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Continua su tutti i fronti la lotta delle industrie discografiche negli Stati Uniti, contro la pirateria musicale, accusata d”aver fatto ridotto le vendite di CD, da due anni a questa parte.
A fine gennaio, una decisione di un tribunale di Washington ha gettato nello scompiglio il mondo di Internet, lasciando intendere che per il futuro i fornitori d”accessi potrebbero essere considerati complici per la violazione dei diritti d”autore dei loro abbonati.
L”operatore di telefonia Verizon si è visto intimare dal tribunale l”ordine di rivelare l”identità di un suo utente, sospettato d”aver scaricato dalla Rete più di 600 brani in una sola giornata e di averli poi distribuiti online.
Verizon ha fatto ricorso contro la sentenza. Ma il caso ha aperto già accesi dibattiti.
Secondo gli analisti, rimettere in discussione l”anonimato degli internauti potrebbe avere un impatto enorme sull”avvenire del Web.
Quanto a giudicare gli operatori responsabili delle pratiche dei propri utenti, replica un internauta “…sarebbe come se si facesse pagare ai costruttori di automobili le conseguenze dell”eccesso di velocità″.
A portare in tribunale Verizon è stata l”associazione dei discografici americani americana (RIAA), che fa riferimento ad una legge del 1998 relativa alla protezione del copyright nell”era del digitale.
Sarebbe stata la malafede di Verizon a spingere la RIAA a denunciare, per la prima volta, di frode un”operatore.
Jonathan Lamy, portavoce della RIAA, spiega “…Noi abbiamo già utilizzato 95 volte la clausola (ndr della legge) che ci permette di venire a conoscenza dell”identità di un utente che viola i diritti d”autore, ed è la prima volta che un ISP ci oppone un rifiuto”.
Ma alla base del rifiuto degli ISP sta una motivazione essenzialmente economica. Si teme di perdere gli utenti con l”uso di misure restrittive eccessive alla libera navigazione.
In più, lo sviluppo del passaggio alla banda larga dipende in larga parte proprio da questi appassionati di musica, che desiderano una connessione più facile e veloce.
Il ricorso davanti alle autorità giudiziarie è l”ultima fase di una lunga battaglia dell”industria discografica contro la pirateria informatica.
Dopo la vittoria contro il sito di filesharing Napster, che permetteva di scaricare file musicali in formato Mp3 gratuitamente, oscurato per ordine della giustizia nel giugno 2001 e poi costretto alla liquidazione, le case discografiche pensavano di aver risolto l”aspetto più difficile della questione.
Le cinque major (Universal, Sony, BMG, EMI, Warner) hanno aperto i loro cataloghi agli internauti mediante dei diritti d”accesso, il più spesso stipulando alleanze multilaterali.
La RIAA scriveva nel mese di dicembre “…L”industria della muscia online è esplosa nel 2002. Milioni di brani sono disponibili adesso attraverso Emusic, Full Audio, MusicNet, Pressplay…”.
Ma questi servizi sarebbero eccessivamente cari, secondo gli analisti, per l”offerta che offrono. Inoltre, aggiunge Lee Balck, analista di Jupiter Research, i siti a pagamento hanno tardato troppo prima di mettere sul mercato la loro offerta.
Esse non possono concorrere con i milioni di titoli offerti da KaZaA, Morpheurs o ilMesh, che lavorano con il sistema di “condivisione di file”, senza rimanere intrappolati nel complesso sistema legale delle licenze.
L”altra critica, la più lampante, ai siti a pagamento, è la mancanza della diversità delle offerte. Le scelte privilegiano sempre i nomi più conosciuti a svantaggio degli artisti prodotti da marchi indipendenti.
Echo, l”alleanza dei sei canali di distribuzione americani nella vendita online – annunciata il 27 gennaio – promette di rimediare a queste mancanze.
Il presidente Dan Hart assicura “…Grazie alla nostra notorietà, le licenze saranno più facili da negoziare con le case discografiche” per i siti a pagamento, che per il momento hanno minori accessi rispetto ai più grossi nomi.