Italia
di Flavia Barca
Istituto di Economia dei Media
Comprendo la rabbia nell¿intervento pubblicato ieri da Key4biz a firma di Raffaele Barberio sul delicato tema del servizio pubblico televisivo ancora una volta richiamato dal Capo dello stato. Come non sentirsi indignati e preoccupati di fronte alla morte del pluralismo, e alla privatizzazione dell¿unico spazio pubblico di riflessione ed elaborazione di idee nell¿ambito dell¿intero sistema delle comunicazioni? E¿ arrivato forse il momento di fermarci e riordinare le idee per capire dove stiamo andando ma soprattutto da dove veniamo. Siamo, infatti, proprio sicuri che la Rai svolga le funzioni di spazio pubblico? Per capire se la Rai aderisca o meno a qualsivoglia modello, non bisognerebbe prima chiarire di che modello di tratta? Senza fare un percorso del genere come possiamo valutare i potenziali effetti della privatizzazione?
Proverò dunque a ricostruire, sommariamente, quelli che – secondo il mio punto di vista – sono i principali nodi critici sui quali storici, economisti, sociologi, giuristi, addetti ai lavori ed esperti della materia, si dovrebbero interrogare aprendo finalmente un vaso di Pandora troppo a lungo chiuso ed ignorato.
In primo luogo ripensiamo alle radici. Il monopolio democristiano in Rai. Una stagione ricordata con nostalgia e rimpianto, e la ragione è che la censura impediva cadute di tono, mentre una classe di artisti, autori, produttori, tecnici, esprimeva al meglio creatività e professionalità investita del mandato di educare, alfabetizzare e divertire la nazione secondo i sacri principi del partito di governo. La Rai dell¿epoca non si è quindi limitata a produrre palinsesti ricchi e pregiati, ma ha anche finanziato una intera generazione di ¿intellighenzia¿ che ha poi forgiato la cultura del nostro paese. Su questo molto è stato scritto ma ricordiamo in particolare il bel libro di Monteleone ¿Storia della radio e della televisione in Italia¿ (1992, Marsilio). Permangono però dubbi e zone d¿ombra.
Sull¿intellighenzia innanzitutto. Certo non ci sono più gli Eco di una volta. Ma forse la ragione è che non esiste più l¿intellighenzia di una volta. Gli intellettuali sono, in un modo e nell¿altro, in gran maggioranza, a libro paga delle grosse multinazionali, ed il punto non è tanto che l¿industria privata possa quindi in qualche modo influenzare il pensiero e la cultura, quanto che la possa indirizzare verso quelle tematiche di maggiore interesse per l¿investitore. Si chiama ¿agenda setting¿. E¿ quello che fa l¿industria farmaceutica la quale, ovviamente, è portata a finanziare quella ricerca che va nella stessa direzione delle proprie strategie industriali. Certo, secondo il pensiero di molti, per l¿Italia è stata una grande salvezza iniziare negli anni novanta ad occuparsi un po¿ più di scienza ed innovazione tecnologica ed un po¿ meno di cultura fine a se stessa slegata dal profitto. Ma questo spostamento ha lasciato dei grandi vuoti alle spalle, vuoti che oggi tutta l¿economia italiana sta pagando. Ed in questo modo la Rai ha perso un pezzettino del suo ruolo, della sua ragione d¿essere.
Siamo sicuri, in secondo luogo, che la qualità dei programmi di allora fosse effettivamente più elevata rispetto a quelli di oggi? Certo non c¿erano le signorine scollacciate e le volgarità. Certo, c¿erano programmi di altissimo livello. Ma possiamo dire con certezza che ci sono programmi di altissimo livello anche oggi. E provando per un attimo a rinunciare all¿identificazione del concetto di qualità, non sarebbe forse opportuno elaborare dei pesi e delle misure per valutare i palinsesti di oggi e di allora? E capire cosa è andato perduto (se qualcosa è andato perduto)? Per limitarci ad un unico esempio, soffermiamoci sul linguaggio. La tv pubblica del monopolio ha insegnato l¿italiano ad una nazione. La tv di oggi sta insegnando ad una nazione il linguaggio della tv, dei media, in qualche modo una versione autoreferenziale, semplificata e un po¿ sgrammaticata dell¿italiano tradizionale. Ma di chi è la ¿colpa¿? O tempora o mores? Della tv pubblica? O di chi fa le regole?¿ ecco il punto è proprio questo, le regole, e veniamo al terzo cono d¿ombra interno al ragionamento sulle radici.
La fumosità del dibattito sul servizio pubblico in Italia non potrebbe essere dovuta al fatto che una chiara perimetrazione su diritti e doveri di un broadcaster pubblico sia stata in realtà sostituita da una dirigenza Rai che negli anni Cinquanta e Sessanta ha impersonificato in modo quasi sacrale il concetto stesso di servizio pubblico? Insomma gli uomini e le idee erano a garanzia delle regole. Ma quando quegli uomini sono mancati e sono stati sostituiti da altri uomini? Quando si è rotto il monopolio, e poi sono entrate in Rai nuove forze politiche, e si è avviato il circolo vizioso nuove risorse umane-nuovi spazi di palinsesto-nuovi programmi-nuove poltrone (è interessante notare che in 50 anni di storia dell¿azienda le risorse sono più o meno raddoppiate)¿ ecco a questo punto quelle poche regole scritte avevano perso tutto il loro valore. Che cosa significa fare servizio pubblico? Qualcuno lo ricorda?
Dunque le premesse ¿ le radici – erano già piuttosto negative, soprattutto vaghe. Ma le condizioni meteorologiche mentre l¿albero cresceva non hanno certo dato una mano. Gli anni Settanta ed Ottanta hanno infatti rimescolato tutte le carte, e la matassa si è ancor più aggrovigliata.
E¿ il momento della rottura del monopolio e della fine del pensiero unico.
Chi l¿ha detto che un soggetto unico, un broadcaster pubblico, debba ¿educare¿ la nazione? E assicurare, ¿innaturalmente¿, il pluralismo? E chi dovrebbe decidere i criteri educativi? E siamo proprio sicuri che servizio pubblico significhi educare il pubblico e non servirlo, quindi offrire al pubblico quello che il pubblico chiede? Quest¿ultimo è l¿enigma della sfinge ripetuto all¿infinito ma mai risolto, o meglio risolto in qualche modo de facto lasciando che le forze del mercato ¿ degli inserzionisti pubblicitari ¿ piuttosto che del servizio pubblico, scegliessero la strada da intraprendere. E la definitiva disgregazione della democrazia parlamentare a favore di una democrazia populista ¿ e siamo così arrivati nel pieno degli anni novanta ¿ ha messo la pietra tombale sulle velleità di decidere quali fossero i contenuti più giusti e consoni ai valori di servizio pubblico. Perché un gruppo di individui dovrebbe decidere quali sono i bisogni della massa? Ci si è concentrati, non a caso, su questioni molto specifiche e sicuramente fondamentali anche se certo non risolutive come la protezione dei minori: è sicuramente cosa buona e giusta porsi il problema di proteggere certe fasce di palinsesto, pur se questo appare spesso una foglia di fico davanti a ben più grossi problemi. Ma quali sono questi problemi? Continuiamo a girarci intorno: cos¿è un servizio pubblico?
L¿essenza del servizio pubblico. Tentiamo dunque una toccata e fuga, perché ovviamente l¿obiettivo di questo intervento è di fornire alcuni elementi utili all¿apertura di un dibattito, non certo quello di anticipare prematuramente le sue possibili conclusioni.
Per definizione il servizio pubblico nasce con l¿intento di supplire a delle mancanze del mercato, per offrire ciò che i broadcaster commerciali non sarebbero in grado di produrre o non sarebbero motivati a produrre in quanto non generatore di profitti. Di fatto, lo sviluppo dei servizi pubblici in Europa è andato di pari passo ad una volontà di controllo statale delle comunicazioni, anche se ha giocato in modo consistente la mancanza di una imprenditoria in grado di sobbarcarsi per intero gli ingenti investimenti necessari ad avviare una attività radiotelevisiva a carattere universale. Ma perché in Italia le cose hanno preso una piega diversa dal mai abbastanza citato Regno Unito? Il nodo è nella scelta di trasmettere la pubblicità? O la svolta va fatta risalire all¿inizio degli anni Ottanta, quando la tv locale di prima generazione, dilettantistica e ricca di istanze solidaristiche, si trasforma in tv commerciale a tutti gli effetti sotto la guida di una piccola imprenditoria locale priva di un qualsivoglia progetto culturale? E senza incontrare ostacoli sotto forma di regole o principi di ¿servizio pubblico¿.
Ma forse qualcosa era già successo in culla, nella culla del servizio pubblico, qualche trauma irrisolto che ha segnato in modo indelebile lo sviluppo della tv pubblica e della Rai (la quale, come giustamente nota Barberio, troppo spesso dimentica la caducità del proprio potere temporale per indossare i panni del divino).
Ma parlare di servizio pubblico significa anche soffermarci su concetti più tangibili. Come, per esempio, l¿identità nazionale. Quindi raccontare la nostra storia, ma anche anticiparla, riflettere sulle nostre possibili storie, riflettere sui grandi e piccoli problemi del nostro paese, in un processo di creatività che è pure lavoro terapeutico sulla psiche di una nazione.
C¿è poi la questione delle minoranze (minoranze in tv, tv per le minoranze), la già accennata tutela dei minori, l¿indipendenza editoriale (già questo tema da solo richiederebbe una riflessione approfondita), l¿accountability, la costruzione di una sfera pubblica (argomento superato dall¿evoluzione socioculturale degli ultimi vent¿anni, o, forse, quanto mai bisognoso di un ripensamento). E l¿elenco non si esaurisce qui. Per esempio il ruolo propulsivo che la BBC nel Regno Unito sta giocando nello sviluppo della televisione digitale, mostra quanto il servizio pubblico possa divenire, come argomentato da uno studioso britannico della materia, Michael Klontzas (City University, Londra), fondamentale strumento di public policy.
E¿ evidente, a questo punto, che la battaglia intorno alla privatizzazione della Rai, o all¿abolizione del canone, sottende domande ben più antiche e ben più pesanti. Sull¿essenza stessa del servizio pubblico, sulle peculiarità del mercato italiano, sul ruolo di una sfera pubblica in un habitat sempre più frammentato e de-regolato.
Bene, personalmente sono convinta che di un locus pubblico di riflessione ci sia oggi più bisogno che mai.
Ma la strada va costruita.
E non è detto che non debba passare attraverso un processo di privatizzazione che potrebbe ¿ potrebbe! – liberare finalmente la Rai di tutto ciò che forse servizio pubblico non è mai stato. Dismettendo progressivamente, come auspica Gentiloni in un coraggioso (rispetto alle tradizionali posizioni della sinistra) articolo di qualche settimana fa, la parte di Rai ¿commerciale¿. Certo è una svolta pericolosa, il rischio è di perdere risorse, ascoltatori, di farne una riserva indiana.
Ma è un rischio che con qualche buona arma in pugno si può anche correre.
E¿ insomma forse venuto, finalmente, il momento di affrontare tematiche, come la rinuncia alla pubblicità, che fino a qualche anno fa non si potevano neanche nominare, come provano gli attacchi ¿a priori¿ verso il provocatorio libro di Medolago Albani e Zaccone Teodosi ¿Con lo stato e con il mercato?¿ (2000, Mondadori).
Questioni pericolose, perché vanno a sfiorare le radici stesse su cui poggia l¿intero assetto del sistema delle comunicazioni del nostro Paese, ma irrinunciabili, se vogliamo che l¿albero, prima o poi, inizi a germogliare.
© 2004 Key4biz.it
Per ulteriori approfondimenti, leggi:
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