Italia
di Linda Lanzillotta
Responsabile Dipartimento
Innovazione e Sviluppo – Margherita
La copertina e l¿articolo di fondo di uno degli ultimi numeri dell¿Economist hanno riproposto, con grande evidenza, la tesi secondo cui il digital divide nei paesi poveri non si combatte diffondendo Information and communication technology (Ict), computer e tecnologie digitali.
L¿unica tecnologia che potrebbe contribuire a far fare alle economie del terzo e quarto mondo un salto di qualità sarebbe invece quella della telefonia cellulare; perché è l¿unica che può diffondersi anche in un ambiente afflitto da gravi problemi di alimentazione, di salute e di analfabetismo.
Il digital divide ¿ sottolinea the Economist ¿ è il sintomo e non la causa di altre fratture, delle condizioni di povertà, di enormi e drammatiche disuguaglianze.
Perché non può esserci diffusione di computer, di software, di accesso a internet se non per popolazioni che non siano drammaticamente pressate dalla fame, dalla malattia, e dall¿ignoranza.
Al contrario in alcuni casi (le ¿donne del telefono¿ in Bangladesh, così come i contadini e i pescatori di alcuni paesi africani) la telefonia mobile è stata utilizzata per sviluppare piccoli commerci locali, raggiungere mercati nuovi e ottimizzare i prezzi.
Dunque, conclude il settimanale inglese, è ora di abbandonare l¿illusione tecnologica che ci ha affascinato nei giorni della bolla di internet e di tornare coi piedi per terra. Il divario digitale tra paesi ricchi e paesi poveri non si batte con iniziative come il Digital Solidarity Fund lanciato dall¿Onu (un fondo che dovrebbe essere finanziato dall¿1% degli utili delle aziende del settore tlc che, in cambio, potrebbero utilizzare il marchio Solidarietà digitale).
No, le tecnologie dell¿informazione per essere utilizzate, stimolare nuove attività economiche e creare sviluppo richiedono un contesto socio-economico sviluppato. Nei paesi poveri occorre invece spingere per aprire i mercati della telefonia mobile, perché è dimostrato che più si accelera la liberalizzazione, più si diffonde l¿uso dei cellulari. I governi, invece di tentare di ridurre il digital divide imponendo improbabili progetti di infrastutturazione Ict, sviluppino i mercati delle telecomunicazioni: e il divario digitale sarà superato autonomamente grazie allo sviluppo endogeno.
Non si può negare che le analisi del passato sul tema del digital divide abbiano peccato di ottimismo e di una fiducia quasi fideistica nel potere delle nuove tecnologie. E che si sia dato per scontato che gli investimenti in Ict avrebbero potuto condurre in modo quasi automatico a migliori condizioni di vita anche chi vive nell¿indigenza.
Ma se questa ipotesi alla prova dei fatti è risultata schematica e astratta, anche la tesi per cui l¿investimento in Ict non è efficace, perché i ricchi diventano più forti e i poveri rimangono a combattere con i propri problemi non appare convincente.
Sembra essere contraddetta ad esempio dal caso dell¿India.
Il caso dell¿India viene citato proprio dal Technology Quarterly dell¿Economist, che dimostra come in un paese pure così complesso, gli investimenti in Ict siano stati un fattore decisivo per la crescita verticale della competitività, del tasso di sviluppo e, di conseguenza, del miglioramento delle condizioni di vita.
Questo non significa che l¿Ict renda immediatamente ricchi ma solo che la diffusione dell¿Ict permette al sistema amministrativo, civile e sociale, di aumentare il proprio valore aggiunto e, quindi, di liberare risorse per combattere i divide fisici che vanno in ogni caso affrontati con non minore impegno finanziario e politico. Così come è evidente che il digital divide non si colma mettendo puramente e semplicemente computer nelle scuole rurali, ma creando un sistema integrato tra informatica, telefonia, mezzi tradizionali e formazione. Ciò dipenderà anche in gran parte dall¿evoluzione delle tecnologie: l¿evoluzione verso sistemi integrati mediante device telefonici o audiovisuali (quella che noi chiamiamo ¿convergenza tecnologica¿), renderà possibile accedere alla rete di comunicazione integrata attraverso una pluralità di oggetti, anche poco costosi e più facili da usare di quanto non siano oggi i computer.
Senza contare che l¿apertura all¿informazione che, anche grazie ad internet, potrà essere sempre più ampia, può avere un riflesso diretto sulla crescita dei processi democratici e partecipativi che sono anch¿essi fattore di sviluppo economico, come ci insegna Amartya Sen.
La lotta al digital divide ha quindi anche una profonda motivazione democratica perché può accelerare l¿evoluzione politica e istituzionale dei paesi in via di sviluppo.
Dunque la questione della diffusione delle tecnologie nei paesi poveri non può essere banalizzata: non si tratta di investire in computer anziché in ospedali e infrastrutture sanitarie, ma di investire in information society per rendere più efficiente la sanità e gli altri sistemi della organizzazione socio-economica, di liberare quindi più risorse per le altre infrastrutture civili. L¿Ict, insomma, non è un fine ma, nei paesi poveri come da noi, uno strumento destinato a creare benefici indotti.
Non si possono mettere in alternativa gli interventi contro la fame o quelli per vaccinare le popolazioni ammalate di Aids con gli investimenti in Ict, e indurre il lettore occidentale ad aderire alla paternalistica tesi secondo cui è chiaramente preferibile dare 10 dollari al giorno per 55 anni a ogni contadino povero e farlo felice, piuttosto che investire 4.500 dollari in un centro rurale.
Si tratta di una impostazione fuorviante perché, se è evidente che l¿aiuto ai paesi poveri esige un approccio sistemico, è però altrettanto chiaro che nell¿era della globalizzazione e della comunicazione nessuna azione può produrre effetti duraturi di crescita e di sviluppo se non prevede anche interventi contro il digital divide.
Si tratta peraltro di una discussione molto importante perché a novembre la comunità internazionale si riunirà a Tunisi per il World Summit on Information Society (WSIS) per discutere su come investire in Ict, dove investire, con il governo di chi. E soprattutto con quali obiettivi. La discussione rilanciata dall¿Economist va dunque affrontata con grande serietà perché dall¿appuntamento di Tunisi si esca con un serio e concreto programma di azione che preveda azioni e obiettivi definiti, controllabili e misurabili, e non con mere dichiarazioni di principio.
È un punto fondamentale della questione che, insieme alla lotta al terrorismo, deve rappresentare la priorità dell¿agenda internazionale nei prossimi anni: la lotta alla povertà. Non si possono perdere altre occasioni e, soprattutto, non si può accettare che il digital divide si aggravi progressivamente fino a costituire esso stesso un fattore di povertà.
Per quanto riguarda l¿Italia.
Anche su questo punto, il governo Berlusconi al G8 di Genova, aveva annunciato che avrebbe guidato l¿impegno dei paesi sviluppati per un piano di diffusione delle tecnologie digitali nell¿organizzazione amministrativa dei paesi in via di sviluppo.
Di questo, come di molti altri impegni nel settore dell¿innovazione, non si è saputo più nulla.
Il centrosinistra ne dovrà invece fare un punto qualificante del proprio impegno nelle politiche di cooperazione e per la lotta alla povertà.
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