#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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L’audience è da tempo oggetto di una costante attenzione da parte dell’accademia e a giusto titolo. La pressione concorrenziale esercitata dai nuovi media su quelli tradizionali deve essere decodificata per capire come si trasforma quell’entità familiare al pensiero politico occidentale contemporaneo chiamata “sfera pubblica”.
E le interpretazioni che si contendono il campo a questo riguardo sono due. Del tutto antitetiche, come ci ricorda lo studio recentissimo di un professore della Northwestern University che è specialista della materia: James G. Webster autore di The marketplace of Attention, MIT, 2014.
La audience al tempo dei nuovi media
La prima lettura è ottimista. La disponibilità di media alternativi arricchisce il “mercato delle idee” aprendo inediti circuiti di offerta e di dibattito.
La seconda ritiene invece che i nuovi media digitali frammentino l’audience in una pluralità di riserve informative chiuse e autoreferenziali, compromettendo in modo radicale il carattere di generalità della sfera pubblica di discussione.
Il nodo, più che concettuale, è empirico: come si atteggia realmente il consumatore di prodotti audiovisivi?
L’homo videns
Gli ottimisti ritengono che l’homo videns sia un essere onnivoro. Grazie agli strumenti che gli conferisce la digitalizzazione, consuma i prodotti in modo consapevole e innovativo, scegliendo il menu e le combinazioni. Quello che si chiama l’empowerment offerto all’individuo dalla rivoluzione digitale avrebbe alterato i rapporti di forza: non è più l’editore che definisce la sfera della rilevanza ma è l’utente.
Al polo opposto, i pessimisti ritengono che la rivoluzione digitale crei le premesse per la creazione di “comunità recintate”. Gli individui utilizzano i media non lineari per cercare conferma delle loro preferenze e soprattutto dei loro pregiudizi.
In questo sono incoraggiati dai sistemi di rilevamento delle preferenze utilizzate dai pubblicitari e dai grandi motori di ricerca, nonché da un televisione come Netflix. Sistemi che – come possiamo constatare abitualmente – una volta intercettate le nostre preferenze, o supposte tali, ci indirizzano materiale “filtrato” alla luce della griglia che ci rappresenta.
Il risultato non è l’utente onnivoro ma la dieta rigidamente selezionata. L’esito è la disintegrazione – non la trasformazione – della sfera pubblica. Orbene il Professor Webster prende la parola per confortarci: nessuna delle due letture è convincente, poiché il dato del tutto prevalente nella ricerca empirica è quello dell’uso polivalente dei media.
I grandi successi di pubblico continuano ancora a d attirare l’attenzione dell’audience a dispetto di una crescente “coda lunga” di contenuti e informazioni specialistiche, che non ha però il potere di distrarre dalla fruizione degli eventi premium.
La popolarità rimane la regina dell’audience
Fin qui il messaggio è rassicurante: il menu è articolato: molti i contenuti in grado di integrare un grande pubblico e, in aggiunta, tanti menu à la carte. La funzione unificante della comunità nazionale intorno ai contenuti tradizionali è confermata, perché non seriamente intaccata dai nuovi media. Ma quello che è il dato forse più rilevante si trova altrove, in un fenomeno di cui il Professor Webster conferma la rilevanza: l’”infotainment” ossia l’ibridazione del genere intrattenimento con quello informazione.
Il fattore infotainment
L’acculturazione politica alle notizie dell’audience non avviene attraverso i canali ortodossi – telegiornali, programmi di approfondimento – bensì lungo sentieri del tutto eterodossi. Lo spettatore, frenato da noia e scetticismo verso le news, tende a volgere la sua attenzione nei confronti dell’intrattenimento leggero il quale diviene il canale privilegiato per l’assorbimento di messaggi e valori politici.
Il problema è quindi in modo del tutto inconsapevole. Esseondo la soglia di vigilanza molto bassa, lo spettatore assorbe come una spugna ideologie e messaggi che percepisce come innocui perché legati a un momento ludico.
Come cambia il pluralismo
Questa non è certo una novità assoluta nel panorama delle ricerche sui media. Eppure la circostanza che questo fenomeno incontri crescenti conferme induce a porsi qualche domanda sulla concettualizzazione del pluralismo il quale pare eludere oggi i luoghi più importanti per la formazione del consenso.
Certo non è semplice vigilare sull’infotainment: questo è certo. Ma sorge spontanea la domanda se il guardiano non guardi nella direzione sbagliata, e se non occorra avviare un ripensamento del concetto di pluralismo nel quale le potenzialità tecnologiche vengano considerate un asset e non quale un remoto presupposto.
Vi è qualcosa di irrimediabilmente datato nella ossessiva attenzione verso il telegiornale o il talk show politico quando lo spettatore è guidato dall’elementare principio del piacere: evita la noia e ricerca la gratificazione. La quale giunge carica di messaggi che provvedono alla sua acculturazione politica. La ricetta per fare fronte a questa nuova realtà non è pronta ma deve essere ancora elaborata. Forse un’altra incombenza per la nuova Commissione europea che mostra qualche intento di occuparsi anche di pluralismo politico (ad oggi competenza degli stati nazionali).