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E’ partito il conto alla rovescia per il secondo Summit mondiale sulla società dell’informazione, che si aprirà a Tunisi dal 16 al 18 novembre, che raccoglierà i rappresentanti di 160 Paesi per discutere di digital divide e Internet governance.
Le premesse lasciano, purtroppo, intendere che il dibattito si infiammerà non tanto su come portare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione ai Paesi più poveri, ma piuttosto sulla gestione della Rete e sul ruolo dell’ICANN.
Numerosi Paesi – e anche l’Unione europea – si sono schierati, infatti, a favore di una riforma dell’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, un’istituzione di diritto privato registrata negli USA, che assegna numeri e nomi a domini Internet, legata al Governo americano da un Memorandum of Understanding che scade nel 2006.
L’Icann gestisce l’attribuzione degli indirizzi Internet (come .com, .it, .tv, .eu, ecc.) e autorizza le modifiche apportate al registro di questi suffissi, chiamato comunemente “root zone file”, che permette la corrispondenza tra i nomi di dominio e gli indirizzi numerici.
Il problema è che il governo americano ha effettivamente il diritto di decidere che può gestire i Top Level Domain nazionali, come dot.jp, dot.kr or dot.cn, mentre i singoli governi sono solo indirettamente coinvolti attraverso una advisory committee che fa capo all’Icann.
Allo stesso modo, è sempre il governo americano ad avere il diritto di decidere circa l’introduzione nel cyberspazio di un nuovo Top Level Domain, sia esso un country-code o un TLD generico come .com o .net.
Secondo molti Paesi, tra cui la Cina e il Brasile, la gestione di questi aspetti dovrebbe essere basata su un nuovo modello di cooperazione internazionale, attraverso la creazione di un forum che non rimpiazzerebbe le istituzioni e i meccanismi esistenti, ma diverrebbe un loro complemento, riunendo tutti gli attori coinvolti, pubblici e privati, in adesione ai principi chiave di Internet: “interoperabilità, apertura e principio dell’end-to-end”.
Gli Stati Uniti, da canto loro, credono che una tale riforma frenerebbe l’innovazione e temono che dare più potere ai governi possa tradursi in un ostacolo alla libera crescita della Rete e alla libertà di espressione, anche nel caso in cui si tratti di controllare contenuti ‘indesiderabili’ come la pornografia o l’incitamento all’odio razziale.
“Sarebbe come avere più di cento conducenti per un solo autobus”, ha dichiarato Michael Gallagher, vicesegretario della NTIA, ossia l’agenzia americana preposta alle telecomunicazioni e l’informazione.
“Fino a ora, abbiamo avuto un solo conducente e tutto è andato bene”, ha aggiunto Gallagher, sottolineando come le aziende e la comunità tecnologica siano in gran parte d’accordo con la posizione degli Usa.
“Materialmente, non c’è niente di sbagliato nell’attuale struttura di gestione. Ma formalmente, è sorprendente come una qualche cosa che ha un tale impatto a livello mondiale, sia controllata da una sola nazione”, ha dichiarato il ministro dell’economia olandese Laurens Jan Brinkhorst.
Un esempio significativo è quello relativo all’introduzione del dominio .xxx, che indica i siti a contenuto per soli adulti. Diverse amministrazioni pubbliche hanno espresso perplessità riguardo questa iniziativa, ma a dover decidere se questo dominio debba o no entrare nel cyberspazio – e diventare visibile sui Pc di tutto il mondo – sono solo gli Stati Uniti.
Questi dubbi non sono una novità e la Ue aveva sollevato la questione già all’inizio degli anni ’90. Nel 1998, l’amministrazione Clinton accolse le preoccupazioni dei governi (contenute nel White Paper on the Domain Name System) e venne così creato l’ICANN, “il cui scopo era, in parte, quello di ‘internazionalizzare’ la gestione di Internet”, ha spiegato il commissario Ue ai media e alla società dell’informazione, Viviane Reding.
La Ue ha sempre partecipato attivamente ai processi dell’ICANN, ma di fatto, “il governo americano non ha mai trasferito questo potere unilaterale e molti governi sono ora preoccupati che questo non avverrà mai”.
In particolare, a giugno, il governo Usa ha annunciato come se niente fosse, di aver deciso di mantenere “il suo storico ruolo nella gestione dei root server” di Internet.
Un atteggiamento che ha deluso l’Europa e tutti gli altri Paesi che hanno lavorato per raggiungere un approccio cooperativo dal 1998.
“Per ragioni storiche – ha spiegato la Reding – il governo americano ha esercitato un ruolo unilaterale nella supervisione degli aspetti fondamentali di Internet”.
All’inizio non aveva particolare importanza, perché a usare la Rete erano per lo più ricercatori e accademici, ma il successo del world wide web “che sono orgogliosa di dire è un’invenzione europea”, ha concluso la Reding, “ha reso Internet una parte centrale e strategicamente fondamentale per le comunicazioni di ogni singolo Paese”, visto anche “l’impatto diretto sulla crescita economica e lo sviluppo sociale”.
Un dibattito, quello sull’Internet governance, che secondo molti sposterà l’attenzione da temi veramente importanti, e non aiuterà a portare computer, telefoni e nuove tecnologie nei Paesi in via di sviluppo, dando vita, al contempo, a una nuova guerra di cui, francamente, nessuno sente il bisogno.
Per ulteriori approfondimenti, leggi:
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