Italia
di Vincenzo Zeno-Zencovich
Professore ordinario
Diritto Privato Comparato
TERZA UNIVERSITA”– ROMA
Di che cosa si parla quando si invoca il ¿servizio pubblico televisivo¿? Sommessamente vorrei avanzare la tesi che si tratta di una impostura o, nella più benevola delle ipotesi, di un equivoco.
L¿abbandono delle impostazioni monopolistiche sulla radiotelevisione ha solo in parte portato ad una liberalizzazione del settore (e dunque ad una sua libertà). Accanto alla perdurante tesi della scarsità delle frequenze e alla dominante teoria del pluralismo si è aggiunta una concezione che è peculiare della radiotelevisione e che non si incontra con riguardo ad altri mezzi: quella del servizio pubblico. L¿attività in questione o costituirebbe un servizio pubblico da affidare ad un soggetto, solitamente controllato dallo Stato, o ¿ in aggiunta ¿ assolverebbe delle funzioni di servizio pubblico che i privati dovrebbero fornire.
Tale concezione ¿ ancorché consolidata ¿ è singolare, nel senso che non trova precedenti nei pur numerosi e storici interventi di controllo sulla stampa. Con riguardo a questa o la libertà veniva soppressa oppure, una volta autorizzata o adempiute le formalità preliminari, gli oneri pubblici erano, e sono, oggettivamente modesti. In ogni caso non appare sostenibile, sulla base del diritto vivente, che la stampa di quotidiani e periodici costituisca un servizio pubblico. La ragione è che tale nozione emerge solo molto dopo; in ogni caso da un lato i fautori della tesi espansiva della libertà di manifestazione del pensiero ritenevano ¿ e ritengono ¿ che questa immunizzi la stampa da funzionalizzazioni, dall¿altro i fautori di una visione più economicistica non ravvisavano nell¿attività editoriale alcuna caratteristica del servizio pubblico. Perché, allora, una così vistosa disparità di trattamento e di concezione per la radiotelevisione? Com¿è possibile che la stessa notizia se stampata sia semplice offerta di un servizio informativo, mentre se diffusa alla radio o alla televisione costituisca un servizio pubblico?
La risposta più plausibile è che la nozione di servizio pubblico ¿ lungi dall¿essere consolidata e fortemente influenzata com¿è da concezioni pregiuridiche ¿ è stata piegata e adottata all¿esigenza di giustificare il controllo sulle imprese radiotelevisive. Per molti versi essa costituisce una linea di ripiego rispetto all¿insostenibile tesi del monopolio statale, ma si nutre delle idee che erano alla base di quest¿ultimo, e cioè che la collettività deve poter accedere ovunque e senza costi eccessivi a servizi informativi e di intrattenimento.
Tuttavia la logica del servizio pubblico si giustifica se vi è un elemento ulteriore: e cioè che quel servizio non sia già disponibile sul mercato. Per chiarire il punto è sufficiente un esempio: nessuno dubita che il pane sia un prodotto essenziale per tutti i cittadini, ma i fornai non svolgono un servizio pubblico. Gli esempi tipici di servizi pubblici, (che non a caso rientrano quasi tutti nei c.d. servizi a rete), presentano la caratteristica comune di infrastrutture di grande costo e difficilmente duplicabili (rete idrica, elettrica, ferroviaria) e di costi di esercizio assai elevati che comporterebbero o tariffe remunerative (e dunque non accessibili a tutti) o discriminatorie (in base alla localizzazione dell¿utente) o semplicemente l¿esclusione dalla prestazione delle aree non redditizie (per i servizi postali, telefonici, di trasporto).
Non appare questo il caso dei servizi radiotelevisivi per i quali i costi di copertura non paiono eccessivi e sono, nei fatti, facilmente duplicabili. Se i privati possono fornire servizi di informazione e di intrattenimento ¿ e concretamente li forniscono ¿ a nessun costo per l¿utenza se non quello dell¿inserimento di messaggi pubblicitari (e dunque in genere gratuitamente rispetto al contributo dovuto per l¿emittente di cui è titolare lo Stato), non è dato comprendere perché all¿attività radiotelevisiva si voglia estendere la nozione di servizio pubblico. Né si è in presenza di un market failure che giustifichi l¿intervento pubblico, anzi molti privati sarebbero ben lieti di entrare nel mercato ma sono inibiti dal fatto che il ¿servizio pubblico¿ sottrae loro frequenze, pubblico e risorse pubblicitarie.
Ed anche se si limitasse la nozione del servizio pubblico radiotelevisivo ad un solo soggetto incaricato dallo Stato, una così pesante ingerenza nel settore sfugge ad un disegno coerente. In conclusione l¿esperienza ¿ che è comune a tutta l¿Europa ¿ evidenzia quale aporia vi sia fra l¿enunciazione della libertà di manifestazione del pensiero, che dovrebbe abbracciare tutto e tutti, e la concreta regolamentazione, che adatta quello che dovrebbe essere un diritto fondamentale e pietra angolare di ogni ordinamento a variegate esigenze di policy.
La organizzazione spontanea del mercato viene vista – senza averla (quasi) mai messa alla prova – come contrastante con l”assetto che si auspica e dunque esso viene preventivamente disegnato dal legislatore. Ma se le informazioni e le idee vengono viste come prodotti – che si producono, si scambiano, si vendono – una tale impostazione non risulta appagante: se ci sono consumatori potenziali di informazioni e di idee qualcuno che desideri fornirle si troverà, solitamente a pagamento, ma spesso anche gratuitamente o per indirette finalità lucrative.
Occorre dunque non confondere la libertà di espressione con un correlativo obbligo a diffondere tale espressione, e non trasformare ogni idea ignorata in un esempio di discriminazione.
Si possono tuttavia individuare alcune aree nelle quali l”intervento pubblico, sostitutivo o aggiuntivo a quello privato, può apparire utile se non necessario.
La prima è quella dove il privato non fornisce o non fornirebbe un servizio; la seconda è quella dove vi è comunque un obbligo di fornire un servizio.
Nella prima categoria rientrano tutte quelle ipotesi nelle quali l”attività di raccolta, elaborazione e diffusione sarebbe oltremodo onerosa e di dubbia redditività economica. La connessione con la nozione – da tempo nota, anche se non del tutto inequivoca – del servizio universale è abbastanza evidente: il servizio postale per zone rurali, il trasporto pubblico urbano verso periferie, il telefono in comuni montani sono tutti esempi di servizi diseconomici che vengono prestati a costi accessibili e non discriminatori. Tuttavia essi riguardano i mezzi, non il loro contenuto. In altri termini è più facile ipotizzare l”esigenza di consentire un accesso al variegato mondo dell”informazione e della comunicazione, più che quello di stabilire cosa deve essere diffuso con il sussidio pubblico.
Gli esempi concreti, dunque, si assottigliano: comunità di connazionali residenti all”estero, minoranze linguistiche presenti sul territorio nazionale, gruppi di soggetti con particolari disabilità, servizi ad elevato valore sociale – ad es. educativi – ma di scarsa appetibilità economica.
Connessi a questi vi sono quelli per i quali è ravvisabile un obbligo delle autorità a fornire informazioni: essi sono assai più ampi di quelli che si potrebbero immaginare. Tutti i dati che interessano la salute o l”incolumità dei cittadini (si pensi alle vaccinazioni o alle epidemie, o ai bollettini meteorologici); tutti quelli che riguardano la loro partecipazione (informazioni elettorali); quelli che incidono in maniera più significativa sulla loro cittadinanza (conoscenza di leggi e regolamenti). La stessa c.d. scuola dell”obbligo può essere vista non solo “obbligo” per le famiglie di istruire i propri figli, ma anche come obbligo dello Stato di fornire un insieme di conoscenze ai propri cittadini più giovani.
Gli esempi fatti riguardano prevalentemente informazioni, ma ci si avvede che il campo si allarga quando si tratta di obblighi di mettere a disposizione spazi (fisici e virtuali) per esporre opinioni (nel caso di elezioni o di consultazioni pubbliche).
Entrambe le aree – intervento pubblico sussidiario e intervento pubblico doveroso – richiedono che si individuino le modalità attraverso le quali essi vengono assolti. La loro varietà offre una pluralità di soluzioni: talvolta può essere opportuno che lo Stato in prima persona si sobbarchi l”onere, altre volte può essere incaricato un soggetto privato.
Quel che si intende evidenziare è che in questo campo si presentano esigenze che sono comuni ad altri. La risposta è dunque dettata dal principio di efficienza, visto sotto due aspetti: il corretto impiego delle risorse finanziarie pubbliche; il minimo impatto su meccanismi di mercato di per sé funzionanti.
Questo porta ad interrogarsi sul principale intervento statale – comune a tutti i paesi europei – che è quello della radiotelevisione pubblica. La sua giustificazione poggia per un verso su esigenze di pubblica informazione, per altro verso su motivazioni di altro genere. Con riguardo alle prime è facile avvedersi che con riguardo ad altri mezzi – tipicamente, la stampa – esse non state sollevate, né quando essi erano gli unici, né ora. Si trattava di una conseguenza di fatto del monopolio di Stato, ma una volta che esso è superato occorrerebbe dimostrare che si è in presenza di un market failure e che l”intervento statale debba essere così pervasivo.
L”altro argomento addotto riguarda l”identità culturale di una collettività ed il ruolo che i pubblici poteri devono svolgere per assicurarla. Si tratta di una questione seria ma le cui conclusioni appaiono viziate da apriorismi. La circostanza che le emittenti radiotelevisive pubbliche abbiano svolto un ruolo importante nella costruzione dell”identità culturale nazionale è indiscutibile non in termini assoluti ma per il semplice fatto che in tutta Europa dall”avvento della radio prima e della televisione poi la presenza di soggetti privati è stata inesistente o marginale.
La controprova è data ancora una volta dalla opposta vicenda statunitense.
La risposta dunque dovrebbe essere data su un piano diverso: posto che una impresa radiotelevisiva – come qualsiasi impresa sana – punta alla massimizzazione dei profitti e dunque effettua una programmazione coerente con tale obiettivo, ciò può portare a sacrificare o pretermettere programmi di maggiore valenza culturale ma minore rilievo economico. Il mercato, dunque, non sarebbe in grado di fornire questi prodotti e si imporrebbe dunque l”intervento dello Stato, nella forma della radiotelevisione pubblica.
Tale visione – che è largamente diffusa e trova ampi riconoscimenti nella maggior parte dei paesi europei e che, nella sostanza, è fatta propria della Comunità Europea – ha certamente una serie di argomenti a suo favore e si avvantaggia delle proclamate finalità di interesse collettivo e culturali. Essa suscita però due obiezioni, una preliminare e l”altra di merito.
a)L”intervento dello Stato nella realizzazione di prodotti culturali è assai variegato e solitamente si atteggia in forma di sovvenzioni e di agevolazioni: il teatro di prosa, è quello dell”opera, le orchestre di musica classica, gli spettacoli circensi, l”editoria libraria, la cinematografia godono di aiuti di Stato. Talvolta essi sono quasi integralmente a carico di soggetti pubblici (solitamente enti locali) i quali ne assicurano anche la gestione. Per la radiotelevisione è – e deve essere – lo stesso? La risposta dipende in larga misura dal concreto contenuto dell”attività svolta; in altri termini non è la radiodiffusione in sé ad invocare ed imporre un intervento statuale ma ciò che viene o si intende trasmettere. Un diverso approccio pare frutto di quella tradizione che vedeva nella radiotelevisione un servizio pubblico essenziale riservato in esclusiva allo Stato.
b) Si viene in tal modo a dover esaminare i contenuti dell”attività e dunque individuare chi debba stabilirli e quale sia il metro di valutazione da utilizzare. Non è chi non veda i rischi insiti in tale operazione: lo Stato seleziona le idee meritevoli di diffusione e si impegna finanziariamente in tale direzione. Non è dunque la società a stabilire cosa dire e cosa ascoltare, ma sono i pubblici poteri. Beninteso tale avvertenza non ha una portata nichilista (ogni intervento pubblico sarebbe indebito), bensì serve a mettere in luce la delicatezza dell”operazione e l”importanza degli aspetti procedurali. Alcuni principi dovrebbero essere considerati: in primo luogo quello della natura integrativa / suppletiva dell”intervento, che porta inevitabilmente a escludere taluni contenuti ampiamente forniti e disponibili sul mercato, anche perché altrimenti viene a crearsi una significativa interferenza con il regolare svolgimento del mercato: se si giustificano gli interventi sulla base di una market failure, di certo non possono essere compatibili quelli che non rimediano al – ma allargano il – fallimento denunciato.
Un secondo principio è quello – qui sì rilevante – del pluralismo, nel senso che è difficilmente pensabile che lo Stato possa farsi portatore di una sola opinione, tendenza, credenza mentre invece deve farsi carico di rappresentare all”esterno (non tutte ma) il maggior numero di esse.
Il senso del discorso è che la importanza che si attribuisce alla libertà della manifestazione del pensiero dovrebbe indurre a ridurre al minimo gli interventi esterni, che dovrebbero essere giustificati dal conseguimento di risultati altrimenti non raggiungibili.
Per ulteriori approfondimenti, leggi:
Ciampi torna parlare di pluralismo dei media e sottolinea la necessità che la Rai mantenga il ruolo di servizio pubblico
Gli equivoci sul servizio pubblico televisivo. Triste storia di un dibattito senza fine e senza futuro
Il servizio pubblico in Italia? Un albero senza radici
© 2004 Key4biz.it
* L”analisi con cui il prof. Zeno Zencovich interviene nel dibattito sul servizio pubblico televisivo promosso da Key4biz.it, trova ulteriore articolazione e dettaglio nel volume:
V. Zeno-Zencovich, “La libertà di espressione, Media, mercato e potere nella società dell”informazione“, Il Mulino 2004,¿11.50