Italia
Intervista a cura di Raffaele Barberio
Ma l¿ICT italiano è realmente in una profonda crisi?
Alle manifestazioni di sfrenato ottimismo e autocompiacimento di parte della società civile e del mondo politico, fa da contro altare lo stato reale delle imprese di settore, che è uno stato di forte difficoltà, con una caduta di investimenti e di ottimismo.
Abbiamo chiesto al professore Gianni Celata, docente di Economia dell¿Informazione e della Comunicazione all¿Università La Sapienza di Roma, oltre che direttore generaledel Distretto Industriale dell¿ICT e dell¿Audiovisivo della Provincia Roma, una sua valutazione sullo stato del mercato. Il quadro che ne scaturisce è decisamente controcorrente e forse, proprio per questo, molto più realistico. Ve lo proponiamo con l”auspicio che esso possa rappresentare una concreta contribuzione ad un dibattito più reale.
D. Secondo le previsioni, la crescita dell settore ICT per il 2003 potrà variare da 1,4% a 1,8%. Si tratta di una crescita contenuta: abbiamo alle spalle due anni davvero duri. Eppure, convegni e analisi lasciano prevedere grandi prospettive. Ma è ottimismo di facciata? Qual¿è lo stato attuale delle cose?
R. Se per ICT si intende anche e soprattutto le telecomunicazioni, allora viene fuori un dato inevitabile e incontrovertibile: per quanto bassa, la crescita c¿è ma va accreditata esclusivamente alle telecomunicazioni. Ne rimangono fuori il software e l¿informatica. Quindi, la realtà è quella di un settore come quello delle telecomunicazioni che resiste e anzi guadagna punti, trascinato dal mobile, mentre l¿IT paga il prezzo di una dura crisi che ormai si protrae da quasi due anni e di cui non si vede ancora la fine.
D. In questo quadro non univoco, l¿impressione che si ricava dalle azioni di legislatori e decisori è prevalentemente quella di iniziative a favore della domanda, con la politica degli incentivi. Ma è proprio questa la politica da seguire e considerare come prioritaria, oppure si può fare dell¿altro?
R. La strada degli incentivi sicuramente dà i suoi frutti. Pensiamo agli incentivi per la DSL, ossia per la banda larga. E sviluppare il broadband significa favorire anche lo sviluppo delle applicazioni software. E ciò si traduce in un incentivo al consumo di hardware e allo sviluppo della rete. Quindi è da considerarsi una strada giusta.
Tuttavia, io credo che non ci sia una vera consapevolezza di questa crisi. La mia impressione è che questa situazione è destinata a perdurare e se guardiamo ai livelli occupazionali che saltano rischiamo di perdere nel giro di un anno il 20% del settore. Parliamo di decine di migliaia di posti di lavoro qualificato. Va inoltre detto che sono cifre che si riferiscono ad aziende del cui stato di crisi non si ha notizia, come avviene per i colossi come la Fiat. Eppure, si tratta di una crisi profonda che riguarda principalmente regioni come la Lombardia e il Lazio, ovvero le più popolose, dove le produzione aziendale di settore è oramai intaccata da migliaia di ore di cassa integrazione.
Questo avviene perché le grandi corporate bancarie e di telecomunicazioni hanno ridotto gli investimenti, così come scarsi si dimostrano gli investimenti diretti del governo per lo sviluppo dell¿eGovernment.
D. Questo quadro di forte difficoltà è da ricondurre al solo tessuto delle piccole e medie imprese?
R. Assolutamente no. La crisi è profonda e radicata. Non risparmia nessuno, neanche le grandi imprese nazionali o multinazionali. Certo le grosse società riescono meglio a tamponare la crisi, ma questo non significa che non ne paghino seriamente le conseguenze.
D. Le difficoltà dell¿industria di settore spingono gli imprenditori verso la ricerca di nuovi strumenti finanziari o nuove aperture di credito. Vi è una grande caccia al denaro, per affrontare la crisi. Ma questo permette solo di intervenire sugli e non di rimuovere le cause?
R. Le cause si riassumono tutte nel problema di fondo che l¿Italia rimane un Paese che investe poco in tecnologie informatiche e di Rete. Questo è il dato drammatico. E soprattutto ad investire poco è soprattutto la Pubblica Amministrazione, rimanendo così carente nei confronti sia delle imprese che dei cittadini. Parallelamente, investono poco le grandi corporate bancarie, assicurative e industriali. Infine, investono poco le grandi aziende di telecomunicazioni, dopo la sbornia degli ultimi anni Novanta.
Lo ribadisco: siamo un Paese che investe poco in tecnologie.
Questa è l¿origine principale dell¿attuale crisi nazionale dell¿ICT, i cui effetti si riversano anche all¿esterno dello stesso segmento in questione, senza rimanere perciò un fenomeno circoscritto.
Vorrei inoltre osservare come nel Paese accusiamo anche una mancanza di capacità di competizione. Competere, in un sistema globalizzato, significa utilizzare tecnologie ICT, impiantandole nei processi produttivi. Chi lo fa ne beneficia in termini di competitività e produttività, chi non lo fa rimane indietro. E non siamo indietro.
D. Professore, ne vien fuori un quadro a tinte fosche. È un problema di cultura di impresa o di mancanza di visione strategica? E¿ un problema di organizzazione o una carenza di vision?
R. Entrambi. In molte realtà l¿ICT non è mai diventata vision, figuriamoci in un Paese come l¿Italia che stenta a coniugare la scientificità e la ricerca tecnologica con i suoi paradigmi pubblici e privati. Noi facciamo fatica. E rimaniamo inevitabilmente in fondo alla lista. Non c¿è vision e non c¿è mission sufficiente da questo punto di vista.
Paradossalmente, noi potremmo persino fare a meno di tali strategie di ricerca tecnologica, se almeno riuscissimo a essere un Paese in grado di organizzare le proprie strutture produttive e dei servizi, nella Pubblica Amministrazione e nell¿Industria, secondo le nuove tecnologie.
La ICT è un salto di paradigma tecnologico e quindi richiede che la utilizzazione dei computer e della Rete non rimanga circoscritta ai singolo posto di lavoro ma coinvolga l¿intera organizzazione delle aziende e dei servizi. Questo salto, lo ripeto ancora, non c¿è stato nel nostro Paese ed è tuttora poco presente persino in Europa.
D. Trasversalità nelle applicazioni e trasversalità nei settori quindi?
R. Riorganizzazione, direi. L¿ICT non è un settore che vive per se stesso. È come l¿energia: è uno strumento per produrre. Produrre nell¿industria manifatturiera e produrre nei servizi. Pubblici e privati.
Se si riuscirà ad organizzare questi meccanismi, modulandoli secondo le nuove tecnologie ¿ così come l¿industria manifatturiera si è organizzata intorno alla catena di montaggio ¿ allora ci sarà un salto di qualità e produttività.
D. Convergenza per convergenza, lei dirige un distretto alquanto originale nella sua formulazione, che mette insieme ICT e mercati dell¿audiovisivo.
R. Certo, proprio perché sin dalla sua nascita voleva e vuole assumere in sé un significato profondo: l¿ICT, l¿IT e le telecomunicazioni non vivono da sole, ma permeano tutti gli altri settori. Questa invasività e pervasività, come dimostrano gli Stati Uniti, costituiscono una straordinaria opportunità di crescita in termini di competitività e produttività.
Una recente analisi sugli USA ha rivelato che, mentre la crescita della produttività degli anni Novanta era da imputarsi principalmente all¿aumento di produttività nei settori della IT e delle telecomunicazioni, oggi la crescita di produttività nell¿economia americana è dovuta essenzialmente alla nuova organizzazione del lavoro, nelle aziende e nelle corporate, sulla base delle nuove tecnologie ICT. La crescita odierna, quindi, è da imputare alle imprese manifatturiere e dei servizi che hanno imparato ad organizzare le proprie strutture in modo nuovo, proprio in funzione delle tecnologie ICT.
D. Il ministro Stanca ha sottolineato, nei giorni scorsi, l¿esigenza, per il nostro Paese, di un quadro unico che raccolga tutte le norme sull¿uso della tecnologia. Regole e mercato, quanto dell¿uno e quanto dell¿altro? Noi italiani, rischiamo spesso di avere un buon impianto di norme o un¿attenzione particolare per le regole, ma senza avere alle spalle un mercato fortemente competitivo?
R. Quando sento dire: ¿creiamo una commissione per¿¿ oppure ¿inquadriamo questo in una normativa complessiva¿¿ credo che si voglia perder tempo. Non è certo questa l¿intenzione del ministro Stanca, ovviamente, ma qui non c¿è da inventare normative quadro o commissioni di studio.
La questione è una sola: non è un caso che in Europa si sia parlato di internet soltanto cinque anni dopo che negli Stati Uniti si fosse già consolidato come driver di sviluppo, di produttività e di rinascita economica, dopo quel declino degli anni Ottanta che da molti era visto come irrecuperabile. Non c¿è da studiare, semmai da leggere l¿esperienza degli altri e farla propria.
Abbiamo un Ministro per questo. Che stimoli davvero il Bilancio Pubblico a stanziare finanziamenti per la Pubblica Amministrazione; orienti in questo senso anche la Comunità Economica Europea.
Bisogna fare atti concreti, usare le leggi che ci sono e trovare finanziamenti. Certo, agendo anche con un¿ottica ragionieristica nel Bilancio Pubblico che ormai non è più seguita neanche dai due maggiori Paesi europei, Germania e Francia.
D. Per concludere, un rischio e un auspicio per il 2004.
R. C¿è poco da essere ottimisti, se le cose non cambieranno. Ma se da un lato sono pessimista sulla capacità del nostro Paese e dell¿Europa di tracciare un proprio sentiero di sviluppo, dall¿altro ho anche una spinta di ottimismo, perché i segnali che ci vengono dagli Stati Uniti e dai Paesi asiatici sono segnali positivi, di ripresa economica, alla quale probabilmente ci agganceremo, pur senza interpretare un autonomo o una capacità di leadership.
Auspico, quindi, che la ripresa americana e dei Paesi orientali si consolidi affinché possa trainare anche questo vecchio continente, che ormai rischia di guardare alla propria economia dallo specchietto retrovisore.