IL COMMENTO

L’Italia del Censis: impauriti e ignoranti con una produzione industriale che cala da oltre un anno. Verso declino e deindustrializzazione?

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Siamo la seconda manifattura d'Europa ma ultimi per produttività, per laureati e per scolarizzazione media, tra gli ultimi nel tasso di occupazione di giovani e donne quindi lanciando un “allarme educativo e demografico” con aumento dei contratti precari.

Da tempo sapevamo che la nostra crescente “ignoranza o incultura” si accompagnava alla nostra bassa produttività, fonti della nostra fatica ad innovare in mondi digitali ed eco-sostenibili, ma ora il Censis lo conferma. Si rileva bassa scolarizzazione, alti abbandoni, basso livello di laureati, bassi livelli di specializzazione del lavoro e dunque profili scarsi e bassi salari che accompagnano bassissimi tassi di attività femminili e giovanili.

Una tesi che porta alla seguente conclusione: abbiamo vissuto di rendita arretrando negli ultimi 30 anni mentre il mondo è volato nelle tecnologie, nell’innovazione, nella qualificazione del lavoro e nei tassi di crescita della produttività crescendo con giovani e donne.

Siamo la seconda manifattura d’Europa ma ultimi per produttività, per laureati e per scolarizzazione media, tra gli ultimi nel tasso di occupazione di giovani e donne quindi lanciando un “allarme educativo e demografico” con aumento dei contratti precari.

Siamo “ignoranti e culturalmente impreparati” – dice il Censis – che conferma quanto rilevato nei test Invalsi negli ultimi anni: ignoranti in storia e letteratura e debolissimi nelle materie Stem di cui l’industria ha un bisogno primario. Questo ci indebolisce in termini di efficienza, produttività e competitività. Non stiamo solo “galleggiando” ma arretriamo nei potenziali imprenditoriali, manageriali, di innovazione e qualità del lavoro, come nei modelli organizzativi e di business.

Ma già Tullio De Mauro sollevava questo problema oltre 25 anni fa parlando di “analfabetismo funzionale”, e purtroppo siamo ancora qui. Perché la lingua (alla base anche delle materie tecno-scientifiche) – per De Mauro – “non era solo uno strumento per dare ordine al pensiero e comprendere il mondo, ma anche per avere completamente accesso ai propri diritti, alla cittadinanza, in definitiva un mezzo per creare una società più giusta” e dunque alla base della coesione sociale come potente fattore di crescita. E dunque “più competitiva”.

Non siamo più la prima palestra imprenditoriale d’Europa e così nelle start-up innovative, nella quale rincorriamo e ci indeboliamo nelle capacità competitive dei nostri sistemi di impresa che faticano a trovare le risorse tecniche e manageriali per competere a livello globale e dunque scendiamo nei ranking internazionali con la produzione industriale che scende da 21 mesi (con contrazione del 4% a settembre 2024 sull’anno precedente). Con la formidabile contraddizione tra aumento occupazionale e riduzione della produzione e del reddito nell’aggregato tra declino e deindustrializzazione, spiegato in buona parte dal gap culturale e formativo e dunque dalla caduta di investimenti tecnico-innovativi (pubblici e privati).

Una società che cambia con il 65% delle famiglie costituite da “single”, frantumandosi dunque il collante fondamentale della solidarietà della società italiana degli ultimi 150 anni che ne ha fatto la forza industriale primaria spingendola verso individualismi ed egoismi e “grandi solitudini” oltre che verso invecchiamento e denatalità (48 anni l’età media).

Il 57% degli italiani si sente minacciato dagli stili di vita dei migranti ma l’industria e i servizi sociali ne hanno bisogno. Il 55% delle famiglie dichiara risparmi in diminuzione nel biennio. Il tasso di occupazione aumenta ma rimane per il 9% sotto la media europea e siamo ultimi con una produzione manifatturiera che nell’ultimo biennio è scesa del 3,4% e invece un aumento del turismo del 19% nell’ultimo decennio.

Se ci stiamo deindustrializzando dovremmo agire e presto per contrastare tale processo. Se poi – secondo il Censis – l’80% della popolazione “non crede nella democrazia” si potrebbe dedurne che si stà formando una “riserva” enorme per un partito reazionario di massa e disposto a credere all'”uomo (o donna) della provvidenza” ricordando Weimar?

Ecco perché l’Italia non cresce (a partire dall’incrocio vizioso tra fattori culturali, economici e sociali) ma “galleggia” con una riduzione del reddito lordo pro-capite reale del 7% negli ultimi 20 anni e con un blocco dell’ascensione sociale, tanto che 120 mila giovani se ne vano ogni anno alla ricerca di un futuro regalandoli dopo averli formati ai nostri competitor diretti come UK, Francia e Nord Europa o Spagna.

Dunque l’Italia sta peggio anche per un sostanziale ritardo culturale che poi fonda nuovi gap tecnologici e innovativi (digitalizzazione) e che infatti vede aumentare la povertà (assoluta e relativa) – dice il Rapporto della Caritas 2024 – arretrando certo non solo nell’ultimo biennio ma da almeno un decennio se non da vent’anni con diffuse diseguaglianze territoriali Nord-Sud che affondano nella storia ma che tali rimangono.

Nella manovra di bilancio 2025 la conferma della riduzione del cuneo fiscale (già di Draghi) e l’abbattimento dell’IRES “premiale” per incentivare investimenti e assunzioni e bonus elettrodomestici basteranno? Eppure il numero dei miliardari aumenta e i primi 6 detengono l’8% del PIL e con diseguaglianze che infatti non sono più solo economiche e sociali ma anche educative, sanitarie e ambientali. Esplodono le code per gli esami negli ospedali (anche della Lombardia) e 4,5 mil. di persone rinunciano alle cure mediche. Evidente dunque lo scollamento robusto tra narrazione di Governo e tendenze di lungo periodo anche se certo le responsabilità non si possono ricondurre esclusivamente ai due anni meloniani, eppure la situazione non migliora.

Aumenta l’occupazione ma quella povera (poor workers), infatti si contrae il monte ore lavorate deprimendo la crescita della produttività che trascina poi il reddito lordo verso il basso e dunque i salari con il potere d’acquisto taglieggiato da una inflazione ancora sensibile sospinto da un modello che continua ad essere export led ma con uno scarso o deprimente contributo della domanda interna.

Però aumentano i dividendi degli azionisti di Stellantis ( o dei grandi gruppi bancari)  ma in presenza di vendite che crollano e in un settore come l’automotive che sarà la prova del fuoco della nuova commissione di Ursula Von Der Leyen.

Noi dunque non andiamo “bene” non semplicemente perché i nostri competitors (Francia e Germania) vanno male, ma perché ci stiamo fermando nonostante la “spinta” dei 200 mil.di del PNRR che andranno a chiudersi nel 2026 e nonostante il “distacco” del Patto di Stabilità che ripartirà nel 2025 e che ci frenerà per i prossimi anni anche per questo nostro scarso adattamento alla crescita globale per fragilità degli investimenti culturali e formativi di giovani e meno giovani.

Dopo il 2026 cosa succederà in una Europa fragile, con la democrazia sotto attacco e un Trump che vorrebbe lanciare dazi “contro tutti” per proteggere America First anche verso l’Europa? Peraltro in un contesto di forte incertezza e conflitti globali nel quale il motore europeo degli ultimi 75 anni franco-tedesco si è fermato, frammentato e depotenziato, purtroppo senza sostituti né affidabili né credibili e con destre antisistema e filo-russe (proprio in Francia e Germania) che guadagnano consensi ma con ricette vecchie di chiusura protezionistica che rischiano di fermare il commercio internazionale, mentre dobbiamo provare ad aprire con Accordi Globali come quello del Mercosur dell’UE della nuova Commissione di Ursula von Der Leyen e con politiche industriali manifatturiere continentali e con fondi adeguati.

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