Italia
di Raffaele Barberio
La televisione pubblica deve fare servizio pubblico.
Questa in sintesi l¿uscita autorevole e senza mezzi termini del Presidente Ciampi sullo stato della televisione pubblica in Italia e l¿invito più generale ai giornalisti di mantenere la schiena dritta, lontani da ogni asservimento.
La vicenda ha preso, come era prevedibile, le prime pagine dei giornali. Ma non c¿è da preoccuparsi, verrebbe voglia di dire, tra qualche giorno non se ne parlerà più. Con tutto il rispetto.
L¿espressione servizio pubblico, radiofonico prima e televisivo poi, circola ormai da oltre ottanta anni tra dibattiti, atti parlamentari, arringhe politiche, pagine dei giornali e tesi universitarie.
Per l¿esattezza, come non solo gli esperti di Tv sanno, il termine nacque in Gran Bretagna a opera di John Reith, primo mitico grande capo della BBC degli anni Venti, agli albori del broadcasting britannico.
In quegli anni si registrò lo spartiacque tra una concezione americana del tutto privatistica della radio, il cui sviluppo tra emittenti in competizione tra loro doveva essere sostenuto dalla risorsa pubblicitaria, e una concezione europea fondata essenzialmente sul regime di monopolio.
Un monopolio dettato da due ragioni: la scarsezza delle frequenze allora disponibili (¿¿privatizzare l¿etere è come privatizzare il mare..¿- disse Reith) e la responsabilità culturale nei confronti dell¿opinione pubblica.
Tuttavia, questa responsabilità era riferita essenzialmente alla possibilità, inedita sino ad allora, di offrire ad un grande pubblico le opere d¿arte del momento (musica, canto e teatro in primis).
Fu solo Goebbels, qualche anno dopo, ad immaginare un futuro radioso per la tv, che stava appena muovendo i primi passi in laboratorio a metà degli anni Trenta. E possiamo immaginare l¿uso che ne avrebbe fatto, se la Storia avesse dato ragione alla sua visione del mondo.
Poi in Europa trionfò la democrazia e con essa il monopolio della Tv pubblica, che per decenni si assestò su modelli di business differenti: finanziata dal solo canone (come in Gran Bretagna), finanziata dalla sola pubblicità (come in Spagna), finanziata dal canone e dalla pubblicità (come in Italia).
Diversi modi di finanziare il servizio, ma con una programmazione sempre formalmente orientata al principio di servizio pubblico radiotelevisivo.
Cosa voleva dire?
Voleva dire una declinazione rinnovata dell¿antico motto di John Reith ¿Informare-Divertire-Educare¿. In sostanza una programmazione attenta e rispettosa di una domanda culturale del pubblico che deve però essere anche sollecitata con appropriate scelte di contenuti, personaggi, linguaggi, format e così via.
E così è stato per decenni.
Cosa vuol dire oggi?
Francamente non si sa!
In Italia il concetto di servizio pubblico appare ideologizzato e privo di significato.
Eppure è del tutto evidente, anche agli occhi dei più distratti, quanto sarebbe utile rinverdirne il significato e la missione, alla luce della scadente qualità attuale della televisione pubblica, tanto più se si considera che è finanziata dal denaro dei cittadini, proprio in rispetto di quel requisito di servizio pubblico.
Certo, in passato dietro la necessità del servizio pubblico televisivo si nascondeva un sistema politico che necessitava come il pane della tv pubblica per distribuire assunzioni tra le categorie che fanno sempre più opinione: giornalisti, intrattenitori, personaggi dello star system. E che in cambio raccoglieva spazi televisivi, apparizioni ed in qualche caso deviato anche il codazzo di starlet al ristorante.
Eppure era una buona televisione.
Ed era anche una televisione pubblica ricca di dirigenti, funzionari e maestranze di grande professionalità.
Di sicuro una delle migliori d¿Europa e del mondo.
Fatta da uomini che sapevano di televisione e che avevano anche una visione del mondo in cui collocarla.
Oggi il livello è drammaticamente sceso.
Il risultato è quello di un confronto irreale, un dibattito schizofrenico tra esperti, giornalisti, politici e amministratori di tv di Stato tutti impegnati a tempo pieno nella militante difesa del principio ormai svuotato di servizio pubblico e la realtà di una programmazione vergognosamente priva di alcun carattere di servizio pubblico, dominata dal cattivo gusto, dall¿ignoranza, da qualche culo e tetta di troppo e mitigata dalla copertura di qualche foglia di fico di buona televisione che ancora, grazie a Dio, circola.
E tutto questo in cambio della raccolta del canone per un importo di oltre 3.500 miliardi di vecchie lire, una cifra spaventosamente alta su cui esercita un controllo senza limiti una schiera di Nuovi Mandarini, che magari appena dieci anni fa non sapeva neanche cosa fosse la televisione.
Ma vorremmo fare anche una considerazione di merito.
Una considerazione che ci riporta al grande equivoco del dibattito italiano.
Da decenni nel nostro Paese il concetto di servizio pubblico coincide con la Rai.
Il paradosso sillogistico è che essendo il servizio pubblico un concetto per sua natura positivo ed essendo la Rai un¿azienda di servizio pubblico per legge, per alcuni tutto ciò che la Rai fa sembra dover essere legittimato per definizione, perché fatto per l¿appunto dal servizio pubblico.
Mi chiedo e vi chiedo: è mai possibile qualcosa del genere?
Il concetto di servizio pubblico non può coincidere con un¿azienda. Deve coincidere con degli standard, con un risultato da raggiungere.
In Gran Bretagna il servizio televisivo nel suo complesso è un servizio pubblico, alle cui regole devono attenersi sia la BBC che le reti commerciali private.
La tv commerciale britannica deve così rispettare delle guidelines, che definiscono i termini con cui esercitare il servizio, la cui violazione comporta (come è accaduto più di una volta) la revoca della licenza ed il subentro di altra società televisiva (le società televisive private non hanno la proprietà delle reti trasmissive).
Se la Rai vuol proprio fregiarsi nei fatti (oltre che nel Contratto di servizio) del titolo di servizio pubblico, cambi rotta, faccia tv di qualità, la mescoli pure con qualcosa che tocchi lo stomaco di quel grande pubblico a caccia di pettegolezzi e rumori di fondo, di finte lacrime e di cattivo gusto, ma faccia generalmente tv di qualità.
Ha i soldi per farlo.
Il guaio è che di tutto questo non si parlerà più tra qualche giorno. Continueremo ad avere in casa nostra quel cattivo gusto che attraverso il tubo catodico viola ogni giorno il nostro domicilio culturale e tra qualche settimana, qualche mese, qualche anno, riapriremo magari un rinverdito dibattito sul ruolo della televisione di servizio pubblico nel Terzo Millennio.
Aiuto!
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