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Frequenze: garantire un’ordinata transizione al digitale e una massimizzazione della capacità trasmissiva per evitare il far west

Italia


 

 

Il dividendo digitale

 

La transizione dalla tecnologia analogica a quella digitale nelle trasmissioni televisive terrestri è stata da molti presentata come “la fine del problema della scarsità delle frequenze”, la chiave per moltiplicare voci e programmi a disposizione degli utenti e risolvere definitivamente, per “via tecnologica”, il problema del pluralismo.

In effetti, le cose non stanno proprio così. Il numero di frequenze non cambia, anzi, come vedremo tra un attimo, diminuisce. Quello che aumenta, nel passaggio analogico-digitale, è la “capacità trasmissiva” ovvero la nostra capacità di utilizzare una singola frequenza per trasmettere programmi e dati. Dove prima passava un programma analogico come Rai 1 ora possono passare da  5 a 20Mbit al secondo e, quindi, 5 programmi di ottima qualità per la televisione tradizionale oppure un programma in alta definizione ovvero 10 programmi destinati alla televisione mobile.

 

Questo semplice e neutro “fatto tecnico” è stato utilizzato, negli ultimi anni, per dichiarare che il problema della scarsità delle risorse spettrali era definitivamente risolto e che il pluralismo era garantito.

Nel dibattito economico-politico lo scenario è sembrato capovolgersi: da una situazione nella quale convivevano scarsità e sottoutilizzazione di preziose risorse pubbliche e nella quale tutti lamentavano limiti all’accesso e al pluralismo, si passava a uno scenario di abbondanza e alla disponibilità di un possibile dividendo digitale, ovvero di nuova capacità trasmissiva, ottenibile dal processo di digitalizzazione e di compressione dei tradizionali contenuti televisivi analogici e utilizzabile dai tradizionali “broadcaster”, da nuovi editori e da nuovi utenti esterni al mondo televisivo.

 

Piuttosto, dicevano in molti, sarà la nostra capacità di produrre contenuti e creare nuovi programmi e palinsesti che non riuscirà a tenere il passo dell’aumento di capacità di trasporto.

 

Si trascurava, utilizzando categorie del passato come quelle di programmi e palinsesti, che la trasformazione tecnologica avrebbe anche modificato l’uso e gli utenti della capacità trasmissiva. Ed infatti, abbiamo assistito all’utilizzo del digitale terrestre in modalità “pay” e in alta definizione e all’inizio delle sperimentazioni della tecnologia DVB-H, dell’IP-datacast e della televisione mobile.

 

Dunque: gli stessi contenuti destinati a modalità di fruizione diverse (in mobilità, in casa ma su schermi di alta qualità, su una TV con decoder, a pagamento) debbono condividere lo stesso canale di trasporto e, dunque, anche a parità di contenuti disponibili abbiamo bisogno di più capacità trasmissiva. Il nuovo “collo di bottiglia” del sistema diviene il numero di megabit/secondo consegnabili all’utente. 

 

Ad acuire questa situazione di scarsità è intervenuta la convergenza tra le varie piattaforme di distribuzione e ricezione (telefoni di terza generazione, computer palmari etc.) e quindi all’ingresso di nuovi “players” interessati ad offrire doppio, triplo e quadruplo servizio ai propri utenti. E dunque, all’aumento delle modalità d’uso della capacità trasmissiva si è aggiunto l’aumento del numero degli operatori interessati ad utilizzarla.

In particolare, è sotto gli occhi di tutti (accordo TIM-Mediaset, investimenti H3G) l’interesse degli operatori di telefonia mobile per lo spettro attualmente riservato alle trasmissioni analogiche e per la capacità trasmissiva da destinare all’integrazione tra UMTS e televisione mobile.

Insomma, la capacità trasmissiva aumenta grazie alla tecnologia digitale ma aumentano, anche a parità di contenuti disponibili, le modalità di utilizzo di questa capacità ed i “players” industriali interessati a sfruttarla.

 

Per i motivi che abbiamo descritto, il mercato e i governi si aspettano che la transizione dall’analogico al digitale avvenga in maniera efficiente e si traduca in un aumento della capacità trasmissiva disponibile.

 

Massimizzazione della capacità trasmissiva: questo, a mio parere, è la corretta traduzione del termine “digital dividend”. Capacità trasmissiva che dovrà essere destinata ad un aumento delle voci, degli editori e del pluralismo e, al tempo stesso, a fornire la possibilità di raggiungere gli utenti sulle nuove piattaforme di ricezione.

 

Il quadro internazionale

 

Il processo di transizione dalla tecnologia analogica a quella digitale ha dimensione internazionale ed è tra le priorità della Commissione Europea. Tutti i paesi europei hanno avviato le proprie “task force” per il coordinamento della transizione e definito i programmi per realizzare lo “switch-off” delle ultime trasmissioni analogiche entro il 2012.

Una Conferenza Europea aggiornerà, tra qualche mese, il Piano Analogico di Stoccolma del 1961 che, fino ad oggi, aveva regolato l’uso delle frequenze analogiche in Europa. Si tratta del nuovo “piano regolatore” europeo che definirà quali frequenze sono legalmente utilizzabili per le trasmissioni digitali.

 

Il “Caso Italia”

 

L’Italia ha l’ambizioso obiettivo di realizzare lo scenario “tutto digitale” entro il 2008 ed in anticipo rispetto a molti paesi europei (tra i quali il Regno Unito).

 

La mia opinione è, invece, che il “caso Italia” sia più difficile di tutti gli altri. Ad oggi, non abbiamo avviato, al contrario del Regno Unito, nessuna attività di coordinamento della transizione. Eppure, la situazione dalla quale partiamo, il famoso “far west” delle frequenze, non ha eguali in Europa (e forse nel mondo).

 

Dai dati forniti all’ERO risultano operativi, nel nostro Paese, più di 22.000 impianti. Molti giudicano inattendibili questi dati e, in effetti, è ben noto agli esperti del settore che non esiste, nel nostro Paese, un quadro preciso e aggiornato dell’uso dello spettro analogico. L’Italia è, paradossalmente, l’unico paese europeo che consente il “trading” delle frequenze ma è anche l’unico che non possiede un “catasto” aggiornato dei beni acquistati e venduti.

 

Tuttavia, l’ordine di grandezza della nostra dichiarazione all’ERO non è lontano dal vero. Le mie, autonome, ricostruzioni della situazione dello spettro TV a partire da dati di pubblico dominio indicano come operativi circa 19.000 impianti (frequenze). Si tratta delle “frequenze” acquistate e vendute negli ultimi anni e sulle quali molti operatori fondano le proprie strategie di sviluppo. Ebbene, nessuno di questi impianti è stato coordinato nei lavori preparatori della Conferenza del 2006 e solo una lista di circa 2000 impianti-frequenze è stata sottoposta all’ERO come elenco di “richieste prioritarie” nazionali. Per il resto, l’Italia ha richiesto l’assegnazione di un numero di frequenze pari a meno delle metà di quelle prese in considerazione per progettare il Piano Digitale del 2003. Questo significa che, se tutte le richieste venissero soddisfatte, l’AGCOM sarebbe in grado di pianificare al più 9 multiplex digitali con le caratteristiche dei 18 multiplex previsti nel piano del 2003.

 

Mi viene fatta spesso la domanda: quanto valgono le frequenze? Dovremmo cambiarla e chiederci: quali sono le frequenze utilizzabili? La risposta allora potrebbe essere: le frequenze utilizzabili valgono molto (sempre di più), quelle non coordinate molto meno.

 

Le Domande

 

E dunque, la questione che vorrei sottoporre al dibattito è la seguente: quali azioni dovrà intraprendere il nostro Paese per garantire la certezza dei diritti d’uso di un bene pubblico preziosissimo, un’ordinata transizione allo scenario digitale e una massimizzazione della capacità trasmissiva a regime? Per meglio focalizzare,  porrò la questione sotto forma di due alternative:

 

1.    Un “catasto” dell’etere e un nuovo piano di riferimento coordinato a livello europeo o ancora “far west” e “trading” non regolato.

 

L’alternativa è tra non censire in modo dettagliato lo spettro, non sottoscrivere l’assetto che deriverà dalla prossima Conferenza Europea e continuare ad utilizzare e a scambiare frequenze non certificate o predisporre un piano coerente, firmare gli accordi e accettare di ridurre sensibilmente il numero degli impianti in servizio pur di vederli operare in regime di legittimità.

 

In effetti, si tratta, almeno a mio parere, di una domanda retorica (o provocatoria): il “trading” (ma anche le aste e le licenze) possono avere come oggetto solo frequenze riconosciute  in uno scenario regolato e garantito da accordi internazionali. Acquistare o vendere frequenze non coordinate e che possono essere interferite senza possibilità di reazione, credo non sia consentito a nessun “buon” amministratore.

 

Dunque, dobbiamo immaginare come inevitabile la convergenza ad un Piano che utilizzi le sole frequenze legittime. Ma una scelta di questo tipo riduce inevitabilmente il numero di multiplex digitali realizzabili, e pone due problemi di difficile soluzione:

 

Entrambi i problemi, per essere risolti, debbono essere affrontati con una visione che superi l’interesse del singolo “broadcaster”. A nessuno degli utilizzatori attuali farà infatti piacere vedere i propri impianti esclusi dal coordinamento mentre il concorrente può realizzare un multiplex digitale su una frequenza coordinata.

 

E dunque la gestione della transizione sarà tanto più complessa quanto più grande sarà la polverizzazione del controllo dello spettro. Infatti, solo un controllo centralizzato dello spettro da parte di pochi operatori di rete nazionali e da consorzi regionali (per l’emittenza locale) potrà garantire una trasformazione equa delle attuali frequenze in capacità trasmissiva. Dove con il termine “trasformazione equa” intendo la realizzazione del massimo numero di multiplex ottenibili con frequenze legittimamente utilizzabili senza favorire o sfavorire alcuno degli attuali utilizzatori “abusivi”.

 

Questa osservazione introduce la seconda domanda: Cosa fare? espropriare le frequenze e metterle all’asta o incoraggiarne la concentrazione muovendosi però, contestualmente, nella direzione della separazione proprietaria tra  operatore di rete e fornitore di contenuti?

 

2.    Frequenze restituite e messe all’asta o gestione delle frequenze da parte degli attuali operatori e gestione “terza” della capacità trasmissiva?

 

La centralizzazione del controllo dello spettro può, infatti, essere ottenuta in due modi: mediante una “transizione veloce” che forzi uno “switch off” rapido (2008) e costringa gli utenti a dotarsi rapidamente di decoder e gli attuali operatori nazionali e locali analogici a trasformare immediatamente le reti analogiche in digitali e a restituire allo Stato le frequenze sotto-utilizzate. Questo processo potrebbe poi essere completato con la messa all’asta del “surplus” frequenziale.

 

Oppure una “transizione lenta” con uno “switch off” nella finestra 2010-2012, che forzi gli operatori di rete alla razionalizzazione e alla convergenza ad un nuovo Piano Digitale, e che preveda, allo scopo di neutralizzare gli effetti distorsivi dell’integrazione verticale, la gestione della capacità trasmissiva da parte di un entità pubblica “terza”, come nello schema del CSA francese. Uno schema, dunque, nel quale l’operatore di rete massimizza la capacità trasmissiva disponibile ma l’allocazione di quest’ultima ai produttori di contenuti è posta fuori dal suo controllo.

 

La transizione veloce ha il vantaggio di liberare molto celermente le risorse ridondanti ma anche alcuni rischi: innanzitutto la transizione forzata aumenta il disagio degli utenti e li costringe ad acquistare in massa decoder “di prima generazione” con caratteristiche tecniche e prezzo propri di una fase di avvio. In secondo luogo, il rischio che non esista “surplus” allo “switch-off” è molto concreto: sia perché le frequenze saranno ridotte dagli accordi internazionali sia perché una trasformazione veloce vedrebbe, inevitabilmente, una trasformazione 1-a-1 delle reti analogiche in reti digitali (come sta accadendo in Sardegna). In questa ipotesi non si realizzerebbero reti digitali “singola frequenza” e gran parte del vantaggio in termini di uso dello spettro svanirebbe.

 

Anche la transizione lenta presenta il rischio di lasciare nelle mani degli attuali operatori verticalmente integrati il controllo dello spettro. Tuttavia, la separazione tra produzione e gestione della capacità trasmissiva e, in prospettiva, la separazione proprietaria tra operatori di rete e fornitori di contenuti sembra agire molto di più sul cuore del problema: l’accesso alla capacità trasmissiva.

 

Inoltre, la transizione lenta consente agli utenti (soprattutto a quelli meno interessati) di attendere una fase tecnologica più matura per dotarsi di ricevitori più economici e più evoluti e libera capacità trasmissiva nella fase iniziale della transizione per offrire un servizio di lancio del digitale terrestre rivolto agli utenti interessati alle novità tecnologiche (“pay tv”, tv mobile, alta definizione).

 

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