Italia
Sotto il profilo economico ed organizzativo, il nostro cinema si è configurato storicamente con una numerosità di strutture indipendenti di piccole dimensioni, dove l¿organizzazione ha coinciso in molti casi con lo stesso imprenditore. Si è trattato, come indica lo stato di crisi o, a seconda dei punti di vista, di mancato sviluppo, protrattosi per anni di un assetto poco disponibile ai grandi progetti e pertanto esposto al rischio concreto di essere tagliato fuori da un business ormai territorialmente globalizzato e industrialmente votato alla integrazione con gli altri settori dell¿entertainment.
Tuttavia negli ultimi anni qualcosa è cambiato o sta cambiando.
Si è capito che il cinema italiano doveva abbandonare quell¿odore di artigianalità che lo ha sempre accompagnato.
Si è presa consapevolezza che se il film deve continuare ad essere un¿arte, il cinema deve cominciare ad esser considerato un¿industria.
Senza una forte organizzazione industriale e finanziaria alle spalle, l¿industria nazionale di settore fa infatti fatica a raggiungere dimensioni competitive e a fare apprezzare oltre confine ciò che produce. Non a caso quando ciò è avvenuto, come negli anni Sessanta, il successo internazionale legato ai grandi nomi del cinema dell¿epoca poggiava anche su un humus di grandi produzioni internazionali che avevano scelto Roma e Cinecittà come location della catena produttiva, tutti elementi che contribuivano a creare un habitat pur sommariamente industriale, ma indubbiamente lodevole per l¿epoca.
In tale quadro va superata la logica strettamente commerciale di considerare l¿investimento agganciato ad un singolo prodotto. Il periodo medio di un flusso di investimenti viene ormai percepito nell¿ordine dei 4-6 anni, con l¿obbligo di costituire un portafoglio di titoli capace di mediare e compensare nel tempo produzioni, risultati e investimenti che possono essere segnati da successi o insuccessi. In tal senso diventa strategico anche il ruolo delle library e della loro difesa e custodia, missione che spesso necessità di risorse il cui unico nemico può essere giusto l¿inadeguato stato patrimoniale delle società.
In una catena del valore come quella del cinema italiano, polverizzata e poco concorrenziale rispetto ai colossi globali a forte patrimonializzazione, si sta fortemente diffondendo la consapevolezza del ruolo che la nuova finanza può giocare.
Da qui un esigenza di maggiore integrazione tra mondo della finanza e mondo del cinema, con un processo in base al quale l¿apporto del primo non è solo quello di fornire nuove risorse finanziarie. Il valore aggiunto che esso può conferire è quello di una propensione a pensare in chiave di sviluppo, su archi di tempo più ampi e pianificabili, ovvero sottoposti a regime di controllo dei risultati intermedi; di considerare le risorse secondo criteri oggettivi, dando rendiconto agli azionisti ed agli investitori, con una ricerca di sfide internazionali sostenibili e una individuazione di mercati, target, canali distributivi scanditi dagli obiettivi che la strategia di marketing ha prefissato. Il tutto secondo un approccio per così dire olistico che solo la nuova finanza può assicurare, come è stato giustamente sottolineato da una interessantissima indagine della Bocconi condotta qualche tempo fa, ovvero un approccio capace di vedere l¿insieme degli attori e delle parti in commedia come un corpo unico capace di esprimere un valore moltiplicativo di massa critica.
Sotto questo profilo noi italiani, avremmo, come accaduto in altri contesti, la possibilità di far tesoro di ciò che è già avvenuto in quella parte d¿Europa dove le nuove ricette sono state adottate e il ruolo positivo dell¿ingresso della nuova finanza nell¿industria cinematografica ha dato e sta dando prova di grandi benefici.
In un quadro del genere, non è difficile immaginare un flusso di nuove risorse e di nuove società pronte a finanziare le aziende cinematografiche, anche le più piccole, ma che saranno in grado di presentare business plan convincenti.
Dobbiamo cogliere, proteggere e sviluppare un nuovo modo di guardare al cinema da parte del mondo della finanza. E¿ un moto di interesse che considera la crescente redditività ed è attratto da remunerazioni più rapide, magari rispetto ad altri settori, ma che, guardando oltre, prefigura un ulteriore aumento di valore dell¿intero settore.
La produzione destinata all¿industria multimediale si sta sempre più rivelando come un business vincente, in espansione, destinato ad aumentare sempre più il proprio peso sull¿intera economia.
Aumento dei canali distributivi, nuove reti da satellite, boom di internet, che porta con sé le nuove applicazioni di larga banda, sono le manifestazioni esteriori dei processi strutturali che cambiano tanto l¿economia quanto il vivere comune: le trasformazioni tecnologiche e i cambiamenti socio-economici che investono pressoché tutte le aree continentali, forse con la sola eccezione dell¿Africa.
La necessità di capitali freschi per sviluppare la produzione audiovisiva e la disponibilità ad investire su un¿industria in forte sviluppo danno luogo ad un incontro che non può essere procrastinato, ma che va nel contempo orientato e disciplinato dalle regole della buona economia, della buona organizzazione, del controllo di gestione, infine ispirato al sano principio per il quale, se i numeri dicono di no, un determinato progetto non può essere realizzato, anche se già in fase di allestimento. Molte delle principali case di produzione non hanno mezzi e management adeguati. Così è difficile convincere una banca o un fondo d¿investimento ad entrare nel capitale. E il problema è ben presente agli operatori.
Il cinema è un¿impresa possibile, ma serve un cambio di mentalità.
Ciò non deve far pensare ad una omologazione ed appiattimento del nostro cinema.
Tecnologia, modelli organizzativi, culture di gestione e finanza sono trasparenti rispetto ai contenuti, su cui autori e sceneggiatori si dovranno, come sempre, misurare. Peraltro noi italiani siamo sempre stati incapaci di produrre prodotti cosiddetti globali. Purtroppo accade di sovente che il nostro spirito ipercritico nazionale ci spinga a disfarci sia del bambino che dell¿acqua sporca.
Il successo globale dei nostri prodotti è semmai riconducibile alla loro riconoscibilità in termini di italianità, di caratteristiche peculiari e non riproducibili fuori del nostro Paese o della nostra cultura. Ovvero il nostro punto debole è semmai proprio il nostro punto di forza.
Così è per la moda, così è per il calcio, così è per la gastronomia italiana o per la Formula 1, tutte cose che il mondo intero in un certo senso ci invidia e consuma. E così è stato in passato per il nostro cinema che, quando ha bucato le frontiere, lo ha fatto proprio grazie ai caratteri propri e riconoscibili, come testimoniato dalla straordinaria stagione del neorealismo.
Così non potrà che essere in futuro.
In Italia il modello organizzativo predominante è quello del gruppo che ha consuetudine a lavorare assieme e la cui peculiarità è data dalla stabilità dei rapporti. In Italia, Paese privo di uno star system nella accezione americana, l¿unico star system possibile e proficuo si fonderà ancora sul gruppo di lavoro composto dalle figure più importanti che costituiscono la catena del valore produttiva (dal regista agli attori, dallo sceneggiatore ai tecnici). In tal senso la produzione investirà moltissimo sulla stabilità del gruppo e sulla riproducibilità di uno schema di affiatamento, sperando nella replicabilità del successo. Dunque la sconfitta o la vittoria di un film sarà la sconfitta o la vittoria di un gruppo di lavoro, che potrà essere legittimato solo dal risultato. Calcisticamente parlando, squadra che vince non si cambia.
Perduti i grandi padri degli anni Sessanta e Settanta, il cinema italiano sta forse uscendo solo adesso dalla fase adolescenziale; l¿approccio industriale è un¿eccezione e in molti casi tutto è gestito dal solo produttore. Non è sbagliato ritenere che la figura chiave, per il futuro del nostro cinema, sarà proprio quella del produttore, di un produttore che dovrà saper coniugare competenze organizzativo-manageriali con quelle artistico-creative, consentendo al nostro cinema di trasformarsi in una vera e propria industria. Sarà lui la figura chiave che dovrà fare da interfaccia e da garante tra i nuovi investitori e l¿industria di settore. Altra figura di importanza ugualmente determinante sarà quella del distributore-esercente, che assicurerà la visibilità al prodotto.
Produzione e distribuzione saranno strategici se sapranno assumersi la cultura del rischio e, quanto ai produttori in particolare, se sapranno negoziare e mediare la sceneggiatura con le esigenze di produzione, di marketing e di distribuzione. Ciò vuol dire che le scelte saranno guidate da criteri predefiniti e da metodi sperimentati e prevedibili, piuttosto che da valutazioni arbitrarie e soggettive. Il produttore dovrà essere manager a tutto tondo piuttosto che un mancato regista, come si percepisce in alcuni casi.
Queste considerazioni sul cinema italiano troppo debole, organizzato in una filiera produttiva che per rafforzarsi e diventare globalmente competitiva deve andare alla ricerca di nuova imprenditorialità si colloca in un contesto di supporto finanziario pubblico al cinema, un contesto in più qualche caso di mano tesa che, in perfetto stile di compromesso, mette assieme elementi di interesse strategico nazionale con aberrazioni e discrezionalità che distorcono il mercato e non aiutano né gli autori né le imprese. Il rischio è che anziché regalare la canna da pesca, per rimanere nella nota parabola, si continui a dare la razione, non per nulla occasionale, di pesce.
Nella tradizione europea la presenza dello Stato nei confronti dell¿industria cinematografica è stata una costante pressoché ininterrotta. Negli ultimi decenni in particolare questo coinvolgimento è stato giustificato con l¿esigenza di proteggere l¿industria di settore ed i talenti europei dall¿aggressione commerciale americana. Il tutto in un contesto bifronte, da un lato di processi di unificazione sovranazionale e dall¿altro di protezione di particolarismi e dei fortini nazionali, a dispetto delle sollecitazione concettuali e delle Direttive dell¿Unione Europea. Il cinema mantiene ancora oggi un ruolo molto ambiguo all¿interno di questi fortini nazionali.
In Europa il cinema è stato storicamente considerato come elemento importante tra le modalità di espressione del pensiero. Ancor oggi è questo uno dei temi centrali del dibattito sul futuro del cinema europeo. E così più che confrontarsi su meriti artistici o capacità di penetrazione tra i gusti del pubblico, le valutazioni sono da sempre assestate sul come assecondare lo sviluppo di un¿industria che deve garantire la libertà d¿espressione. Ancora oggi molti film-maker sono convinti che l¿Europa può mantenere vivo il proprio cinema solo attraverso il supporto statale.
Anche nella storia più recente il cinema europeo è sempre stato dichiarato come settore ¿in crisi¿, una definizione automaticamente usata per giustificare l¿intervento del sostegno pubblico. La storia degli ultimi anni testimonia che il problema non è stato quello dell¿aver fatto pochi film, bensì dell¿aver prodotto film che non sono riusciti a superare limitate soglie di gradimento al box-office.
Sotto questo profilo prevale uno degli aspetti più sconcertanti del rapporto tra America ed Europa nella produzione cinematografica: nel primo caso il prodotto è finanziato da public-company che lo offrono al pubblico, nel secondo è sostenuto dallo Stato che ne ha condizionato in alcuni casi anche la distribuzione.
Ora i tempi appaiono maturi.
La volontà espressa nel corso dei mesi dallo stesso Ministero delle Attività e dei Beni Culturali di voler avviare un riordino della legislazione e delle normative cinematografiche ha contribuito ad aprire un confronto in seno al settore.
Ciò che è in discussione, ci pare, non è il sostegno pubblico verso il prodotto italiano, anche con l¿intento di farlo circolare al meglio nei circuiti internazionali, o verso la spinta a nuove soluzioni logistiche o nuove tecnologie digitali, bensì la presa di distanza dal rischio di assistenzialismo inefficace, assieme alla presa di distanza da avventure produttive in qualche caso disinvolte nello sfruttare i fondi pubblici.
Appare del tutto evidente come in questi casi le valutazioni debbano fondarsi sulle credenziali delle imprese finanziate, verificando che esse siano capaci di economicità, che siano pronte a rischiare in proprio, che siano in condizione di sostenere il progetto non come singolo prodotto avulso dal contesto commerciale di cui deve nutrirsi, bensì come parte di una più ampia catena di valore ben collegata con le fasi a monte e a valle della filiera produttiva e commerciale.
In molti Paesi i governi hanno deciso incentivi per i produttori che vogliono ¿girare¿ nei loro territori, tra cui il riconoscimento di deducibilità degli investimenti effettuati nella produzione di opera da parte di investitori stranieri. Ad esempio, in Canada il governo rimborsa il 10% di ciò che è stato speso in manodopera locale, cifra che sale al 33% per chi gira fuori dai grandi centri urbani. Il risultato è che i siti canadesi sono i più richiesti dopo Hollywood. Anche qui il nostro Paese potrebbe dire la sua, per la bellezza dei luoghi e ancor di più per le particolari condizioni climatiche che ci rendono più appetibili rispetto al resto d¿Europa.
Un ulteriore azione da incentivare è quella della creazione e della crescita di fondi di investimento per finanziare il settore audiovisivo. Ed entriamo così in un ambito di scelte normative. Qui diventa cruciale la leva fiscale (il mai troppo citato tax shelter, magari esteso anche alla produzione televisiva), che consente di investire nel settore utili detassati provenienti da privati o da imprese di questo o altri settori. Si tratta di una soluzione adottata anche in Europa da molti Stati, per i quali la perdita del gettito per lo Stato si rivela come più che assorbita dalla crescita del comparto e conseguentemente dai nuovi redditi che si producono da un numero più ampio di addetti. Vi sono poi altri aspetti di tecnica fiscale, quali il peso non deducibile dell¿Irap per i produttori italiani, o il peso dell¿IVA ovvero delle bibliche lentezze del suo recupero da parte delle imprese straniere, che sono così fortemente penalizzate e demotivate nella scelta di location italiane (spesso scartate a favore di altre straniere).
Recentemente il mondo dei produttori ha manifestato espressioni ¿critiche¿, per usare un eufemismo, nei confronti del ruolo dello Stato e del modo in cui vengono assegnati i fondi pubblici. Essi hanno richiesto criteri nuovi e strumenti per le imprese vere. Alcuni produttori hanno espresso l¿auspicio della fine dell¿assistenza e dell¿uscita da una logica dei finanziamenti a fondo perduto.
Questo sarebbe davvero utile al cinema italiano, che dà buoni segni di ripresa, ma che ha bisogno di incentivi e sostegni di mercato per poter diventare un vero comparto industriale.
Da quanto detto emergono potenzialità e debolezze dell¿industria del cinema italiano, la necessità di aiutare il mercato e non il prodotto, di sostenere le aziende con profili societari ed operativi corretti, piuttosto che il singolo titolo.
In una parola, va lanciata una campagna non lunga, perché contraddirebbe le nuove regole del gioco, ma veloce ed efficace, di modernizzazione del cinema italiano. Una campagna fondata sulla collaborazione possibile tra industria del cinema e finanza, una collaborazione che può crescere e svilupparsi con vantaggi reciproci, secondo i buoni principi del mercato.
Se ciò avverrà potremo aggiungere, all¿elenco già noto, un¿ottava arte: quella del cinema industrialmente florido e capace di finanziare anche la sperimentazione e i nuovi linguaggi che occorreranno allo sviluppo dei media.
L¿obiettivo non è legato a tecnicismi contabili o alla bramosia dei nuovi investitori, ma allo sviluppo di un cinema motore importante del progresso civile e sociale, culturale e industriale.
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Il futuro del cinema? Tra innovazione e finanza, organizzazione e nuova cultura d¿impresa (1a parte)