Italia
di Guido Salerno
FONDAZIONE BORDONI
L¿industria italiana ha avuto per oltre un ventennio, dalla fine degli anni Sessanta al 1992, un modello di crescita interna fondato sulla dinamica della spesa pubblica finanziata in disavanzo e di presenza sui mercati internazionali fondato sulle svalutazioni competitive. Il processo svalutazione offriva alle imprese italiane varchi temporanei di riaffermazione sui mercati internazionali, la cui durata dipendeva dai meccanismi interni di recupero dei maggiori costi delle importazioni, e quindi dalla capacità di controllare l¿aumento dei prezzi interni: scala mobile, rinnovi contrattuali, dinamica della spesa pubblica.
Gli shock petroliferi del ¿73 e dell¿83, gestiti in modo totalmente diverso, hanno prodotto nel primo caso una caduta della produzione ed una risposta in termini di modifiche dei consumi e delle tecniche produttive (politiche di risparmio energetico), nel secondo caso risposte solo in termini monetari. La maggior spesa pubblica, volta a compensare la caduta dei consumi che derivava dal maggior costo del petrolio, ha comportato un raddoppio delle componenti inflazionistiche (da costi e da domanda), una lievitazione dei tassi di interesse pagati dal maggior prenditore di credito, cioè dallo Stato, e quindi dell¿ammontare del debito pubblico.
Si pensava che un successivo raffreddamento della inflazione, e quindi una discesa dei tassi, avrebbe poi ridotto automaticamente il peso reale del debito pubblico. E¿ stato vero il contrario: la messa sotto controllo della spesa pubblica per rispettare i parametri del Trattato di Maastricht e le politiche di concertazione con le parti sociali hanno evitato il default finanziario ma la bassa crescita economica in termini reali registrata dal ¿93 in poi ed i bassi tassi di inflazione conseguiti non hanno portato all¿abbattimento del debito pubblico in termini reali. Il peso degli interessi pagati dallo Stato sul debito accumulato continua a drenare risorse che altri Paesi riescono invece a destinare alle politiche di sviluppo e di investimento. Solo l¿ingresso nell¿euro e le vicende monetarie internazionali hanno finora consentito al bilancio pubblico di pagare bassi tassi di interesse bassi su un ammontare del debito ancora estremamente elevato.
L¿industria italiana si è accomodata, quindi, su innovazioni di processo volte a ridurre i costi della produzione, come l¿automazione della produzione che portava all¿espulsione di forza lavoro, indotta inizialmente dalla conflittualità sindacale degli anni settanta, la delocalizzazione produttiva non appena se ne è presentata l¿occasione, l¿utilizzo di manodopera immigrata.
La esaltazione del localismo, del ¿cespuglio¿, del ¿piccolo è bello¿, di modelli produttivi basati sulla piccola e media impresa come simbolo di vitalità e modello di prosperità, il voler paragonare i distretti industriali alla Silicon Valley, hanno contribuito alla affermazione di un pensiero debole rispetto ai processi di internazionalizzazione dei processi industriale e di globalizzazione delle economie di mercato che si andavano affermando nello stesso torno di tempo.
Lo partecipazioni statali sono state in parte cedute, in parte liquidate industrialmente: il venir meno della garanzia statale e della forza che proveniva loro dall¿essere integrate in un gruppo capace di far acquisire mercati e spalle finanziarie capaci di assorbire continue perdite di esercizio, ha mostrato quanto fosse precaria e talora illusoria la loro competitività.
Così come il Trattato di Maastricht ha rimesso in discussione i modelli decisionali della politica, così l¿Euro rimette in discussione i modelli decisionali dell¿industria. Purtroppo, mentre i parametri di Maastricht sono vincoli al fare, chiari e semplici anche nella loro apparente rozzezza, l¿Euro impone all¿industria un ripensamento del ¿come¿ crescere, e spesso del ¿come¿ sopravvivere.
Esauriti i margini di contenimento dei costi, di riduzione delle inefficienze, rimangono fermi i vincoli che gravano sull¿industria italiana derivanti dal continuo dirottamento delle risorse interne verso le rendite anziché verso lo sviluppo.
Il differenziale in termini di rendite pagate dal sistema produttivo rimane ancora troppo forte. La rendita finanziaria, rappresentata dal costo del debito pubblico che si paga attraverso la fiscalità la rendita previdenziale, derivante da una struttura della spesa sociale orientata più alle pensioni che al sostegno delle forme di temporanea disoccupazione che grava ancora una volta sui bilanci aziendali; la rendita immobiliare che le famiglie sono costrette a pagare per la mancanza di un mercato dinamico degli affitti e che porta alla immobilità sul territorio, sia in termini urbani che nazionali, sono risorse sottratte al circuito produttivo.
In proporzione, le industrie italiane spendono per ricerca e sviluppo meno delle imprese giapponesi, americane ed europee. Per consolidate ragioni di modello di competitività adottate da oltre trenta anni, per una cultura che mitizza la povertà di ambizione, per una penalizzante allocazione delle risorse, tra rendite e produzione.
Non basta affermare quindi affermare che solo quando la ricerca e lo sviluppo saranno percepite dalle imprese come essenziali per la competitività le imprese investiranno di più in ricerca e sviluppo.
Né basta, di per sé, cambiare il modello istituzionale di intervento nel settore della ricerca. Abbiamo dapprima ricondotto la spesa pubblica per la ricerca e le istituzioni storiche a ciò preposte, come il CNR, insieme all¿Università, sotto un unico ombrello Ministeriale, affermando che l¿Università doveva autonomizzarsi dal mondo della scuola per andare a braccetto col mondo della ricerca. Poi abbiamo riunificato il Ministero dell¿istruzione con quello della Università e della Ricerca. Adesso c¿è la proposta di costituire un Istituto Italiano per le Tecnologie.
Dobbiamo apprendere alcune lezioni.
Il modello della ricerca americano si fonda su alcune sfide: la conquista della luna, lo Scudo spaziale, la ricostruzione del genoma umano, l¿avventura di Marte. Obiettivi che richiedono la realizzazione di prodotti, sistemi ed organizzazioni di complessità ed innovatività strabiliante. Che mettono in moto, a ritroso, tutto il mondo della produzione, della ricerca applicata e di quella di base.
Il modello europeo è basato sulla sfida della conoscenza: la fisica della materia ha competenze senza eguali, in Italia ed in Europa, ma non ha messo in moto il meccanismo brevettale e produttivo che il modello americano induce. Il modello europeo della ricerca è finalizzato alla conoscenza in quanto tale. Alla pubblicazione dei risultati ed alla circolazione della conoscenza e non alla sua finalizzazione produttiva ed industriale.
Ed i Paesi europei in vetta alle classifiche per numerosità di brevetti sono, curiosamente, la Svezia e la Finlandia, dove hanno sede le due imprese che più di altre hanno investito nello sviluppo dei sistemi di telefonia radiomobile. Il GSM e l¿UMTS (versione europea dello standard mondiale denominato IMT2000) sono state una sfida europea di successo mondiale, di cui alcuni Paesi hanno saputo cogliere a pieno il valore industriale oltre che quello di mercato. Risuona palese l¿asimmetria: Regno Unito, Germania Francia ed Italia, che sono i mercati più grandi in termini di consumo, a differenza della Svezia e della Finlandia, non sono i Paesi in cui le loro tradizionali industrie manifatturiere nel settore delle telecomunicazioni sono riuscite a capitalizzare questo successo.
Occorre quindi che il sistema pubblico ponga, anche attraverso un sistema di regole che pongono alle imprese il raggiungimento accelerato di trasformazioni sistemiche, obiettivi sfidanti. Come la riduzione progressiva dell¿inquinamento atmosferica originata dal consumo di combustibile nella California del Clean Air Act.
Forse, l¿accelerata transizione alla televisione digitale terrestre interattiva, disposta in Italia con la legge 36 del 2001, con il termine per le trasmissioni analogiche al 2006, può essere una occasione per modernizzare il sistema. In ogni senso. Dal punto di vista televisivo, industriale, dei servizi. Magari rimettendo in discussione il paradigma di internet basato finora esclusivamente sull¿uso del personal computer. Prima o poi, anche la trasmissione si dovrà digitalizzare. Magari, chi parte troppo presto come Spagna e Gran Bretagna può avere iniziali incidenti di percorso. L¿Italia può farne tesoro. Ma di certo una accelerazione decisa del processo non può che favorire l¿industria italiana, nel suo complesso: il mondo delle telecomunicazioni, il mondo delle televisioni, l¿industria manifatturiera, il mondo della ricerca applicata.
Nel settore della elettronica, della manifattura e nel settore delle telecomunicazioni, ancorché talora operino sotto il nome di multinazionali di altri Paesi, in Italia vi sono realtà di ricerca e produttive di primissimo piano. Il fatto, anzi, di essere innervati in imprese multinazionali può essere solo un vantaggio. D¿altra parte, la televisione italiana è tra le più importanti nel contesto europeo, oltre ad essere variegato e diffuso a livello locale.
In questi termini, esiste un ambiente di ricerca in ambito industriale estremamente recettivo; esiste un mondo delle Università che non aspetta altro se non di essere fortemente e pienamente coinvolto in progetti chiari ed ambiziosi; esiste un contesto manifatturiero e di operatori nel settore televisivo e delle telecomunicazioni che ha dimostrato di essere dinamico ed un mercato capace di ritmi di crescita velocissimi; esiste un Governo che ha dimostrato, nel settore delle comunicazioni, di aver compreso come le reti di comunicazioni a larga banda, l¿UMTS e la televisione digitale terrestre interattiva sono infrastrutture strategiche per lo sviluppo e la modernizzazione del Paese.
Occorre focalizzare su queste sfide nel settore delle telecomunicazioni, come in altri in cui il nostro ritardo non è incolmabile, gli obiettivi sfidanti che rimettono in discussione le acquisizioni tecnologiche e le teorie consolidate, per rimettere in moto il processo di sviluppo delle industrie e dei mercati. L¿obiettivo di integrare le tecnologie esistenti più velocemente degli altri, non appena standard mondiali vengono a maturazione, può fare dell¿Italia un Paese attraente per la ricerca e per le industrie.
Forse, la rapida introduzione della televisione digitale terrestre interattiva può essere una componente fondamentale nel processo di ripresa della competitività dell¿industria italiana nel settore e del comparto della ricerca.
A meno di non assumere, come è già successo in passato, preconcette posizioni ideologiche e pauperiste. Quando si affermava che non di nuove tecnologie, costose ed elitarie ha bisogno l¿Italia, ma di ¿ben altro!¿. Rinviare l¿introduzione della televisione a colori ha condannato un intero comparto industriale. Errare è umano, ma perseverare¿.
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