Italia
Nel 1986, il mercato della televisione in Italia valeva poco meno di 2,5 miliardi di euro. Venti anni dopo il valore del mercato è di circa 6,8 miliardi (7,6 se si considerano gli investimenti pubblicitari lordi e non i ricavi netti delle emittenti). In questo arco temporale la televisione è stata l’unica, fra i mezzi a contenuto editoriale, a non conoscere variazioni annue negative. Anche nel terribile 2001, il mercato riuscì a progredire dello 0,1% (il calo del 4% della pubblicità fu compensato dalla crescita del 20% degli abbonamenti).
I dati elaborati nel IX Rapporto IEM, che verrà presentato a Roma il 14 dicembre in occasione del “Quarto Summit sull’industria della comunicazione“, dicono che, oltre il 2001, il periodo più duro per la televisione è stato la fine degli anni ’80, quando il mercato pubblicitario si è praticamente fermato con la sola performance positiva dei ricavi da canone. Tra il 1992 e il 2000 si evidenzia, invece, una forte progressione con tassi d’incremento annuo che dal 5% arrivano al 15%. Solo home-video e periodici hanno mostrato una crescita paragonabile, se non migliore.
Nel 1986 la pubblicità costituiva il 79% delle entrate del sistema, il canone il 21% e gli abbonamenti non esistevano ancora (appariranno solo nel 1990, con lo 0,3%). In cinque anni la quota della pubblicità scende rapidamente (dal 79 al 70%) ma più che altro a favore del canone (dal 21 al 29%). Dopo il 1991 la curva decrescente rallenta, fino ad arrivare al 62% di oggi, sempre computando gli investimenti lordi. Nel frattempo, però, anche il canone è entrato in una fase negativa (nel 2005 è sceso sotto i livelli del 1986), e la quota persa dalla pubblicità è stata guadagnata dagli abbonamenti (saliti a poco meno del 19%, sempre considerando gli investimenti pubblicitari lordi). Nella prima metà del decennio in corso, infatti, non è mistero che le vendite dirette al consumatore nel mercato televisivo siano cresciute molto più degli investimenti pubblicitari, seguendo un trend analogo a quanto avvenuto nei quotidiani e nei periodici.
Sempre nel 1986, il mercato combinato dei Quotidiani e dei Periodici valeva poco più di 2,5 miliardi di euro, mentre oggi ne vale poco più di 8. Il testa a testa fra i due mercati storicamente “rivali” – Quotidiani e Periodici da una parte, Televisione dall’altra – continua, quindi, a vedere i primi prevalere di poco.
Anche in questi due comparti, a partire dal 2001, il peso relativo dei ricavi da vendita, rispetto a quelli pubblicitari, ha preso a salire vertiginosamente, grazie soprattutto al fenomeno dei prodotti collaterali e in parte per le cattive performance del mercato pubblicitario in generale. Storicamente, le vendite incidono maggiormente nei ricavi dei Periodici rispetto ai Quotidiani, e questo per tutto il ventennio di riferimento. Ma questa differenza si è acuita maggiormente negli ultimi anni. Nel 2005, le vendite hanno rappresentato il 77% dei ricavi dei periodici; l’analogo dato riferito ai quotidiani è il 56% (nel 1986 erano, rispettivamente il 58 e il 50%).
L’equilibrio delle risorse rispecchia la divaricazione dell’offerta fra free e pay (nella tv è in ascesa il modello pay, nella stampa il pieno sviluppo del modello free è alle porte), mentre la tematizzazione dell’offerta traina il modello a pagamento (la Pay TV e i periodici).
La congiuntura sfavorevole ha contribuito a ridurre il peso degli investimenti pubblicitari, dunque, ma come gli analisti sanno bene, la crescita della Pay TV è un fenomeno strutturale, sul quale gli operatori (quelli che ne cavalcano l’onda e quelli che se ne difendono) fanno ormai un affidamento sicuro.
Di lettura più difficile è il futuro della stampa. L’ascesa della free-press rappresenta sicuramente un fenomeno a favore dell’incidenza delle risorse pubblicitarie ma il problema degli editori della carta stampata è anche quello di costruire valore sul proprio business originario. E forse, così come i contenuti “premium”, quelli per cui si è disposti a pagare, si stanno sempre più trasferendo dalla televisione generalista alla Pay TV (e dopo lo sport e il cinema, potrebbe toccare alla fiction), anche l’editoria quotidiana troverà un proprio equilibrio interno se l’offerta a pagamento saprà, appunto, far pesare la valenza “premium” dei propri contenuti rispetto a una stampa “generalista” gratuita. (Vedi Tabella)
La televisione si trova, poi, in una lunga fase di “spacchettamento” della catena del valore. A parte l’accezione più nota, quella fra content provider e network, l’Istituto di Economia dei Media si è dedicato nel IX Rapporto a quella fra produzione e aggregazione di contenuti, che mostra le più evidenti ricadute sull’offerta. Il mercato della produzione televisiva indipendente vale oggi circa 700 milioni di euro, ossia poco meno del 30% dei 2,5 miliardi di euro circa di spesa in programmazione delle emittenti generaliste (altrimenti soddisfatta dalla produzione in-house e dall’acquisto diritti).
Un analogo “spacchettamento” della filiera nel mercato della stampa ha finora toccato i Periodici più che i Quotidiani, ed è ancora tutto da verificare e quantificare.
Consulta il Profilo Who is who di Andrea Marzulli.
27 novembre 2002 – 27 novembre 2006
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