quale intervenire per evitare posizioni dominanti e incrementare il diritto all’informazione. Su di esso c’è stata reticenza e neppure l’assemblea si è dimostrata sensibile nella misura sperata.
Sulla DSMA: obblighi per i fornitori di servizi audiovisivi
L’impianto della Direttiva Servizi di Media Audiovisivi (DSMA) è costruito in modo che siano enucleabili due ordini di regole. Uno di carattere generale che investe tutti i servizi audiovisivi: vi sono contemplate le norme di natura etica sui programmi e sulla pubblicità , in linea con i testi convenzionali vigenti sul piano internazionale e gli orientamenti via via ribaditi dalla ricca, al riguardo, produzione dello stesso Consiglio d’Europa. E con esso il diritto di replica e altri principi di valenza complessiva.
L’altro ordine è diversificato e diretto specificamente, di volta in volta, alla “radiodiffusione televisiva”, agli organismi che forniscono servizi lineari e/o ai fornitori di servizi audiovisivi non-lineari, perlopiù on line (e non sembri paradossale il bisticcio) su richiesta individuale.
Questo secondo tipo di regole era ed è avversatissimo dagli operatori di rete, dai colossi di telecomunicazione che, in nome della fase iniziale di emersione del mercato di loro pertinenza, considerano ogni regola che riguardi i contenuti un impaccio o una costrizione. Ebbe, se per quanto riguarda le emittenti tradizionali permane la vigenza degli articoli ben noti, per i nuovi servizi compare un articolo, irrobustito dall’intervento parlamentare, che va letto in tutte le sue potenzialità, ancorché insufficienti e vaghe. Già la Commissione con l’art.3 septies aveva richiamato gli Stati all’obbligo di assicurare che i fornitori di servizi di media “promuovano, ove possibile e con i mezzi adeguati, la produzione di opere europee e l’accesso alle stesse“, ma ora il Parlamento ha esemplificato puntigliosamente le forme che questa promozione potrebbe assumere: la messa a disposizione di “un numero minimo di opere europee proporzionale alla resa economica“, “una quota minima di opere europee e di opere europee cerate da produttori indipendenti dalle emittenti nei cataloghi di ‘video su richiesta‘” o “la presentazione attraente” di opere europee nelle guide elettroniche. Evidentemente siamo di fronte a enunciati – ma come tali è difficile che reggeranno al vaglio del Consiglio – che avranno maggiore o minore pregnanza secondo il consenso che su tali misure si formerà tra i soggetti più coinvolti, nelle società e negli Stati che formano l’Unione.
Stranamente – ma non troppo – questo invito, in tutto analogo a quanto disposto dall’art. 4 per le emittenti, non è stato citato, è passato praticamente sotto silenzio. I giornali hanno fatto pubblicità …alla pubblicità e chi fornisce servizi, magari legato ad un’impresa di telecomunicazioni, non aveva e non ha interesse a enfatizzare un tema scomodo.
Inoltre, tra le conquiste provvisorie deve essere inclusa anche la precisazione dei tre criteri ai quali ci si dovrà ispirare per definire la nozione alquanto nebulosa di “produttore indipendente“: “La proprietà e i diritti di proprietà della società di produzione, il numero dei programmi forniti alla stessa emittente e la proprietà dei diritti derivati” (em. 137). La richiesta di pervenire a criteri armonizzanti per una definizione condivisa su scala europea della figura del produttore indipendente era inevasa da anni. Ed il nuovo articolo 6, se resisterà al vaglio del Consiglio nella versione proposta dal Parlamento, sarà un (piccolo) passo in avanti.
Sulla DSMA: le norme sulla pubblicità non sono un dogma
Furiose sono state le polemiche sulle parti della Direttiva Servizi di Media Audiovisivi (DSMA) in tema di pubblicità e in genere di “comunicazioni commerciali“. Non solo è ne stata incrementata a dismisura la quantità, scegliendo il criterio del solo tetto orario – al 20% – limitatamente alle forme brevi (spot veri e propri e spot di televendita), ma si sono accorciati i ritmi delle interruzioni ammissibili e si è legittimato indiscriminatamente il “piazzamento di prodotti” o l'”inserimento di temi” anche nei film cinematografici, “a meno che gli Stati membri decidano altrimenti” (emm. 227 e 133). Erano stati in molti a chiedere che per i “film cinematografici” restassero applicabili i criteri della direttiva 89/552/CEE, che sono poi quelli della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla televisione transfrontaliera: due interruzioni ogni 45 muniti e un’altra eventuale in caso di un prolungamento pari a 20 muniti, come previsto dal vecchio articolo 11, ora completamente sostituito. Senza entrare in dettagli toccando le modalità di calcolo dei tempi, è triste constatare che ha prevalso la logica della pubblicità dilagante indotta dai nuovi servizi. A quanti hanno reclamato che almeno per i film cinematografici fossero prescritti intervalli più riguardosi la risposta prevalente è facile immaginarsela: Se così fosse stabilito, i film desinati in prima battuta alla sala verrebbero penalizzati, perché in televisione ne passerebbero meno di quanti ne passino ora. Da spiegazioni di questo tipo risalta con brutale evidenza che, malgrado i buoni propositi ripetuti fino alla noia, non ci si impegna per costruire normative commisurate alle peculiarità di linguaggio dei vari mezzi.
Una nozione indistinta di “prodotto” audiovisivo finisce per catturare e inglobare anche le opere che chiedono non solo di circolare in maggior quantità e godere di più convinti sostegni, ma di essere rispettate per come sono state concepite, per la creatività che incorporano e per le storie che intendono trasmettere. In nome della comunicazione in quanto affare e del consumismo trionfante si supera ogni freno. Sarà possibile inserire pubblicità ogni 30 minuti. Il bello è che la Commissione aveva proposto, nel nuovo art. 11, 35 minuti. Il Parlamento è stato ancor più lassista, invertendo una linea di contenimento di solito osservata. In questo contesto moltiplicare i principi etici da osservare suona orribilmente moralistico. Quasi un alibi per poi permettere che ogni tipo di messaggio s’inframezzi – per carità, distinguibile! – in ogni tipo di storia. Oltre al danno la beffa: in caso di “inserimento di prodotti”, un segnale ogni venti minuti dovrà avvisare i telespettatori dell’operazione avvenuta. La babele si farà infernale, almeno per le emittenti o i fornitori di servizi che obbediranno ad una logica prevalentemente commerciale. Certo: è possibile rifiutarsi e procedere diversamente. Le norme della direttiva sono criteri-guida che possono essere beneficamente ristretti o resi più rigorosi. Dunque insieme alla rilevazione delle responsabilità europee – se le formulazioni più criticabile rimarranno immutate – c’è ampio (?) spazio per ingaggiare, a livello nazionale, una battaglia che escluda – intanto per il servizio pubblico, che si giova anche del canone – le forme più dannose e/o fastidiose di pubblicità, il loro massivo dilagare, le parossistiche interruzioni senza riguardo alcuno. Sarebbe questo un modo per tutelare davvero il pluralismo e favorire una allocazione più equilibrata tra i vari media della risorsa pubblicità. Per giunta in Italia – è doveroso riconoscerlo – il mercato pubblicitario ha una patologia che spinge a esplicitare queste perplessità con una preoccupazione certamente accresciuta rispetto a quella di altri contesti. L’Unione europea – sarà il caso di ribadire – non sforna ricette buone per tutti allo stesso modo: non offre modelli da recepire pedissequamente, né alibi dietro i quali ripararsi con astuzia. Cogliere quanto di buono e congruo si riuscirà ad ottenere è impresa fattibile, solo che si valuti nel suo insieme un testo che, comunque verrà conclusivamente definita la DSMA, darà luogo a non semplificabili interpretazioni.
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