Venti anni di Tv e stampa: dalla Pay TV alla free-press, come è cambiato il mercato media

di di Andrea Marzulli (Responsabile Area Studi Strategici e di Mercato IEM – Fondazione Rosselli) |

Il IX Rapporto IEM verrà presentato a Roma il 14 dicembre, in occasione del ‘Quarto Summit sull’industria della comunicazione’.

Italia


Andrea Marzulli

Nel 1986, il mercato della televisione in Italia valeva poco meno di 2,5 miliardi di euro. Venti anni dopo il valore del mercato è di circa 6,8 miliardi (7,6 se si considerano gli investimenti pubblicitari lordi e non i ricavi netti delle emittenti). In questo arco temporale la televisione è stata l’unica, fra i mezzi a contenuto editoriale, a non conoscere variazioni annue negative. Anche nel terribile 2001, il mercato riuscì a progredire dello 0,1% (il calo del 4% della pubblicità fu compensato dalla crescita del 20% degli abbonamenti).

 

I dati elaborati nel IX Rapporto IEM, che verrà presentato a Roma il 14 dicembre in occasione del “Quarto Summit sull’industria della comunicazione“, dicono che, oltre il 2001, il periodo più duro per la televisione è stato la fine degli anni ’80, quando il mercato pubblicitario si è praticamente fermato con la sola performance positiva dei ricavi da canone. Tra il 1992 e il 2000 si evidenzia, invece, una forte progressione con tassi d’incremento annuo che dal 5% arrivano al 15%. Solo home-video e periodici hanno mostrato una crescita paragonabile, se non migliore.

 

Nel 1986 la pubblicità costituiva il 79% delle entrate del sistema, il canone il 21% e gli abbonamenti non esistevano ancora (appariranno solo nel 1990, con lo 0,3%). In cinque anni la quota della pubblicità scende rapidamente (dal 79 al 70%) ma più che altro a favore del canone (dal 21 al 29%). Dopo il 1991 la curva decrescente rallenta, fino ad arrivare al 62% di oggi, sempre computando gli investimenti lordi. Nel frattempo, però, anche il canone è entrato in una fase negativa (nel 2005 è sceso sotto i livelli del 1986), e la quota persa dalla pubblicità è stata guadagnata dagli abbonamenti (saliti a poco meno del 19%, sempre considerando gli investimenti pubblicitari lordi). Nella prima metà del decennio in corso, infatti, non è mistero che le vendite dirette al consumatore nel mercato televisivo siano cresciute molto più degli investimenti pubblicitari, seguendo un trend analogo a quanto avvenuto nei quotidiani e nei periodici.

 

Sempre nel 1986, il mercato combinato dei Quotidiani e dei Periodici valeva poco più di 2,5 miliardi di euro, mentre oggi ne vale poco più di 8. Il testa a testa fra i due mercati storicamente “rivali” – Quotidiani e Periodici da una parte, Televisione dall’altra – continua, quindi, a vedere i primi prevalere di poco.

Anche in questi due comparti, a partire dal 2001, il peso relativo dei ricavi da vendita, rispetto a quelli pubblicitari, ha preso a salire vertiginosamente, grazie soprattutto al fenomeno dei prodotti collaterali e in parte per le cattive performance del mercato pubblicitario in generale. Storicamente, le vendite incidono maggiormente nei ricavi dei Periodici rispetto ai Quotidiani, e questo per tutto il ventennio di riferimento. Ma questa differenza si è acuita maggiormente negli ultimi anni. Nel 2005, le vendite hanno rappresentato il 77% dei ricavi dei periodici; l’analogo dato riferito ai quotidiani è il 56% (nel 1986 erano, rispettivamente il 58 e il 50%).

 

L’equilibrio delle risorse rispecchia la divaricazione dell’offerta fra free e pay (nella tv è in ascesa il modello pay, nella stampa il pieno sviluppo del modello free è alle porte), mentre la tematizzazione dell’offerta traina il modello a pagamento (la Pay TV e i periodici).

 

La congiuntura sfavorevole ha contribuito a ridurre il peso degli investimenti pubblicitari, dunque, ma come gli analisti sanno bene, la crescita della Pay TV è un fenomeno strutturale, sul quale gli operatori (quelli che ne cavalcano l’onda e quelli che se ne difendono) fanno ormai un affidamento sicuro.

Di lettura più difficile è il futuro della stampa. L’ascesa della free-press rappresenta sicuramente un fenomeno a favore dell’incidenza delle risorse pubblicitarie ma il problema degli editori della carta stampata è anche quello di costruire valore sul proprio business originario. E forse, così come i contenuti “premium”, quelli per cui si è disposti a pagare, si stanno sempre più trasferendo dalla televisione generalista alla Pay TV (e dopo lo sport e il cinema, potrebbe toccare alla fiction),  anche l’editoria quotidiana troverà un proprio equilibrio interno se l’offerta a pagamento saprà, appunto, far pesare la valenza “premium” dei propri contenuti rispetto a una stampa “generalista” gratuita. (Vedi Tabella)

 

La televisione si trova, poi, in una lunga fase di “spacchettamento” della catena del valore. A parte l’accezione più nota, quella fra content provider e network, l’Istituto di Economia dei Media si è dedicato nel IX Rapporto a quella fra produzione e aggregazione di contenuti, che mostra le più evidenti ricadute sull’offerta. Il mercato della produzione televisiva indipendente vale oggi circa 700 milioni di euro, ossia poco meno del 30% dei 2,5 miliardi di euro circa di spesa in programmazione delle emittenti generaliste (altrimenti soddisfatta dalla produzione in-house e dall’acquisto diritti).

Un analogo “spacchettamento” della filiera nel mercato della stampa ha finora toccato i Periodici più che i Quotidiani, ed è ancora tutto da verificare e quantificare.

Consulta il Profilo Who is who di Andrea Marzulli.

 

 

 

27 novembre 2002 – 27 novembre 2006

        

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