Italia
L’elemento più rilevante delle proposte che avanzeremo in questa due giorni napoletana è il consenso intorno ad esse di tutte le imprese televisive.
Il passaggio al digitale è un progetto europeo maledettamente difficile, perché segna una trasformazione profonda dell’industria televisiva.
Se passaggi così impegnativi sono interpretati da qualcuno come strumenti di qualche impresa contro qualche altra, non si va da nessuna parte.
E’ indispensabile invece che ciascuna impresa viva questa fase come una occasione, dalla quale uscirà inevitabilmente trasformata, ma in cui può giocarsi le sue carte e crescere. Alle imprese infatti non basta sopravvivere, vogliono crescere, è il loro istinto.
Voglio allora iniziare dal punto più difficile, le emittenti locali, che sono quelle che nella transizione rischiano di più.
Le emittenti locali hanno preteso che il loro comparto non fosse solo un capitolo di una ricerca o il segnale di un allarme o il lamento di chi si appresta a chiedere il rinnovo di provvidenze. Hanno posto questioni di rilevanza generale.
Hanno chiesto innanzitutto che il sistema terrestre resti interoperabile. Per garantire la possibilità per tutti di offrire programmi e servizi è infatti indispensabile che la televisione terrestre non diventi, come hanno fatto il satellite e la IPTV una piattaforma verticalmente integrata, governata da uno o due operatori. Un sistema interoperabile e aperto necessita di un lavoro snervante di standardizzazione e coordinamento, che si è fatto, si sta facendo, si deve continuare a fare. Nelle settimane passate abbiamo raggiunto un accordo in tal senso con i costruttori di decoder.
Le locali hanno chiesto che sia a loro riservato il rapporto con la pubblica amministrazione locale: FRT e Areanti-Corallo hanno firmato un accordo in questo senso con le emittenti private nazionali; non con la Rai che non poteva firmare, finché ha in Convenzione e nel contratto di servizio la missione del rapporto con il territorio.
Resta aperta la questione della fase di transizione. Nella fase di transizione le locali non possono operare in simulcast analogico/digitale, per mancanza di frequenze. Lo switch-off per loro è la salvezza; di più, è un approdo nel quale le loro principali risorse, le frequenze e il rapporto con il territorio, sono moltiplicate e si apre la prospettiva di nuovi modelli di business. e imprese locali, come e più di tutte le altre imprese, hanno il diritto di sapere quanto è lontano questo approdo e pretendono che tutti gli attori facciano con il massimo impegno la loro parte per definire gli strumenti, le tappe, i gruppi di lavoro necessari per portare tutto il sistema a spegnere al più presto definitivamente l’analogico.
Il rinvio dello spegnimento in Sardegna e Val d’Aosta non è stata una buona notizia per le emittenti locali. Ma il protocollo che è stato firmato con il Ministro e con i Governatori delle due Regioni contiene anche la descrizione di un percorso con delle tappe precise e realistiche: già il 30 novembre dovremo aver risolto gli ultimi dettagli che ci consentiranno il 1° marzo del 2007 di passare in solo digitale una rete Mediaset, una Rai e una di Telecom Italia Media. A quel punto potremo dire che si è cominciato a lavorare sul serio e gli switch off regionali dell’anno successivo saranno alla portata.
Gli altri soggetti che hanno assoluto bisogno di certezze sono gli investitori internazionali, una componente di capitale e di know how decisiva per tutte le industrie; e quella televisiva non fa eccezione.
In Italia e nel DGTVi è presente Dfree, che è oggi un operatore solo digitale, il cui modello di business è quindi indissolubilmente legato ai tempi dello switch-over.
Il rispetto e l’imparzialità con il quale il sistema Italia tratterà questo primo investimento internazionale sul terrestre, sarà guardato con attenzione all’estero e costituirà un metro di giudizio per le decisioni di ulteriori investitori internazionali.
Anche le locali e Dfree hanno trovato un pieno accordo con le grandi imprese nazionali sulle due proposte principali di questa conferenza: il ruolo trainante del servizio pubblico e il lancio di un pacchetto di nuovi canali gratuiti di buon ascolto.
Le due proposte sono strettamente collegate. In tutti i paesi europei il servizio pubblico è il motore del lancio dei nuovi canali in chiaro e raggiunge in questo modo tre obiettivi:
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svolge la sua missione fondamentale, che è quella di rispondere alla domanda dei telespettatori di avere una offerta televisiva più ricca e più varia.
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risponde all’altra sua missione, che è quella di elevare la qualità di tutto il sistema. Mi ha colpito una frase del presidente di una televisione concorrente della BBC: “la BBC ci costringe tutti a essere migliori di quanto vorremmo.” Se la Rai fa nuovi buoni canali, i privati sono costretti a inseguire. In questo senso il servizio pubblico ha una funzione di sistema.
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offre nuovi canali attrattivi, il servizio pubblico traina, a beneficio di tutti, la diffusione dei decoder e avvicina lo switch off. In questo modo il servizio pubblico offre un esempio di buon intervento pubblico nell’economia, che crea occasioni anche per le industrie private e valorizza un bene collettivo quale l’etere terrestre.
Sono tre obiettivi della Rai, ma sono anche tre obiettivi del paese. In questo contesto deve essere affrontata la questione delle risorse dl servizio pubblico.
Siamo consapevoli dei vincoli:
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le condizioni della finanza pubblica,
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la polemica sui livelli fiscali,
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la considerazione che nella Rai c’è un po’ di margine per spostare risorse da impieghi tradizionali verso questo progetto.
Tutto vero, ma non si pensi che la Rai possa trainare un progetto di questa portata con le risorse attuali.
Non si dica che il dovere di investire in servizi innovativi è già nella Convenzione e nel contratto di servizio; quella è la missione per le fasi ordinarie; il fatto è che, credo che su questo conveniamo tutti, siamo in una fase straordinaria, dalla quale il nostro paese uscirà più ricco o più povero, e per vincere la partita abbiamo bisogno del nostro amato-odiato servizio pubblico.
Se rileggiamo decenni di dibattiti sul ruolo dei servizi pubblici europei, ci accorgiamo che in fondo li abbiamo tenuti lì anche per questo, per aiutarci ad affrontare le fasi straordinarie. Gli americani forse non ne avranno bisogno; noi sì.
In questa conferenza le forti ragioni del servizio pubblico saranno spiegate, meglio di me, dai rappresentanti della Rai.
Io voglio però sottolineare un fatto, che poteva avvenire solo a fronte di un passaggio di fase straordinario. Tutte le imprese televisive private, nazionali e locali, chiedono che le risorse fiscali della Rai siano aumentate, con un lieve incremento del canone o in altro modo. E’ un inedito dato politico del quale ci auguriamo che il nostro Governo vorrà tener conto.
Nessuno immagina le risorse della BBC, ma fare buoni canali costa, alcune decine di milioni aggiuntivi e non sostitutivi, se non si vuole abbassare il livello di competitività complessiva della Rai.
I motivi di questo – ripeto- straordinario consenso dell’industria privata a un aumento delle risorse del servizio pubblico li ho accennati prima: la Rai è un motore di sistema, insostituibile in questo passaggio di fase.
Qualcuno può leggere in questa posizione dell’industria privata una novità, rispetto ai primi due anni di lancio del digitale terrestre. Se in passato le principali televisioni private hanno dato un’impressione di autosufficienza, questo non ha giovato al progetto.
Intendiamoci: le industrie private italiane, Mediaset e Telecom Italia Media in prima fila, hanno fatto tantissimo e sono orgogliose di quello che hanno fatto. Hanno investito, tra infrastrutture e diritti due miliardi di euro; hanno costruito le reti, avviato canali, sperimentato l’interattività e, primi in Europa, hanno lanciato due modelli di business innovativi.
Il modello paghi ciò che vedi è già un successo con tre milioni di clienti.
Ricordiamo che quando la Commissione europea autorizzò la fusione Stream-Telepiù espresse forti timori sulla nascita di un monopolio dei servizi a pagamento inattaccabile. Questo monopolio lo abbiamo scalfito, con una idea semplice e italiana come la scheda prepagata.
La concorrenza non ha nuociuto al sistema; al contrario, l’operatore satellitare ha reagito migliorando la sua offerta e, per la prima volta in Italia, è diventato profittevole,. I numeri dicono che la concorrenza ha provocato un aumento senza precedenti delle famiglie digitali, che sono passate da 4 a 7 milioni nel solo 2005.
E siamo solo all’inizio. L’offerta a consumo di film, concerti, teatro, sport minori, può aprire una nuova sorgente per il finanziamento dell’industria culturale italiana. Ma se nella primissima fase il calcio a tre euro è stato un traino della vendita dei decoder, oggi causa ed effetto si sono invertiti. Solo i canali gratuiti possono trainare la vendita dei decoder, la quale a sua volta aumenta la base potenziale delle famiglie che, di tanto in tanto, arricchiscono il loro menu televisivo acquistando un film, un concerto, uno spettacolo teatrale, un evento sportivo. Questo teatro virtuale apre così la possibilità di una nuova modalità di finanziamento anche per generi che non trovano spazio nella televisione finanziata da pubblicità.
L’altra innovazione sulla quale l’Italia sta conquistando un vantaggio è la televisione su mobile.
Anche questa nuova avventura ci racconta che quando un paese ha costruito un settore industriale forte e concorrenziale, come è l’industria del mobile in Italia, è più facile che si sviluppi una filiera di investimenti nei settori collegati; lo storico primato italiano nella telefonia mobile trascina e ibrida altri comparti industriali. E’ un ennesimo esempio del come i settori in cui si raggiungono livelli di eccellenza siano un patrimonio nazionale.
Naturalmente solo la prova del mercato ci darà la misura della dimensione di massa della televisione mobile e personale; il fatto però che investitori nazionali e internazionali, provenienti dall’industria delle telecomunicazioni e da quella televisiva, stiano investendo centinaia di milioni in un progetto di infrastrutturazione del paese è già di per sé un fatto positivo, che gli altri paesi inseguono.
Questi successi non sono sufficienti.
Accanto ad alcuni primati, abbiamo accumulato rispetto agli altri paesi europei anche alcuni ritardi. Non basta festeggiare, proprio in questi giorni, i quattro milioni di decoder terrestri venduti, che fanno dell’Italia il secondo paese europeo; occorre guardare al dato degli ultimi mesi: oggi la vendita mensile dei decoder in Italia è più lenta anche rispetto a paesi, che sono partiti dopo di noi, come ad esempio la Francia.
La vendita dei decoder è troppo dipendente dalla stagionalità delle offerte pay. La media senza contributi è centomila decoder al mese. Nei mesi più fiacchi si vendono solo cinquantamila decoder, un numero che non ci consente né di raggiungere gli obiettivi fissati dalle leggi nazionali, né quelli contenuti nelle raccomandazioni comunitarie. Occorre un deciso cambio di passo.
Con un lavoro di ricerca comune, che ha coinvolto quattro istituti e sette imprese e associazioni e che vi verrà consegnato e illustrato da Andrea Ambrogetti, abbiamo cercato di capire quali sono all’estero gli ingredienti per il successo in un progetto che tutti i paesi europei hanno ormai iscritto tra le loro priorità e stanno prendendo maledettamente sul serio.
Gli ingredienti sono molteplici e vanno ben amalgamati.
Uno in particolare è decisivo. Perché i telespettatori adottino una nuova tecnologia serve una offerta gratuita aggiuntiva, forte, semplice, coordinata, che in Italia non c’è ancora.
Il telespettatore deve avere di più e deve sapere di averlo. In tutti gli altri casi di successo questo elemento è stato ed è determinante. E i fattori di successo sono stati:
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un pacchetto di nuovi canali attraenti lanciati simultaneamente,
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la presenza di editori diversi; nuovi canali di chi la televisione la fa da anni e canali di editori nuovi provenienti da altri settori editoriali
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una copertura omogenea,
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una comunicazione coordinata,
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un marchio unificante.
Anche in Italia serve questo, serve subito; già da domani mattina vi mostreremo e cominceremo a discutere il progetto di una Freeview italiana.
Si è parlato di nuovi editori e di altre piattaforme.
Il rapporto degli incumbent con i nuovi entranti è sempre sospettoso. Davvero c’è spazio per nuovi entranti?
La risposta negli altri paesi europei è: Sì. Sono entrati nuovi editori con investimenti consistenti e hanno conquistato nel mondo digitale una quota di mercato molto più ampia di quanto avrebbero potuto conquistare con gli stessi investimenti nel mondo analogico.
Che cosa manca perché scatti lo stesso meccanismo anche in Italia?
Qualcuno dice: occorre sottrarre risorse all’analogico. Negli altri paesi europei, dove pure l’analogico assorbe, in termini assoluti, più risorse che in Italia, non si è scelta questa strada.
All’estero il fattore scatenante è stata l’affidabilità della pubblica amministrazione, che ha dato certezze agli investitori, ma ha anche dato un segnale esplicito: “se volete entrare nel mercato televisivo, il momento è questo. Tirate fuori le idee e i capitali”.
Occorre che anche in Italia si crei un’ analoga fiducia nella stabilità del disegno di politica industriale, nella forza dei poteri pubblici e, al tempo stesso, nella loro assoluta neutralità rispetto ai processi di mercato.
Non ci sembra necessario e forse neanche auspicabile che siano i poteri pubblici a decidere quali nuovi editori debbano entrare e quali no. E’ tuttavia indispensabile che chi davvero vuole investire possa contare sulla forza delle Autorità nel garantire la assoluta non discriminazione nell’accesso ai fattori di produzione, a partire ovviamente dalle frequenze, anche a quelle legittimamente gestite dagli incumbent.
Neutralità rispetto alla competizione tra imprese e anche tra piattaforme. In questo caso, neutralità tecnologica significa che le regole non devono spingere i telespettatori a dotarsi di una tecnologia al posto di un’altra.
Per questo altri Paesi, quando prevedono contributi specie per le fasce deboli della popolazione, assegnano dei voucher, che la famiglia può spendere su una piattaforma a sua scelta.
Per garantire uno sviluppo armonico delle diverse piattaforme, la Commissione europea sta facendo un faticoso lavoro per mantenere aperto anche quel mercato davvero speciale che è il mercato dei diritti, affinché tutti i diritti pregiati non finiscano in mano ad un unico operatore ostruendo la concorrenza tra piattaforme.
Una corretta politica industriale sfrutta una pluralità di tecnologie di diffusione. Ma questo non significa che tutte le reti sono uguali. Le differenze di costi e di efficienza delle diverse reti sono una risorsa che la politica industriale deve mettere al servizio di un disegno coerente e coordinato.
L’IPTV ad esempio è la tecnologia migliore per la flessibilità e la numerosità dei prodotti che può offrire. Anche i prodotti di nicchia e di archivio, che non trovano posto nei palinsesti, troveranno un loro pubblico grazie ai servizi on demand, come già sta avvenendo con la musica. E’ uscito in questi giorni un libro importante di Chris Anderson che si intitola “Long tail” e dimostra come con le reti on demand è possibile ottenere grandi ricavi anche con prodotti di nicchia, invendibili e invisibili in un palinsesto lineare . E’ uno dei più grandi regali che internet ha fatto all’umanità, scrive, con qualche enfasi, l’Economist.
La tv su mobile apre la strada all’uso personale del prodotto audiovisivo. I contenuti editoriali, esclusi quindi gli SMS personali, rappresentano già oggi in Italia un mercato da un miliardo di euro all’anno. E il mobile ha viaggiato sinora su banda stretta. DVB-H e altre reti mobili a banda larga non possono che moltiplicare questo mercato.
Ma oggi il fenomeno economicamente più rilevante è il satellite. Sky Italia è ormai un gigante che, da solo, ha conquistato un quarto del mercato televisivo nazionale. E’ una quota che può essere guardata con apprensione da Rai e Mediaset, abituate negli ultimi due decenni a contendersi la quasi totalità del mercato.
Si tratta quasi esclusivamente di ricavi da vendita di abbonamenti, quindi non una sottrazione di ricavi, ma una enorme risorsa aggiuntiva che ha consentito la crescita dell’industria televisiva in anni in cui le altre voci di ricavo sono rimaste quasi stabili. Per questo giudico il successo di Sky Italia, una grande e positiva novità, nel panorama televisivo italiano.
Tuttavia non possiamo assegnare alla televisione a pagamento il compito di arricchire e variare il tempo che gli italiani passano davanti allo schermo.
Se il digitale terrestre gratuito restasse una promessa non mantenuta, il risultato sarebbe una spaccatura sociale tra chi decide di spendere qualche centinaio di euro l’anno per abbonarsi al satellite, all’IPTV o alla televisione mobile e personale – e noi ci auguriamo che siano tanti – e gli altri, che centinaia di euro non possono o non vogliono spenderli e che saranno sempre e comunque una maggioranza delle famiglie italiane.
Neanche un dottor Stranamore può pensare di trasformare tutta la televisione in un servizio a pagamento. La televisione in chiaro non morirà mai. I canali generalisti continueranno a svolgere la loro funzione di informazione di massa, di spettacolo popolare collettivo, di creazione di personaggi pubblici e di chiacchiere, di emozioni collettive e condivise.
L’altro giorno cercavo di far funzionare il mio nuovo video recorder per programmare il programma preferito di mia figlia. Mi ha detto: “ma io voglio vederlo in diretta” Gli spiegato che una serie televisiva è comunque registrata. “Insomma -mi ha detto- voglio vederlo mentre lo vedono tutti gli altri”.
Questo bisogno di socialità e di condivisione delle emozioni conviverà a lungo con le nuove forme del consumo televisivo ad abbonamento e on demand.
La televisione gratuita non morirà. Il rischio è un altro.
Il rischio è che la distanza tra i due popoli televisivi si allarghi a dismisura. Che i ricchi e i poveri non si distinguano più solo per come sono vestiti, per dove vanno in vacanza, per la scuola dove mandano i figli; ma anche per il loro accesso ai prodotti televisivi.
L’Ofcom pubblica periodicamente la diffusione delle piattaforme tra le diverse fasce sociali. Anche molte famiglie della working class spendono una considerevole parte del loro reddito per abbonarsi a BSkyB o al cavo, ma non sempre ce la fanno, anzi nella maggior parte dei casi non se lo possono proprio permettere.
E’ una discussione che è ormai entrata in molte famiglie europee: nell’ultimo film di Almodovar Penelope Cruz, magnifica popolana in difficoltà economiche, litiga con il marito che paga ormai solo l’abbonamento a CanalPlus.
Perché non si crei un fossato sociale, lo standard minimo per tutti della televisione gratuita non può restare allo stesso livello degli ultimi venti anni o peggio abbassarsi. I canali in chiaro non devono impoverirsi, svuotandosi di sport, di film, di documentari, di cartoni, tutti trasferiti alla televisione a pagamento.
In epoca digitale, anzi, la televisione per tutti può e deve fare un salto di quantità e di qualità. Il cittadino europeo ha il diritto a un’offerta gratuita più ricca e più varia. Chiamiamolo con il suo nome: si tratta di elevare il servizio universale televisivo.
Questo è il grande progetto europeo di televisione digitale, la cui base è inevitabilmente il digitale terrestre, senza nulla togliere all’importante ruolo delle altre piattaforme televisive.
Sì certo. Ci sono altri importanti moventi che hanno spinto l’Europa a questa scelta ormai irreversibile.
C’è l’agenda di Lisbona e la necessità di razionalizzare l’uso dello spettro.
C’è l’esigenza di aumentare il pluralismo e quello di ritrovare un ruolo ai servizi pubblici.
Tutti questi sono dei mezzi. La posta vera si chiama servizio universale e ha molto a che vedere con quanto le società europee riusciranno nei prossimi anni a restare coese e a non soccombere alla crescita delle distanze sociali e culturali.
Proprio perché la posta è così alta, noi rappresentanti delle imprese dobbiamo riconoscere il ruolo che spetta alle politiche pubbliche, alle Autorità, al Governo e al Parlamento.
Il Ministro Gentiloni, nell’incontro che abbiamo avuto per preparare questa conferenza, ci ha invitato a non sprecare questa occasione discutendo per l’ennesima volta di chi aveva ragione nella aspra battaglia che si è combattuta intorno alla legge 112, ma di usarla per discutere di quello che occorre fare ora.
Ho tentato di seguire il suo invito, introducendo questa conferenza parlando del futuro e delle cose da fare.
Mi sembra anche che la conferenza di quest’anno non ricalchi i toni eroici tipici degli anni dello start up, che presenti un bilancio schietto e faccia i conti anche con la necessità di una svolta nelle politiche pubbliche per la televisione.
Con questa consapevolezza della necessità di un cambio di passo, sento però di dovere esprimere il mio personale riconoscimento ai ministri Gasparri e Landolfi, ai sottosegretari Innocenzi e Romani e al prof. Cheli, per il loro impegno e per la correttezza nei rapporti; alla Fondazione Bordoni all’ISIMM, che hanno fatto e continuano a fare un prezioso lavoro di ricerca.
Nel preparare questa conferenza abbiamo fatto un grande sforzo per presentare una proposta aggiornata, comune tra imprese diverse per dimensione e per cultura.
Spero che questo sforzo sia apprezzato e soprattutto utilizzato come sponda dalle istituzioni.
Il digitale terrestre non è nato come un progetto delle imprese, ma come un progetto pubblico che ha dapprima costretto, poi convinto le imprese a investire. Senza un rinnovato impegno dei poteri pubblici non si va da nessuna parte, anzi si scivola fuori dall’Europa.
Non si illuda l’Italia di essere pigramente trascinata dall’Europa. Il progetto è comune, ma ciascun paese gioca la sua partita.
La Germania ha una infrastruttura cavo che dà alle sue imprese un vantaggio strutturale.
La Francia propone un modello molto dirigista e ispirato alla difesa dei campioni nazionali.
La Gran Bretagna coltiva un’idea di ripartizione dello spettro che spazzerebbe via l’intera industria locale.
La via italiana che noi proponiamo fa i conti invece dalle specificità dell’industria televisiva italiana.
Qualche settimana fa, nella Conferenza internazionale sulle frequenze a Ginevra, la squadra di ingegneri che componeva la delegazione italiana ha ottenuto il massimo risultato possibile, in una spedizione che, forse, non era stata preparata con la necessaria cura, trasparenza e coinvolgimento. Gli accordi internazionali ora vanno rispettati, ci mancherebbe altro. Ma questo non significa che l’Italia rinuncia all’utilizzo dello spettro che non è stato ancora coordinato con i paesi limitrofi. Ginevra è un punto di partenza, che almeno ha messo l’Italia al pari e al passo degli altri paesi. Il lavoro ora continua, a partire dalle aree all digital. Dobbiamo saperlo: chi riesce a digitalizzare le prime regioni acquista un vantaggio negoziale. Ecco un altro esempio della necessità di uno stretto raccordo tra istituzioni e imprese a tutela degli interessi nazionali.
Le proposte che presentiamo possono essere discusse, siamo qui per questo.
Ma domani, nel trarre un bilancio della discussione, potremo già avere un’idea della serietà con cui tutti gli attori affrontano questa fase decisiva.
Se già nelle prossime settimane saranno costituiti organi di governo della transizione, che coinvolgono, ciascuno con le proprie responsabilità, il Governo, l’Autorità, i consumatori e le imprese.
Se entro settembre ci doteremo di un sistema di monitoraggio che produce numeri considerati attendibili da tutti.
Se verranno successivamente fissate non solo la data finale, ma anche le tappe intermedie, gli strumenti di verifica, le risorse necessarie.
Se il 30 novembre questi organi ratificheranno, come prevedono i protocolli firmati, il passaggio al solo digitale di tre grandi reti analogiche in Sardegna.
Se, soprattutto, entro l’anno sarà nata la Freeview italiana.
Se tutte queste condizioni, che sono realisticamente alla nostra portata, verranno raggiunte ebbene neanche allora diremo che ce l’abbiamo fatta, perché il percorso è in salita e le difficoltà crescono man mano che ci si avvicina al traguardo.
Ma diremo che finalmente si è cominciato a lavorare seriamente e che ce la faremo, tra i primi in Europa, e che la televisione dei prossimi anni sarà più bella, più aperta e più competitiva di quella che abbiamo costruito con passione negli anni passati.
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