#IoT.week è lo Speciale Key4biz dedicato all’Internet of Things, in cinque puntate con interviste, case history, approfondimenti, dati, analisi e opinioni di esperti.
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IoT
Quando si parla IoT, si tende troppo spesso a scivolare sull’immaginifico. E’ tempo invece di farlo guardando a ciò che di concreto sta avvenendo, alle opportunità di impresa che si vanno dischiudendo e anche alle scelte che converrebbe fare per coglierle.
Un primo conforto al riguardo viene dai numeri. Si parla, nel mondo, di centinaia di milioni nodi di rete che interagiscono con oggetti smart, in ambienti urbani, industriali e domestici. C’è chi dice che saranno due miliardi nel 2018 per più di 10 miliardi di oggetti connessi, e c’è’ anche chi va più in là. Le stime del giro d’affari discordano su tutto, anche perché basate su perimetri diversi, ma su una cosa no: quello dell’IoT sarà il nuovo business più grande dei prossimi anni. Bain parla di 2000 miliardi di dollari entro il 2020, e tanto basta.
Anche in Italia, l’IoT ha acquisito consistenza e cresce a tassi sconosciuti da altri mercati e settori. Le stime per fine 2012 erano di 5 milioni d’oggetti connessi via SIM, e già si sa che a fine 2013 erano più di 6 milioni e non solo via SIM. La componente infrastrutturale cresce di pari passo, aprendo anche ad altri tipi di connessioni (es. Wireless mBus) adatte a tutte quelle applicazioni che non richiedono di tracciare oggetti in movimento ad ampio raggio, e che potrebbero abbattere i costi dell’IoT. Già oggi comunque le stime per l’Italia parlano di quasi un miliardo di euro di giro d’affari, ripartito, in ordine di importanza tra automotive, applicazioni personali via device mobile, home & building automation, industrial Iot, smart city & infrastructure management. Assinform darà stime aggiornate e ufficiali a breve.
Nuove opportunità
Il mercato, anche in Italia, promette di progredire a due digit, con almeno tre implicazioni potenziali.
La prima è che lo IoT appare una delle leve più importanti per rimettere in moto una domanda di beni e servizi durevoli che deve trovare ulteriori motivazioni per esprimersi. Gli economisti più accreditati hanno già fatto notare come qualsiasi stimolo all’acquisto, per quanto si investa in pubblicità, tende a soffrire di un’offerta sempre più rigida e affaticata nel proporre ai consumatori qualcosa che superi l’ambito del già noto e inviti davvero a spendere. L’IoT, con la sua capacità di far percepire nuove funzionalità e di non esprimere un proposta sostitutiva di quanto già c’è, può fare molto al riguardo.
La seconda implicazione è che l’IoT è deputato a innovare la stessa natura dei prodotti e dei servizi offerti. Che si parli di beni durevoli di consumo o di beni strumentali, l’IoT entra in tutti i possibili prodotti. Lo fa aggiungendo ad essi valore e funzionalità, e inserendoli in veri e propri ecosistemi ove la fruizione avviene in condizioni di maggiore efficacia ed efficienza. Lato domanda questo comporta, nelle famiglie, una ancora maggiore motivazione all’acquisto, anche in periodo di austerità; e nelle aziende l’occasione per investimenti a ritorno molto più rapido di altri, a tutto vantaggio della difesa dei margini. Ma c’è un aspetto ancora più importante, che è quello che vede i produttori generare un output diverso, con beni e servizi smart, che incorporano appunto le funzionalità IoT. È un aspetto di assoluta rilevanza in un sistema industriale come quello italiano, che vive di eccellenze manifatturiere concentrate proprio nei settori ove l’IoT promette di più – macchine utensili, automotive, dispositivi elettromedicali, apparecchi per la domotica, e così via – e che ha assoluto bisogno di perpetuare eccellenza.
Nuovi presupposti
La terza implicazione è che l’IoT presuppone in tutte le sue declinazioni la capacità di realizzare sistemi/sottosistemi di servizi in rete, e prima ancora di poli di competenza e servizio capaci di fare accedere alla realtà dell’IoT migliaia di aziende di dimensioni minori, che non possono certo fare tutto in casa. E qui ci troviamo di fronte a uno dei problemi caratteristici del nostro tessuto produttivo: capire come creare le condizioni perché l’innovazione si realizzi e si trasmetta.
L’ultimo punto è forse il più importante. Perché creare le condizioni perché l’IoT non sia solo comprato dagli italiani, ma anche generato, parte proprio dalla capacità di un ambiente favorevole all’impegno nell’IoT da parte delle imprese ICT e quelle dei settori più disposti a dialogare con esse. E’ già avvenuto per l’automazione industriale, dove l’Italia è all’avanguardia. Non è avvenuto ancora a pieno titolo nell’ambito dell’ICT, ove si fatica ancora a capire quanto convenga avere non solo un mercato, ma anche un settore ICT forte.
Per creare quelle condizioni è importante procedere su almeno quattro fonti.
Il primo è quello di estendere i benefici fiscali per l’acquisto di beni IoT a tutte le possibili merceologie di punta, perché l’Iot entra nei prodotti e nei servizi più disparati.
Il secondo è quello di incentivare, sempre con un alleggerimento della fiscalità, gli investimenti e le progettualità che le aziende di tutti i settori possono avviare assieme alle aziende ICT per innovare i prodotti e i servizi di sempre.
Il terzo è quello di creare le condizioni affinché le PMI, ICT e non, possano trovare sul mercato soggetti capaci di dare loro le capacità progettuali e le piattaforme di servizio necessarie (standard, connessioni, server e applicazioni in cloud).
Il quarto è di far si che la PA e le entità concessionarie di pubblici servizi qualifichino al massimo i progetti che già includono in maggiore o minor misura applicazioni IoT – a partire da trasporti, dalla sanità e dai servizi energetici e urbani – in modo da consolidare quei riferimenti che oggi ancora mancano. Senza spese aggiuntive, ma a vantaggio di tutti.
In sintesi l’IoT è una delle frontiere tecnologiche che aprono opportunità di nuovi servizi ed applicazioni con ricadute a tutto vantaggio della nostra economia e c’è da augurarsi che non costituisca l’ennesima area di ritardo per l’ICT italiano.
L’Italia è frenata da un “Cuneo Tecnologico” che oggi vale 26 miliardi di euro, visto che questo è il divario tra la spesa ICT italiana (poco più di 65 miliardi di euro nel 2013) e i 91 miliardi di euro che spendono in media ogni anno i gli altri Paesi Europei.
Se il Cuneo fiscale soffoca le imprese per l’eccessivo costo del lavoro il Cuneo Tecnologico le penalizza, insieme all’intero Paese, in termini di crescita e di competitività.