Italia
di Gianni Celata
Docente di economia dell¿informazione e della comunicazione
Università di Roma La Sapienza
Diverse furono le motivazioni che portarono, a cavallo del secondo conflitto mondiale, i Paesi europei ad istituire il servizio pubblico televisivo.
La prima motivazione fu la scarsità di risorse in termini di frequenze disponibili, accompagnate dall¿ intendimento diffuso che l¿etere fosse un bene non cedibile, neppure dietro compenso.
La seconda fu l¿alto livello di ingresso richiesto dagli ingenti investimenti necessari per completare la sperimentazione, distendere una rete di diffusori ed organizzare un¿attività produttiva che aveva scarsi riferimenti.
La terza fu la convinzione che, in un contesto in cui le distanze geografiche erano un ostacolo alla diffusione dell¿informazione e della cultura, ci fosse una sorta di responsabilità culturale dello Stato riguardo a ciò, accompagnata da una responsabilità riguardo il pluralismo degli orientamenti e delle voci che il nuovo medium doveva rispettare.
La quarta motivazione fu che il sistema televisivo, per tanti motivi, fu ricalcato sull¿esistente sistema radiofonico, che era pressoché completamente pubblico. Da qui nacque anche il business model del servizio pubblico televisivo fondato sul canone in assenza di pubblicità.
Tutte queste motivazioni, oggi, a cavallo tra il secondo ed il terzo millennio si sono molto indebolite quando non sono addirittura venute meno.
Prima la televisione satellitare, poi l¿incipiente digitale terrestre stanno moltiplicando la numerosità dei canali trasportabili dalle stesse bande di frequenza. La banda larga su rete telefonica fissa e mobile sta aprendo prospettive neppure immaginate fino a qualche anno fa, di fruizione del segnale televisivo.
Il progresso tecnologico ha poi reso la soglia d¿ingresso nel settore televisivo sempre alta, ma non per gli stessi motivi. Ciò che oggi costa sono i contenuti del palinsesto televisivo, tanto più cari quanto maggiore è la concorrenza tra i network. Inoltre, le distanze geografiche si sono tremendamente ridotte. Per ripetere un riferimento d¿obbligo, il globo è divenuto un enorme villaggio dove solo l¿autoritarismo di alcuni regimi può impedire la diffusione dell¿informazione e delle diverse culture. È il bello della globalizzazione, piaccia o no. Anzi, l¿immaginare che cultura, informazione e pluralismo possano essere garantiti da un¿entità statale dà la sensazione di essere, nella migliore delle ipotesi, di fronte ad un orientamento illuminista, nella peggiore, di fronte ad una riedizione minculpop-polpottiana.
Lo stesso business model della televisione è profondamente cambiato. La televisione commerciale, la pay tv nelle sue diverse forme, la contaminazione tra ricavi da pubblicità e da canone per alcune di quelle pubbliche presentano uno scenario mutato e in continua evoluzione.
Se questa è la situazione, c¿è ancora un ruolo per la televisione pubblica? Peraltro già messo in discussione nella prima bozza di Maastrich e recuperato dalla forte azione di lobby dell¿Unione Europea delle televisioni pubbliche?
Se c¿è, non è certo quello fin qui dispiegato! Tanto è vero che la BBC, archetipo della televisione pubblica, sta soffrendo una pesante crisi d¿identità che si riflette nei suoi bilanci (-340 mln di Euro) ed in un ripensamento della sua mission che comporta una redistribuzione nel territorio dei suoi molti dipendenti (oltre 27 mila). Dall¿altro versante, la televisione pubblica spagnola, che ha vissuto la sublimazione del rapporto con lo stato con conti pagati a piè di lista, è gravata da un grave deficit di bilancio (-600 mln di Euro). Ben altra situazione registra la tv pubblica tedesca, grazie anche ad un canone (193,6 Euro) che è più del doppio di quello italiano.
La televisione pubblica italiana, così come quella francese, è finora sfuggita da queste situazioni di crisi. L¿operazione di riequilibrio dei conti e di protezione della quota di mercato, fu avviata positivamente dal cosiddetto Consiglio di Amministrazione dei professori e continuata con quelli successivi. A ciò ha concorso l¿indubbia professionalità della struttura, al di là del sovranumerario che registra la parte amministrativa dovuta alla gestione Celli che ha riportato ordine nell¿ amministrazione ma ha reso pesante la catena gerarchica e burocratica.
Questa situazione è però destinata a non reggere. Innanzitutto perché la qualità televisiva che la RAI riesce a garantire non è in linea con le attese dei suoi stakeholder: pubblico e Stato. Inoltre, perché le esigenze informative e culturali che dovrebbero essere alla base del suo servizio pubblico sono oggi assolte per una parte anche dalle televisioni private. Per alcuni osservatori, certamente ingenerosi, mentre lo schermo della televisione pubblica è occupato, salvo straordinarie eccezioni, da maghi, oroscopi, dibattiti sguaiati e strillati e da macchiette gabellate per epifenomeni sociali, ed un rispetto del pluralismo che si confonde con lo spoil system, la divulgazione scientifica, storica e l¿approfondimento serio sono delegati ad altri.
Il segno di questa dicotomia tra l¿essere e il voler essere è il contratto di servizio tra RAI e Ministero delle Comunicazioni. Documento completo, anzi troppo completo. Ci sono praticamente affastellate tutte le voci che in qualche modo sono state enunciate nei contratti di servizio dagli anni 50 in poi. Per cui è difficile accusarlo di scarsezza di indirizzi. Ma il problema sta proprio qui, nella sovrabbondanza di indirizzi. La necessità è invece scegliere la focalizzazione del servizio pubblico sulla base del nuovo scenario globale, societario e tecnologico. Guardandosi anche dalle semplificazioni. Ad esempio, alcuni anni fa, sulla traccia della gloriosa trasmissione Non è mai troppo tardi, che contribuì al completamento dell¿alfabetizzazione del paese negli anni ¿60, veniva individuato un nuovo compito del servizio pubblico nell¿alfabetizzazione informatica. Ma i tempi sono cambiati. Le velocità dei fenomeni sociali sono enormemente diverse. Non si è fatto in tempo ad affermare quell¿obiettivo, che la densità di PC nelle case italiane è arrivata ad essere pressoché pari alla media europea e cresce con ritmi superiori a quella dell¿informatica nelle imprese.
Non giova quindi provare a rileggere in chiave moderna vecchie voci. È necessario probabilmente cambiare il dizionario di riferimento.
Se così è, quale può essere una traccia da seguire?
Il sistema audiovisivo italiano soffre di alcune criticità. La prima è costituita dall¿enorme peso del sistema televisivo rispetto a quello della produzione audiovisiva. Ciò significa che tutto gira attorno al palinsesto televisivo, nulla si può all¿infuori di questo. Il risultato è una produzione cinematografica che raramente oltrepassa i confini nazionali e una produzione televisiva che vive in gran parte di format importati, senza grandi realtà societarie. Da un lato, quindi, la forte capitalizzazione delle società televisive, dall¿altro la sottocapitalizzazione della produzione audiovisiva.
Risultato di tutto ciò, anche se non diretto, è la scarsa partecipazione del paese ai processi di globalizzazione che vedono il settore media e audiovisivo in prima posizione. L¿assenza dell¿Italia da ciò, costituisce non solo un limite di sviluppo interno, ma fa anche mancare ai processi culturali globali una voce importante ed autorevole.
Stanti così le cose, questo è il terreno che si apre ad un servizio pubblico che voglia legittimarsi. Non più un obiettivo di audience e share cercato ad ogni costo sul piano interno, ma un obiettivo di qualità ed internazionalizzazione ricercato con professionalità e tenacia. Il mercato di riferimento non può più essere solo quello nazionale, ma deve essere quello internazionale.
Come assolvere questo compito? Non già trasformandosi in una major hollywoodiana di Stato, che costituirebbe una contraddizione in termini, un ossimoro economico e politico; ma agendo di supporto all¿industria privata. Quindi la Rai come una grande agenzia di sviluppo dell¿audiovisivo italiano che accompagni la capitalizzazione e l¿internazionalizzazione delle imprese audiovisive.
Il compito non è facile. Contraddice la politica dell¿intervento a pioggia finora perseguita. Ad esempio, la distribuzione degli investimenti per fiction è molto più dispersa in RAI che in Mediaset. Il compito sarebbe poi certamente facilitato da un¿industria audiovisiva che riuscisse a trovare anche in sé la forza di superare la frantumazione societaria, la dipendenza finanziaria solo dai broadcaster, l¿ottica pressoché esclusiva sul mercato interno, la scarsa attenzione, salvo importanti eccezioni, per le coproduzioni.
È uno sforzo importante che però va fatto.
Perdere la scommessa dell¿audiovisivo significa far perdere la memoria di sé al mondo. E, più prosaicamente, far perdere la propria immagine, il proprio modo di vivere, il proprio modello di consumo e quindi far avere scarso appeal per il suo territorio, le sue produzioni, le sue imprese.
Per ulteriori approfondimenti, leggi:
Gli equivoci sul servizio pubblico televisivo. Triste storia di un dibattito senza fine e senza futuro – ”di Raffaele Barberio”
Zeno Zencovich: ´Il servizio pubblico televisivo? Una impostura per giustificare il controllo sulla Tv´ – ”di Vincenzo Zeno Zencovich”
Il servizio pubblico in Italia? Un albero senza radici – ”di Flavia Barca”
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