Italia
di Vincenzo Zeno-Zencovich
Professore ordinario di Diritto Privato Comparato
TERZA UNIVERSITA” DEGLI STUDI DI ROMA
In questi mesi il dibattito sul Ddl governativo di riassetto del sistema televisivo è stato caratterizzato da un fuoco concentrico di critiche, le quali sono state mosse dalle più diverse prospettive: in primo luogo politica per l”irrisolto nodo del conflitto di interessi; poi economica per il rafforzamento – così si denuncia – di posizioni oligopolistiche nel settore radiotelevisivo; poi culturale per l”asserito effetto limitativo del c.d. pluralismo informativo; ed infine, riassuntivamente, giuridica per il contrasto vuoi con principi costituzionali, vuoi con direttive comunitarie.
Una difesa, che non sia d”ufficio o semplicemente di rimessa, del disegno di legge dovrebbe, a mio avviso, proporre una diversa concezione dell”attività radiotelevisiva ed indicare un percorso sul quale il ddl è solo un primo, e piccolo, passo. La esigenza di sintesi costringe l”esposizione argomentativa in spazi ristretti e obbliga il ricorso a svariate forme retoriche.
Perché l”attività radiotelevisiva non può essere libera?
Occorrerebbe chiedersi perché la radiotelevisione fin dalla sua nascita, ha subito un trattamento così deteriore rispetto all”editoria, alla cinematografia, alla musica, al teatro.
La risposta che solitamente si dà è che la radiotelevisione è “troppo potente” (cioè troppo pervasiva e persuasiva) per essere lasciata libera. Il che, a ben vedere, è la riproduzione degli stessi argomenti che dal XV al XIX secolo hanno accompagnato il controllo sull”attività di stampa. Indubbiamente le 95 tesi di Martin Lutero hanno fomentato secoli di guerre di religione e il Manifesto del partito comunista è alla base di sanguinarie dittature. Ma qualcuno vorrebbe seriamente sostenere che questo è un argomento per giustificare l”istituto dell”imprimatur?
E se la radio, la televisione, Internet fossero i mezzi con i quali l”uomo contemporaneo, lasciati il torchio e la rotativa, comunica, apprende, crea comunità, si diverte? In una prospettiva di libertà il regime di vigilanza su radio e tv davvero non trova giustificazioni razionali.
La televisione come capro espiatorio
Si è tentati di suggerire che la televisione (la radio sembrerebbe, oggi, immune da tali tare) costituisca il capro espiatorio per una serie di, inevitabili, disagi sociali connessi alla crescente tecnologizzazione della società moderna: criminalità, devianza, alienazione, disturbi psichici.
Anziché accettare che la televisione non è altro da noi, ma è parte integrante del nostro essere contemporaneo, ci si rifugia nel mito della “cattiva maestra televisione” la cui inconsistenza scientifica risulta non solo dalla assoluta opinabilità delle tesi sugli effetti della televisione, ma dall”assenza di risposte a banali interrogativi: quanta televisione “fa male”? Quale televisione “fa male”? Spetta allo Stato – e non ai cittadini – decidere quanto e cosa vedere in televisione? O si vuole sostenere che un prodotto quando viene immesso in una televisione diventa potenzialmente nocivo e dunque da guardare con sospetto? (Il che è un po¿ come dire che i prodotti alimentari singolarmente presi possono essere accettabili, ma presentati in un supermercato costituiscono un inferno consumistico).
Quel che si vuol dire è che non vi sono motivi per disciplinare la televisione in maniera maggiore rispetto ad altre attività che hanno simile impatto sociale.
Non esiste più la televisione, ma tante televisioni.
La teorizzazione repressiva dell”attività televisiva si fonda su una idea tecnicamente, economicamente e culturalmente superata del mezzo. In genere essa si è formata in Europa nel più di mezzo secolo di monopolio statale: non vi erano alternative alla radio e alla televisione di Stato. Ma quando è cominciata la liberalizzazione essa ha continuato a prosperare incurante del fatto che vi sono molteplici forme di utilizzo delle capacità trasmissive di programmi audio-visivi: televisioni nazionali, televisioni locali, televisioni tematiche, emittenti di televendite, tv via satellite, via cavo, a pagamento, video-on-demand. Perché dovrebbero essere regolato allo stesso – restrittivo – modo? Ma, soprattutto, con la perdita di centralità della televisione c.d. generalista, ed il proliferare di strumenti di comunicazione diversi, anche non televisivi, che senso ha considerare – e temere – la televisione come la detentrice di poteri totemici?
Più televisioni = più pluralismo?
La vulgata vorrebbe che il pluralismo informativo sarebbe assicurato dall”esistenza di una pluralità di emittenti televisive. Ma si tratta di una idée reçue: se è di informazione in senso stretto che si vuole parlare, questa è assicurata dalla deontologia professionale – oggi trascurata e derisa -, non dalla pluralità di datori di lavoro. Se è di tendenze politiche, economiche e religiose che si vuole parlare non si comprende per quale motivo un imprenditore – l”editore radiotelevisivo – dovrebbe farsi carico di scegliere quali rappresentare, anziché fare il suo mestiere e cioè fornire prodotti che il pubblico al quale si rivolge gradisce. Se è di tendenze culturali che si vuole parlare sarà il caso di insistere sul fatto che la televisione è in primo luogo uno strumento di intrattenimento. Pretendere che esso sia “sano” sa più di parrocchia che di Stato liberale. La domanda di fondo è: perché un imprenditore dovrebbe soddisfare – per legge – esigenze ideologiche?
Perché sistemi democratici di secolare tradizione possono reggersi su due partiti – e dunque su un duopolio nell”offerta politica – mentre entrerebbero in crisi se le imprese televisive sono di un numero di poco superiore?
Televisioni e concorrenza
Se l”attività radiotelevisiva è essenzialmente attività di impresa (non funzione sociale o servizio pubblico) essa andrà sicuramente assoggettata alle regole che valgono per tutte le attività economiche, in primo luogo quelle sulla concorrenza. Ma anche qui occorrerà chiedersi se essa sia davvero così particolare da essere sottratta alle regole generali dell”antitrust: e cioè che la disciplina della concorrenza è ancillare a obiettivi di politica economica (e dunque non sociale o culturale); che tali obiettivi dovrebbero essere trasparenti; che la regolamentazione ex ante è sbagliata ed ingenera comportamenti elusivi; che occorre operare ex post bloccando quelle intese e quei comportamenti che in concreto appaiono idonei a ledere la libera concorrenza.
Dunque anziché escogitare formulette numeriche – prive di qualsivoglia fondamento razionale – studiare la specificità del mercato televisivo nelle sue principali componenti, il mercato dei contenuti e quello delle risorse pubblicitarie, assieme agli elevati costi infrastrutturali, alle forti barriere all”accesso, alla modesta elasticità della domanda di fruizione (il tempo a disposizione dei telespettatori).
Tenendo questi elementi in considerazione si potrà stabilire quando l”assetto del mercato comporta inefficienze ed abusi economici nei confronti di produttori indipendenti, di inserzionisti, del pubblico pagante.
Di certo la teoria della concorrenza non è pensata per proteggere settori industriali che godono da decenni di non giustificabili provvidenze economiche – queste sì distorsive del mercato – e la cui preminenza politico-culturale rispetto alla radiotelevisione è solo autoproclamata e ha altrettanto fondamento di una ipotetica rivendicazione protezionistica dei produttori di biciclette nei confronti di quelli di automobili o motocicli.
Come pure la teoria della concorrenza appare invocata strumentalmente quando la si vorrebbe applicare nei confronti di un disegno di legge governativo (e dunque ontologicamente orientato politicamente) mentre un regolamento emanato da una Autorità amministrativa indipendente (e dunque ontologicamente neutrale), che afferma principi e regole analoghi da nessuno è stato contestato e da quasi tutti elogiato.
Lo spazio del “servizio pubblico televisivo”
Si vorrebbe, alla fine, che si proponesse una coerente teoria che giustifichi l”esistenza di emittenti di Stato, quando da tempo si è riconosciuto che lo Stato non era il miglior produttore di panettoni, di pelati, di treni, di automobili, né il miglior prestatori di servizi finanziari o di telecomunicazioni. Si vorrebbe cioè che si illustrasse in che cosa consiste la market failure cui lo Stato deve sopperire fornendo notiziari, varietà, telefilm, film, giochi a premi, eventi sportivi. Ed è proprio questa inspiegabile vocazione televisiva dello Stato la principale distorsione del mercato, che impedisce l”accesso a nuove imprese, altera i costi dei contenuti e delle inserzioni, dirotta risorse pubbliche verso prestazioni che i privati sarebbero ben lieti di fornire senza costo per l”utenza se non l”esposizione ai messaggi pubblicitari, peraltro già abbondanti nell”emittente pubblica.
Rimangono, certo, aree nelle quali è necessario un intervento pubblico: comunità all”estero, minoranze linguistiche, programmi di elevato valore culturale (lirica, musica classica, teatro di prosa, taluni film) che sono oggettivamente fuori dal mercato. Verso questi e verso un servizio universale televisivo, concepito come possibilità di accesso alle reti radiotelevisive, potrebbe più utilmente essere dirottata l”attenzione e lo sforzo, anche finanziario.
* * * *
A guardare dunque il DDL 3184 senza gli strati di pregiudizi anti-televisivi e anti-liberali si valorizzano i suoi passaggi innovativi, si colgono i compromessi con talune ingiustificabili restrizioni esistenti, e si vede dove non è riuscito (soprattutto nella mancata effettiva privatizzazione della RAI) a staccarsi da un passato opprimente.
Sicuramente la lettura che si è proposta è poco ortodossa, ma ad essa non può essere rivolta la critica che invece è inevitabile rivolgere a gran parte di quelle di segno opposto: e cioè che le idee che vi sono dietro sono la principale causa dell”attuale assetto del sistema radiotelevisivo italiano. Per questo sarebbe bene che il dibattito si incentrasse più che sui paventati pericoli del DDL 3184 sui concreti fallimenti della regolamentazione precedente.