l'analisi

Scuola, università e ricerca nella Finanziaria 2025. Il nesso inscindibile tra cultura e qualità della democrazia

di Fernando Bruno, giornalista e scrittore |

Scuola, università e ricerca nella Finanziaria 2025. E' stato fatto abbastanza? Si poteva fare di più? E se sì, in quale direzione?

Con l’approvazione definitiva da parte del Senato, il 28 dicembre, la Legge Finanziaria ha concluso il suo iter nei termini previsti e si può quindi cominciare a ragionarne nel merito. Concentrerò la mia attenzione su quelli che nel testo dell’originario disegno di legge erano gli articoli 84-87 (scuola, università e ricerca, cultura) e che nel testo definitivo (legge 30 dicembre 2024, n. 207) compongono i commi 565 e seguenti dell’articolo 1. In particolare, proverò a rispondere alla domanda: è stato fatto abbastanza? Si poteva fare di più? E se sì, in quale direzione?

Vediamo innanzitutto cosa è stato fatto.

La misura fondamentale dell’originario articolo 84 (ora articolo 1, commi 565-571)finanzia il Fondo per la valorizzazione del sistema scolastico (gli aumenti contrattuali per il personale) per un importo di 122 milioni per il 2025, 189 milioni per il 2026 e 75 milioni a decorrere dall’anno 2027.  Per il ministro Valditara si tratta di una misura soddisfacente, con aumenti superiori al passato, e dell’ordine del 6% medio. Di diverso avviso, ovviamente, le categorie interessate e i sindacati (una nota del sindacato scuola CGIL sottolinea che lo stanziamento coprirebbe solo 1/3 dell’inflazione 2022-2024). In mezzo ci sono i numeri, ad esempio quelli diffusi nel Rapporto Ocse – Education at glance 2024, che certificano che gli insegnanti italiani restano tra i meno pagati d’Europa.

L’articolo 85 (ora articolo 1, commi 572-574) rifinanzia la Carta docenti (fino a 500 euro annui spendibili in attività o acquisti di carattere formativo e culturale), ed estende il beneficio ai supplenti con incarico annuale.

L’articolo 86 (ora articolo 1, commi 579-582) cofinanzia – con una dotazione di 150 milioni di euro per ciascuno degli anni 2027 e 2028 – le attività dei centri nazionali e dei partenariati estesi, nonché le iniziative di ricerca per tecnologie e percorsi innovativi in ambito sanitario e assistenziale. Come si evince dalla relazione illustrativa si tratta di fondi che – al ricorrere di determinati presupposti e requisiti – si affiancano agli investimenti privati a sostegno delle predette attività ed iniziative. Sul punto la Corte dei Conti, in audizione il 5 novembre scorso, ha osservato che “sorgono perplessità in ordine alla effettiva capacità della misura, anche sotto il profilo dell’impegno finanziario, di superare le principali aree di criticità: il basso livello di spesa in ricerca e sviluppo; il ristretto numero di ricercatori e la perdita di talenti; la ridotta innovazione del Paese; la limitata integrazione dei risultati della ricerca nel sistema produttivo”. Proprio con riferimento a tali rilievi, non appare casuale l’intervento emendativo sopraggiunto in extremis  (articolo 1, comma 584 della legge) che autorizza, in ambito PNRR, ulteriori 90 milioni di spesa per le iniziative di ricerca per tecnologie e percorsi innovativi in ambito sanitario e assistenziale, e che stanzia altresì 32 milioni di euro (di cui 9 per il 2025) da attribuire al CNR per l’assunzione di ricercatori, tecnologi e amministrativi, in ottica di superamento del precariato nella PP.AA. (articolo 1, comma 591 della legge).

L’articolo 87 (ora articolo 1, commi 592-594 e comma 598), infine, reca quattro disposizioni in materia di valorizzazione dei beni culturali, degli istituti e dei luoghi della cultura e del paesaggio, prevedendo al riguardo un complessivo incremento di spesa di 6 milioni di euro annui, per il triennio 2025-2027. Incremento importante, ma difficilmente risolutivo dei problemi di salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

Gli ultimi emendamenti agli articoli in commento, votati in Commissione alla Camera nella seduta del 17 dicembre, e poi definitivamente approvati, riguardano per lo più microinterventi mirati a specifiche realtà territoriali (il Biotecnopolo di Siena, l’Università di Reggio Calabria), ovvero diretti a finanziare singole iniziative (la settimana nazionale delle discipline scientifiche, l’alta formazione artistica, l’educazione sessuale nelle scuole secondarie).

Due interventi di modifica più rilevanti, inseriti all’ultimo momento nel corpo degli articoli in commento, concernono l’incremento della dotazione dei posti di sostegno per garantire la continuità didattica agli alunni con disabilità, misura che trova ora posto nell’articolo 1, comma 567 (1.866 posti per l’anno 2025-26 e 134 per quello successivo) e l’incremento (50 milioni per il 2025, 10 milioni per gli anni successivi) del contributo in favore delle scuole paritarie che accolgono alunni con disabilità (ora nei commi 570 e 571). Quest’ultimo intervento ha, peraltro, sollevato molte critiche e molte obiezioni, atteso che si tratta della ennesima misura di sostegno a beneficio della scuola privata, in un contesto in cui persiste una cronica penuria di risorse a favore della scuola pubblica.  Entrambi gli interventi sono realizzati attraverso corrispondenti tagli di spesa. Il primo, in particolare, è effettuato mediante corrispondente riduzione delle risorse del Fondo per la valorizzazione del sistema scolastico. Si tratta in sostanza di novità che non mutano strutturalmente il quadro descritto e non cambiano la sostanza del ragionamento svolto in questa sede.

Come si evince dal dossier 30 ottobre 2024 degli Uffici Studi di Camera e Senato, nella Finanziaria 2025 gli interventi di spesa per “cultura, ambiente e qualità della vita” assorbono lo 0,8% del bilancio pubblico – circa 7 miliardi di euro – di cui meno della metà afferenti alla sola voce “cultura”, il che, secondo i dati Eurostat 2022 (gli ultimi disponibili), ci colloca al quartultimo posto del ranking UE a 27. Quindi, la risposta alla prima domanda la danno già gli Uffici del Parlamento. Per scuola, formazione e cultura non si fa abbastanza. E questa Finanziaria non fa eccezione. E quindi sì, certamente si poteva fare di più.

In che direzione? Beh, ad esempio, più che saccheggiare ancora una volta i fondi del PNRR a caccia di soldi per il Ponte sullo Stretto – un progetto cui la legge di bilancio 2025 ha sacrificato oltre 3 miliardi di euro, sottratti ad altri investimenti, e per il quale è prevista ad oggi una spesa complessiva di 13,5 miliardi – sarebbe stato assai più utile dirottare questa montagna di soldi su scuola, servizio sanitario nazionale e riassetto idrogeologico, ossia investire sulla cultura, la salute e la sicurezza dei cittadini. Ma non lo si è fatto.

Il Rapporto CENSIS sulla situazione del Paese, pubblicato il 6 dicembre, fotografa l’esistenza di un diffuso e crescente stato di incertezza, paura e fragilità. Tutti i dati a disposizione raccontano che c’è una porzione in crescita di popolazione a rischio di esclusione sociale. E i dati sulla povertà assoluta e relativa (si veda il Rapporto Caritas 2024) aggravano il quadro. Tutto questo, ha inevitabili effetti sui consumi culturali. Metà dei cittadini italiani non legge, semplicemente. Solo un quarto della popolazione dice di leggere almeno tre libri l’anno. Gli altri consumi culturali non vanno meglio. Secondo l’ISTAT (Statistiche culturali 2022) la frequenza di teatri, cinema, mostre e spettacoli è ancora inferiore al periodo pre-covid.  Ma assumendo a parametro l’anno di picco, ossia il 2019, scopriamo che il 35% degli italiani non ha partecipato in quell’anno a un solo evento culturale. Oltre un terzo di italiani adulti che non va mai a teatro, al cinema, al museo, ad ascoltare musica: un deserto. E l’indice DESI della Commissione UE ci conferma di anno in anno che siamo in coda anche quanto agli indici di alfabetizzazione digitale.

Qualche spensierato esegeta della legge Finanziaria potrebbe persino arrivare alla strampalata conclusione che è comprensibile non aumentare gli investimenti in scuola, cultura e formazione, atteso che una larga maggioranza di concittadini si dimostra del tutto indifferente al problema. Mi piace pensare il contrario: più estese sono le fasce di popolazione sostanzialmente estranee ai circuiti culturali, più forte dovrebbe essere l’attenzione delle policy pubbliche su questo fronte. E non è difficile capire perché.

Le difficoltà strutturali dell’istruzione pubblica, a tutti i livelli; un’alfabetizzazione di base del tutto insoddisfacente rispetto alla complessità degli ecosistemi digitali in evoluzione; la sostanziale estraneità di milioni di concittadini dal circolo virtuoso dei consumi culturali (lettura, teatro, cinema, mostre), rende più fragili i nostri regimi democratici: perché dove la cultura si ritrae, prevalgono pregiudizi, letture elementari, atteggiamenti di chiusura. Ne abbiamo avuto un saggio potente in epoca Covid, quando tutti i sondaggi condotti sul campo hanno fotografato una diffusa e incredibile fuga negli stereotipi dell’irrazionale più spinto da parte di fasce importanti di popolazione.

Ci sono dinamiche inarrestabili (i flussi migratori; l’impoverimento; l’analfabetismo digitale; l’invecchiamento della popolazione) il cui sommarsi ci rende sempre più vulnerabili e fragili, potenziando le legioni dei “sonnambuli”, per replicare l’immagine coniata dal Rapporto CENSIS 2024.

Ecco perché – e torno alla Finanziaria 2025 – quelle poche cose scritte nei quattro articoli commentati in premessa, sono poco o niente rispetto alla sfida immensa che abbiamo davanti. È chiaro che la partita è complessa, e che una Finanziaria è il precipitato di compatibilità, strettoie e compromessi di ogni tipo. Tuttavia, serve almeno che si abbia piena consapevolezza del nesso inscindibile tra gli investimenti in scuola, cultura e formazione e la tenuta dei nostri ordinamenti, tra diffusione della cultura e qualità della democrazia.

L’impoverimento culturale, la crisi delle nostre istituzioni formative di base, la insufficiente attenzione riservata agli investimenti in scuola e formazione, costituiscono un fattore di rischio rilevante e un’aggravante potenzialmente esiziale per le nostre fragili democrazie. Una Finanziaria, da sola, non può evidentemente farsi carico della soluzione di questi problemi, ma il messaggio che dovrebbe arrivare dalle policy pubbliche è che scuola, formazione e cultura sono snodi ineludibili per la qualità dei nostri ordinamenti.

Forse suonerà un po’ retorico, ma è incontrovertibile che il secolo dei Lumi, più che sulle picche dei rivoltosi della Bastiglia (dove un ridotto manipolo di soldati teneva sottochiave sette prigionieri), vinse la sua battaglia contro le monarchie di diritto divino d’Europa, allorché la cultura, nel corso dei decenni, prese a uscire dalle corti, dalle accademie e dai monasteri, per farsi incontro alle persone, attraverso i giornali, i caffè, i circoli letterari.

Ciò che servirebbe ancora oggi – lo ripeto da tempo – è una Encyclopedie per il terzo millennio; qualcosa capace di dare la misura che esiste una salda bussola pubblica non rassegnata a consegnare le nostre democrazie a poche piattaforme digitali private, potenti come Stati, e in grado governare i processi formativi e informativi, a forgiare le opinioni pubbliche dei prossimi decenni, a controllare i mercati pubblicitari e il mercato delle idee, sia nella forma classica dell’influenza dominante, sia in quella emergente di gatekeeper; una cosa, per dirla con Diderot, in definitiva «capace di sommuovere tutto, senza eccezioni e senza riguardi», come tutto sommossero, senza riguardi, «Il Caffè» dei fratelli Verri, il sarcasmo antinobiliare del Parini, la rivoluzione giuridica di Beccaria.

Nel contesto di povertà vecchie e nuove, e di espansivi processi di esclusione sociale, esiziali per le sorti delle nostre democrazie, ritrarsi dal convincimento che, per contrastare queste derive, occorre puntare anchesu una nuova stagione di riscossa della scuola pubblica (ovviamente in una versione all’altezza della rivoluzione digitale in corso) e dei consumi culturali, sarebbe un errore imperdonabile.

Se si smarrisce quella consapevolezza, se si lasciano milioni di cittadini lontani ed estranei ai circuiti di generazione del sapere, se non si bloccano i processi di marginalizzazione ed esclusione su cui prosperano le ideologie dell’indifferenza e dell’odio, è più facile che prevalga un pensiero sinistro che ha già infiltrato la vecchia Europa, e che sostanzialmente sussurra (ma presto potrebbe urlare) che non è vero che la democrazia politica è il migliore dei regimi possibili. Dall’Austria, al riguardo, arriva in questi giorni l’ultimo (solo l’ultimo in ordine di tempo) preoccupante segnale d’allarme.

Ecco perché una Finanziaria deve poter fare di più per scuola, formazione e cultura.

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