Italia
di Raffaele Barberio Il cinema italiano deve interrogarsi sul proprio ruolo nel nuovo contesto di competitività e di globalizzazione dei mercati. Parliamo del futuro di un grande settore, un settore che non è un¿isola sperduta nel mare delle dinamiche del mondo della comunicazione. E¿ un settore che non solo non è rigidamente perimetrato o incontaminato, al punto da estraniarsi dal resto, ma che anzi si alimenta della realtà che lo circonda alimentandone, tendenze e visioni del mondo. E¿ un settore strategico dell¿industria multimediale che ha bisogno di poggiare saldamente i piedi nell¿economia, continuando a lasciar correre la mente nell¿immaginario.
Gli elementi di riflessione non mancano. Emergono segni di risveglio della cinematografia nazionale. Vi è un impegno chiaro del ministero competente attraverso il quale si sta perseguendo l¿obiettivo di un ripensamento degli strumenti normativi attuali, con il fine di orientare un nuovo sviluppo del settore. Si sta infine sviluppando, tra molti operatori, la consapevolezza di quanto sia necessaria una nuova cultura d¿impresa nell¿intero comparto del cinema.
Si intravedono quindi molte luci, che ci dicono che il cinema italiano è in forte ripresa, segnata dalla crescita degli incassi e della quota di mercato della produzione italiana, infine aumentano gli investimenti. E il contesto europeo non è da meno. Entro il 2005 in Europa il settore dovrebbe registrare la creazione di ulteriori 850.000 posti di lavoro, aggiuntivi rispetto al 1.250.000 occupati attuali.
Al cinema italiano vengono oggi riconosciute sceneggiature solide che si accompagnano alla crescita di una nuova leva di ottimi interpreti. Si sta inoltre assistendo alla nascita di una generazione di giovani produttori, capaci e desiderosi di misurarsi con il mercato internazionale.
Uno scenario che indica come il nostro cinema stia attraversando un momento di transizione, di crescita e di ricerca di nuovi linguaggi espressivi, di nuove tecnologie, di nuove concezioni del rapporto con il pubblico e con la distribuzione, infine di nuovi e più efficaci modelli produttivi.
Ma assieme alle luci non mancano le ombre.
La sfida del cinema italiano verso i mercati internazionali si gioca, qui come altrove, sulle dimensioni competitive, non raggiungibili senza il sostegno dell¿industria e, ancor di più. In Italia la filiera è ancora troppo polverizzata e poco concorrenziale, il che penalizza gli sforzi di internazionalizzazione: un male comune, peraltro, a quasi tutto il cinema europeo.
Sono pochi i film europei che riescono a veleggiare sui mercati internazionali, con successi di sala o di distribuzione televisiva presso il pubblico straniero. Il Paese con maggior vocazione all¿esportazione è la Gran Bretagna, che riesce a lanciare con successo sui mercati internazionali il 30-35% della propria produzione. Seguono la Francia (20%) e, solo dopo, su valori pressoché simili, Italia, Germania e Spagna con una percentuale che si assesta intorno al 10%. Il volume delle produzioni europee è drammaticamente diminuito negli ultimi venti anni.
Sulla realtà del cinema italiano hanno forse pesato anche alcuni caratteri propri del nostro Paese.
Innanzitutto una diffusa mentalità, un radicato stato mentale, che per molti anni ha sostenuto che il cinema è manifestazione prioritariamente artistica e, come tale, artigianale e distante dai condizionamenti mercantili e finanziari.
Ciò ha contribuito ad inibire il rischio e la propensione all¿investimento da parte degli imprenditori di settore, che hanno comodamente preferito situazioni più garantite, quando non assistite, a scelte coraggiose e più orientate ad una mentalità imprenditoriale.
Il risultato è stato un freno alla crescita e allo sviluppo che ha portato nel corso degli anni a moltiplicare le strutture di piccole dimensioni ed a polverizzare eccessivamente l¿intero comparto, inibendo o riducendo qualunque possibilità di confronto spendibile con i concorrenti internazionali o, almeno, con quella parte di essi commercialmente più aggredibile.
Per decenni in Italia ed in Europa si è debitamente, quasi pervicacemente, evitato l¿incontro compiuto tra qualità e mercato, come se quest¿ultimo potesse contaminare demoniacamente l¿opera dell¿autore.
E così tra America ed Europa si è creata una distinzione netta di modello di business.
In America si è affermato quello che potremmo definire come un ¿modello democratico¿, determinato dalla tirannia del box office, mentre in Europa si è sviluppato un ¿modello aristocratico¿, in base al quale lo Stato decideva quali fossero i film da finanziare, anzi che il contribuente, indirettamente, avrebbe finanziato.
Appare del tutto evidente come tutto ciò non abbia molto senso.
Solo di recente si è avvertita con consapevolezza diffusa la necessità di superamento del dualismo tra cultura e industria, tra cultura alta e cultura-bassa, che potranno e dovranno, semmai, convivere assieme in un unico sistema-industria.
Occorrerà superare il pregiudizio antico, storicamente radicato in Italia ed in Europa, tra produzioni di basso spessore artistico per il grande pubblico e produzioni colte ma di scarso appeal commerciale.
Dovrà svanire la dannosa contrapposizione tra valutazioni di natura economica e quelle di natura artistico-culturale, perché sempre più spesso i film di successo commerciale saranno o potranno esse (e non vi è alcuna ragione perché non debbano esserlo) anche film di ottimo livello artistico-culturale.
E¿ bene, inoltre, che si abbandoni definitivamente l¿idea snobistica ed elitaria che il cinema si divida in film brutti e commerciali che incassano e film belli ma poco commerciali che staccano pochi biglietti. Parimenti, le componenti ideative e produttive del cosiddetto cinema commerciale e del cosiddetto cinema colto si dovranno integrare, come prima accennato, in un unico sistema industriale.
D¿altra parte, se il botteghino avesse premiato solo il cinema cosiddetto commerciale o i film spazzatura, l¿industria mondiale del cinema non si sarebbe evoluta sino allo stadio attuale.
Infine, sarà necessario usare in modo creativo il marketing.
Pianificazione e difesa della strategia di lancio prescelta dovranno soppiantare il vecchio religioso fatalismo che considerava il cinema come un¿industria irrazionale ed imprevedibile. Ritirare un film dopo pochi giorni di programmazione non può essere più considerato come un evento normale o una scarsa sensibilità del pubblico di sala, tanto più se finanziato con fondi pubblici, ma, semmai, mancanza delle regole più elementari di professionismo. Gli errori, evidentemente, sono stati commessi a monte.
Il primo ambito delle grandi trasformazioni è quello indotto dall¿avvento delle tecnologie digitali nel cinema.
In oltre cento anni di vita il cinema ha registrato solo le innovazioni del cinemascope, dell¿avvento del sonoro e del lancio del colore.
Il passaggio attuale dall¿analogico al digitale determinerà cambiamenti straordinari, tanto più se si considera la capacità espressiva del cinema e gli effetti che tutto ciò avrà sul piano dei nuovi linguaggi. Vi possono essere differenze di valutazione, riserve economiche, incertezze sugli standard, dubbi sull¿immediata fattibilità, ma la questione non è se il cinema digitale si imporrà o meno, ma quando, come, a quale prezzo, con quali prospettive.
Il processo sta già coinvolgendo un esercito di soggetti vecchi e nuovi.
A muoversi non sono solo le majors internazionali, ma anche le aziende di provenienza informatica e quelle di elettronica di consumo, tutte convergenti su una comune piattaforma tecnologica, industriale ed in alcuni casi anche distributiva, che rappresenta un mercato caratterizzato dalle straordinarie dimensioni e dalla capacità di coinvolgere settori che prima non dialogavano per nulla tra di loro.
Cinema digitale, Internet, tv digitale sovrapporranno linguaggi e funzioni e il processo sarà guidato dalle grandi organizzazioni, attraverso percorsi di integrazione industriale ed organizzativa tra settori e tra imprese.
Secondo un studio di Screen Digest di qualche tempo fa, entro il 2008 tutti i film americani saranno digitali. Nello stesso periodo in Europa la loro percentuale sarà di poco inferiore al 90%, mentre a livello globale una quota compresa tra la metà e i 2/3 dei film prodotti in tutto il mondo saranno disponibili in doppio formato, sia su file che su pellicola.
Ciò che abbiamo davanti è un imponente processo di erosione della pellicola a favore del bit.
Ma la tecnologia digitale rivoluziona anche le procedure produttive, estendendo il momento della produzione anche alla post-produzione.
In futuro i film in formato elettronico potranno essere scaricati in qualunque momento da banche dati dedicate, pagati con carta di credito, scaricati attraverso il device domestico, ma visti entro 24 ore, grazie a un software ¿esplodente¿, che dopo quella soglia temporale distrugge il materiale scaricato, il quale potrà eventualmente essere nuovamente consumato solo con un¿altra transazione. Vecchie e nuove modalità di consumo si svilupperanno in un contesto plurimediale fortemente concorrenziale, ma pur sempre compresso dai limiti invalicabili del time budget di ciascuno di noi: il giorno è fatto sempre di 24 ore ed il tempo libero non potrà superare i limiti fisiologici consentiti dalla organizzazione di vita.
Una indagine di Andersen/Screen International sul mercato americano, relativa alle previsioni di consumo cinematografico nel 2010 per i diversi canali distributivi, confrontate con i dati del 1980 e del 2000, indica l¿esigenza di una riformulazione delle strategie di alleanze delle industrie di settore e delle politiche di integrazione tra i vari settori produttivi e distributivi.
Se guardiamo al nostro Paese si pone il problema, ovvero l¿opportunità, dello sviluppo di un indotto adeguato di distretti digitali, capaci di soddisfare la domanda nazionale e di attrarre auspicabilmente, come è anche accaduto in alcuni significativi casi, operatori dall¿estero. Il distretto Italia dovrà forse tener conto di alcune specificità e, da questo punto di vista, appare utile immaginare, anzi riprendere, l¿idea di una pianta operativa multipolare, capace di mettere assieme le facilities di studio di Roma (Cinecittà) e ora anche di Terni, le competenze pubblicitarie di Milano, i saperi tecnico-scientifici dei Politecnici di Torino e Milano, come peraltro suggerito qualche tempo fa in occasione dei workshop promossi dalla Manca Nazionale del Lavoro. si su questo tema e promosso dalla Banca Nazionale del Lavoro.
Certo, la nascita di un distretto digitale italiano è segnata da difficoltà, derivanti innanzitutto dalle enormi risorse necessarie agli investimento in ricerca e alta tecnologia, proprio in un momento in cui le politiche di ricerca sembrano manifestare la propria insufficienza, assieme alle tradizionali difficoltà di aggregare professionalità e talenti di settore.
Presumibilmente, la nostra industria continuerà a lavorare in Italia e le esperienze della Interactive di Tornatore, della Digitalia Graphics di Salvatores o della Rumblefish di Nichetti appaiono incoraggianti. Ma sarà necessario lo sviluppo di una domanda anche estera, perché la domanda nazionale non sarà sufficiente. E da questo punto di vista è bene considerare che, giusto per rimanere in Europa, inglesi e francesi appaiono molto più avanti di noi.
Per tutte le ragioni sin qui citate, ci pare necessario un salto nella capacità organizzativo-industriale e nella mentalità economico-finanziaria. Il che ci porta alla seconda grande trasformazione che dovrà accompagnare il cinema.
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